Con questo racconto è risultato 8° classificato – Sezione narrativa alla X edizione del “Premio di Poesia e Narrativa La Montagna Valle Spluga 2009
«In attesa»
Di fronte a me una infinita, inarrivabile, inconcepibile immensità. Un sentiero indicato da rocce e tronchi che si arrotola serpeggiando sulla montagna sino alla vetta. Lontanissima.
Prendo un respiro e mi avvio seguendo i segni rossi e bianchi. Non ho fretta, non ho caldo ne freddo e lo zaino non pesa sulle spalle.
Ho un groviglio per la testa che non ha né capo né coda, una intricata fittissima rete i cui nodi sono pensieri e le cui maglie nere sono pesi che mi strappano il fiato, mi affannano, mi si accumulano addosso come zavorre insostenibili.
Mi fermo: nemmeno un’ora di cammino. Ho sete e sono madido di sudore, ansimo e sono spaventato dalla distanza che mi separa dalla vetta. La cima della montagna è immobile ed in pace.
Quel contratto non firmato, quegli ordini che tardano, il bilancio che rifiuta di trovare la propria quadratura.
Le richieste, le spese, le polemiche, le proteste ed i colpi bassi.
Le aspettative.
La pressione, la crisi, il ritmo inutilmente frenetico in questa stasi, il confronto con mio padre, predecessore e giudice silenzioso.
Sono quasi insostenibili quegli sguardi che accompagnano parole di lode per le mie capacità ed il mio impegno.
Devi ottenere di più, massimizzare l’efficienza, affinare la perfetta macchina che produrrà il successo e soprattutto devi smettere di parlare al futuro. Devi agire e non pianificare all’infinito.
Riparto più lentamente e mi concentro sul respiro: le gambe ce la faranno se riesco a tenere a bada il fiato. Il terreno del bosco diventa molle e melmoso, mi aggrappo a rami e radici per avanzare strappando i passi dal suolo insidioso. Mi sporco di fango e muschio umido, inspiro l’aria densa del sottobosco e me ne riempio i polmoni. La montagna è fuori e dentro me, mi invade lentamente.
Supero la zona boschiva ed emergo in una mare di roccia. Mi ci avventuro felice del cambio di paesaggio, qui la pendenza è ancora più marcata, più congeniale alle mie gambe, ma devo accucciarmi e aiutarmi con le braccia. I colori intorno a me si uniformano in un alternarsi di grigio calcareo e macchie di granito più scuro. Ogni passo in avanti mi avvicina alla vetta, ma è una lotta colla forza di gravità, armato della sola spinta dei miei quattro arti.
Adesso lo zaino pesa come un macigno, tanto quanto prima sembrava leggero. Sono folgorato dalla folle idea di buttarlo, lasciarlo cadere a valle in un tonfo lontano: è un pensiero senza corpo e sprofonda nel nulla da cui è apparso. La mente tuttavia, pizzicata da questa sferzata balorda, rifiuta di restare inerte e sopraffatta dallo sforzo: la fatica diventa anzi routine e la testa si fa leggera, felice di abbandonarsi ad immagini casuali e ricordi.
All’improvviso gli altri pensieri fuggono e Lei entra nella mia testa con la violenza di una coltellata.
Non smetto di camminare e mordere le rocce mentre salgo, ma sento che il volto si è velato di tristezza.
Lei che non ho saputo amare.
Lei che mi è restata addosso come il peccato originale.
Lei che è stata la mia speranza e la mia famiglia.
Lei che, ancora oggi, punge il mio cuore, richiuso al buio sotto la mia armatura.
Scuoto la testa strizzando gli occhi. Non voglio questa tenaglia stretta alla bocca dello stomaco! Non voglio rallentare il passo e ansimare!
Sprizzando gocce di sudore fisso la cima con rabbia. È la mia sfida con il mio sangue, i miei polmoni, le mie ossa e gambe.
