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Alda Merini




I grandi Poeti del Novecento

Alda Merini
«La poesia è la pelle del poeta»

(Articolo di Massimo Barile – Rivista Il Club degli autori 205-206-207-208 Anno 19 – novembre 2010)


L’immagine di Alda Merini è una saetta nella stanza, con la immancabile sigaretta tra le dita, nella sua casa lungo i Navigli a Milano, con il volto orgogliosamente segnato dalle vicissitudini della vita. È il simbolo di una donna che ha superato abissi insondabili, metabolizzato sofferenze così forti da far tremare, lottato contro il destino e combattuto come una guerriera solitaria un nemico invisibile. Fino a ricongiungersi, in ultimo, ad una visione spirituale.
Nel sangue versato nelle pulsioni più violente e nel sudore del vivere quotidiano, il suo corpo è diventato “carne lirica”: la sua vita si è incarnata nella “sua” poesia.
La sostanza invisibile che promana dalla sua poesia è un quid indefinibile, divinum quoddam: è forse il mistero stesso della vita.
Le esperienze esistenziali sono diventate la materia da plasmare, miscelare, modificare, elaborare e renderla visione lirica. E questa sua trasmutazione alchemica è stata faticosa, continua e tormentata.
Gli occhi di Alda Merini dicevano tutto: quanto meno ciò che era importante per lei e volesse far capire. Le sue telefonate agli amici nel cuore della notte erano l’espressione lampante del suo tormento interiore, della sua frenesia creativa, di una insonnia feconda. Come quando era assalita dalla voglia di scrivere una poesia per qualcuno e tutto ciò che era sotto mano andava bene: tovaglioli di carta, foglietti volanti, il vetro appannato di una finestra… le nuvole.
Alda Merini era una donna incontenibile, vulcanica, dirompente e lei stessa si era definita «una piccola ape furibonda»: più volte aveva affermato e scritto «non sono una donna addomesticabile».
Eppure era capace di meditare a lungo, nel suo silenzio, soprattutto nell’ultimo periodo quando si sentiva nettamente la comunione, ancora più forte, con la dimensione spirituale, un ultimo atto di fede dopo un lungo e sofferto cammino che poteva ben definirsi un calvario.
Le sue parole possono colpire come dardi infuocati, come frecce avvelenate e, allo stesso tempo, possono permearsi di una segreta dolcezza infinita. D’altronde aveva scritto, decisa e intimamente convinta, «la casa della Poesia non avrà mai porte»: il segreto era la consapevolezza che «per farsi salvare la vita bisogna averla».
Una cicatrice nell’anima che ferisce a morte, le rinunce fatte nella vita, la constatazione che numerose persone avevano demolito il “segreto” della poesia: era una donna che si sentiva costretta “a dire la verità” pur essendo “piena di bugie” come una saggia mentitrice, cosciente del fatto che la poesia è un “raccolto assai esile”, che svanisce al primo soffio di vento.
A tale proposito, ricordo che, già nel mese di maggio del 1993, fu pubblicato dalla casa editrice Montedit, il volume di poesie e aforismi Le zolle d’acqua di Alda Merini, che racchiudeva, oltre a profonde e vibranti poesie accompagnate da fulminanti aforismi, alcune intense fotografie di Umberto Montefameglio e Luigi Maino che ritraevano la poetessa lungo le sponde del Naviglio a Milano. Nel breve tempo di due mesi furono raccolte alcune poesie scritte d’istinto e aforismi che sgorgavano spontanei dalle visioni quotidiane di Alda Merini: poi, alcune furono trascritte all’interno di un bar in Ripa di Porta Ticinese e, altre, a casa della poetessa quando lei era ancora in attesa di ottenere i benefici della Legge Bacchelli con un vitalizio dello Stato e aveva estremo bisogno di aiuto “per continuare a vivere”, a camminare lungo i Navigli: una possibilità per scrivere poesie e volare con la sua fantasia.
Proprio nelle prime pagine di questo volume ritroviamo una sorta di introduzione scritta dalla stessa Alda Merini che si intitolava, semplicemente ed umanamente, “La mia vita”. Ecco le sue parole: «La mia vita non è quella cosa drammatica e straordinaria di cui scrivono un po’ tutti. La mia vita è stata infelice e piena di pianto, ma anche meravigliosa. Se l’uomo ha l’intelligenza di capire che il male convive col bene, riuscirà a scappare traverso una feritoia e a liberarsi di tutto tramite la “menzogna” della poesia. Io sono una persona sola per libera scelta, ma questo non l’ho voluto del tutto io, l’hanno voluto anche gli altri; e se ho pianto, ho pianto sempre per gli altri, mai per me stessa, perché io sono nata ricca, felice e un pochino stramba. Non amo esser soccorsa, ma soccorrere. Non amo ricevere, ma dare. La mia infanzia è stata dolcissima, bellissima la mia adolescenza, nobili i miei cari. Orribile il manicomio nel quale i miei genitori non mi avrebbero mai messo. Il manicomio mi ha dato brutte parentele delle quali ancora fruisco. I miei genitori hanno fatto nascere la mia poesia e tutti i grandi hanno chiesto ai miei genitori il permesso di frequentarmi. Non mi sono mai addottorata per la guerra ed anche perché ero di salute precaria. Ma questo non dà il diritto agli altri di considerarmi un residuato sociale. È venuto in mente un giorno a una bravissima pseudo-infermiera che io, essendo sola, avrei avuto bisogno di un supporto morale e mi ha regalato uno sconosciuto. Sono queste le trovate della nuova scuola psicoanalitica di cui sono la prima detrattrice. A parte Quasimodo, Montale, Manganelli, Rebora, Luzi, Sereni, Turoldo, Erba, Pasolini, Volponi, ecc… la cultura a cui tengo è quella psicoanalitica per il mio bruciante amore, Franco Fornari». E, ancora, nella pagina Io e la psicoanalisi così scrive: «L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive. Ogni germe deteriore di vita, ogni ingiustizia fa fare un salto diretto verso la volontà del dolore. La volontà del dolore non è masochismo ma l’unica risposta possibile all’abbrutimento imposto dalla psichiatria… Quindi nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, traverso mille burrasche e dimenticata da tutti, facendo riferimento ai vecchi prodigi della nascita, potrei dire che, a dispetto di tutto e di tutti, sono stati ancora i miei genitori a rendermi viva e operante».