La pendenza è vertiginosa, ma so come non pensare a cosa accadrebbe se perdessi un appiglio. Mi tengo in equilibrio sfruttando le funi d’acciaio: una mano amica è passata prima di me e mi ha lasciato un aiuto. Oggi sembra che tutto sia qui solo per me. La montagna mi ospita in immobile attesa, le funi d’acciaio sono il mio tappeto rosso, il cielo terso ed il sole caldo sono il mio pubblico: eccomi! Arrivo!
Raggiungo un pianoro: non è ancora la vetta. Ora davanti a me ho un tratto in falsopiano, sulla ghiaia. Ultima occasione per riprendere fiato prima dello sforzo che mi porterà in cima. Da qui vedo la valle sottostante, la diga ed il fiume che la nutre costantemente. Vedo una malga e una decina di mucche al pascolo tutte intorno, la distanza le trasforma in piccole macchie biancastre mollemente adagiate su di un prato di smeraldi. Il cielo è blu come non lo ho mai visto ed una leggera brezza mi asciuga, con un brivido, la fronte madida.
Inconsapevolmente sorrido: la mente è distesa e così anche le rughe tra le sopracciglia. È la prima volta da troppo tempo.
Altri pensieri. Altro fitto intrico di sensazioni ed istinti che non riescono a prendere forma compiuta.
La giovane fiamma appena incontrata: un solo timido incrociarsi di sguardi, mentre ancora i ricordi mi appesantivano il sorriso. Non poteva essere mia, questa giovane fiamma.
Ci siamo sfiorati appena, con occhi e parole, e con un lieve abbraccio divenuto innocentemente intimo.
La sconosciuta che mi ha svegliato dal torpore in cui mi ero barricato assieme al dolore.
Questa fiamma calda e dolce, pur essendo di un altro, ha lasciato scivolare via dalla sua pelle il profumo di una storia d’amore.
E l’amica che ho scoperto donna, che ha scosso il mio sangue e lo ha fatto bollire di gioia. Inattesa l’occasione che ho sprecato.
Conservo la gioia del desiderio al posto di un inutile rimpianto e fisso nei ricordi l’attimo magico prima del bacio, che il bacio stesso forse avrebbe distrutto.
Cosa sono loro? Cosa provo per loro?
Cosa sono io e cosa provo verso me stesso?
Lassù ci sono le risposte. A poche centinaia di passi da me. Avvicinandomi avverto la presenza di Dio, ma non riesco ancora a parlargli: non avrò nulla se non la mia salita ed il mio sudore, finché non siederò su quella cima e non guarderò in basso, nel mio umile trionfo.
Arranco sulla morena che mi separa dalla mia meta, affine alla ghiaia del falsopiano che ho appena messo alle spalle, solo più insidiosa.
Sono ancora carponi, ma le mani non hanno nulla da afferrare in quel mare di rocce. Ringhio e gemo come un pazzo, sputando e sudando rabbiosamente.
Le pupille sono dilatate e la bocca, irrigidita nel sorriso di poco fa, mi disegna sul viso un’espressione folle e sofferente.
Le gambe affaticate urlano di dolore, la schiena piegata dal peso minaccia di spezzarsi. Non mi fermo. Dovessi arrivare lassù solo per morirvi, ugualmente non rinuncerò alla mia vetta.
Ultimi passi. Da quando ho iniziato quest’ultima tappa del mio viaggio non ho mai alzato gli occhi e ho fissato unicamente la ghiaia sotto i miei piedi e quella davanti a me. Cosa ci sarà adesso attorno a me? Il mondo apparirà ancora lo stesso?
Sono pochi passi! Solo pochi passi che non riesco a compiere. Perché proprio questi ultimi sforzi mi appaiono così insostenibili? Cosa mi appesantisce ancora ed a tal punto da impedirmi di avanzare ancora su questa ghiaia rugginosa e maledetta?
Le tempie pulsano furiosamente tanto che il cappello diventa stretto. Tolgo lo zaino ed avverto una pericolosa sensazione di sollievo. Desidero sdraiarmi e chiudere qui la partita, arrendermi a pochi allunghi dalla vetta. In realtà manca talmente poco, che non nulla sarebbe tolto al mio successo se mi fermassi qui.
La mente è più subdola quando il corpo si fa debole: perde forma e determinazione e si lascia indirizzare dalla pigrizia verso le conclusioni più accessibili. Ma non intendo permetterlo: bevo un sorso d’acqua e riprendo fiato senza sedermi.
Attorno a me tracce di giganti di un’altra era. Solchi di un ghiacciaio che oggi non c’è più, ma che è stato tanto potente da disegnare queste montagne secondo il proprio volere, una forza capace di prendere ciò che Dio aveva creato e plasmarlo secondo le proprie necessità.
È meraviglioso e terrificante che il pensiero di Dio richiami immediatamente l’immagine mia madre.
Ecco un’eco fastidiosa nel mio petto ed un pizzicore di rabbia alle tempie.
Su di lei non voglio speculare, non posso lasciare uscire quel che ho dentro.
Un regalo che mi è stato imposto e che deve restare lì appena sotto la pelle, in modo che ne possa avvertirne la presenza senza essere costretto a vederlo. Le mie paure, le mie preoccupazioni, le mie complesse ed effimere angosce quotidiane.
Quel pacchetto di emozioni che non mi sono concesse.
Anche io voglio il diritto di piangere ed urlare! Anche io voglio impazzire e fremere e compiere stupide azioni di cui pentirmi….
Invece no, rimani lì sotto orrenda creatura del mio inconscio.
Sei un brandello oscuro di un concetto più complesso: non ho forza né voglia di trovarti un significato fuori dalla mia mente, perciò torna nella tana fetida da cui sei uscito e restaci.
Io ho una vetta da prendere: ho pochi dolorosi passi da compiere, su di un sentiero che non esiste più e che tanto non mi è più di alcuna utilità: ora la fine è lì che mi osserva curiosa, mentre io la contemplo a mia volta, in estasi.
Sono in vetta: ho vinto io. Il cuore rallenta, le gambe si rilassano, la schiena si abbandona sulla scomoda roccia. Mi aspettava. Da prima della glaciazione tutto era lì per me, per oggi per questo momento.
Una corona di altre cime più basse sembra inchinarsi a noi. Le nubi si aprono ed il sole mi colpisce con forza il viso, mi scalda la pelle sporca di lacrime, sporca di terra, sporca della strada che hanno compiuto i miei piedi ed il mio coraggio. Ad occhi chiusi inspiro l’aria rarefatta: qui ha un profumo inebriante ed una consistenza fine. Mi irrora gli arti, traboccando dagli argini dei polmoni per raggiungere ogni remota periferia del mio corpo.
Mi guardo intorno, curioso, assaporando le mutazioni del paesaggio ad ogni cambiamento di luce. I giochi del vento tra gli alberi mi appaiono come mutevoli macchie di un verde più cupo nella sagoma indistinta del bosco giù a valle, che si scorge appena. Il fiume e la diga, visti da qui, sono splendenti macchie cangianti. Risalendo ancora con lo sguardo scorgo la neve che fa capolino in qualche anfratto rimasto in ombra.
Ora che tutto ha un senso, che il disegno sotto il caos è tornato in superficie ridando la giusta dimensione ad ogni cosa, ora posso scendere. Non ho paura e non ho dubbi. So che la mia ritrovata forza non verrà meno, mentre scendo a ritroso per la strada appena compiuta.
Nemmeno quando sarò giunto di nuovo alla mia piccola esistenza complessa e mi domanderò se ho sognato formulando questi pensieri, nemmeno allora perderò quel che ho trovato quassù, perché la vetta sarà lì in attesa, per tutti i giorni a venire.
Alberto Corba