Nella vita vi sono esperienze che possono flagellare, oltrepassate le quali nulla può avere senso: la sofferenza e i tormenti fino al limite ultimo, gli orrori in luoghi dove l’essere umano viene negato e annientato, il tremendo dolore per la perdita del proprio equilibrio, del proprio Essere.
Eppure si deve continuare a vivere e la poesia può dissolvere le tensioni: la creazione diventa una temporanea salvezza dagli artigli della morte.
Le emozioni si dilatano quasi si dovesse avverare una deflagrazione: capita così che ci si espanda fino alla follia, nelle oscurità o nei bagliori infiniti della prima alba: «Ogni notte per me è tempesta di pensieri. A volte devo raccogliermi da sola. Il mio letto è una zattera che corre verso il divino».
Proprio ai confini della vita, in una esplosione incontenibile di pulsioni e visioni, le esperienze dell’esistenza diventano un salto nel nulla.
Ecco allora che, nel piano della redenzione, viene offerto il grande dono dell’accoglienza che fa partecipi della Divina Natura: l’anima è forte durante la lotta della vita, l’anima è nuda nell’Amore. «L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’amore né per l’anima, né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità… L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo.»
E lei cerca, nel suo cuore, la simbolica acqua che possa nutrire il suo “fiore”, che lo possa far crescere, come ad alimentarlo con la sua visione lirica, affinché la luce dei giorni che lo avvolge possa tramutarlo in una irradiazione interiore che si percepisce con un semplice sguardo.
Non a caso scrive: «Io semino parole… e qualcuno ascolterà» perché lei desidera “invadere la terra” con i suoi carmi, perché lei è “avida di dire”, lei abbraccia la “lunga notte”, lascia impronte profonde e scatena tempeste, vivendo il suo tormento.
Con la “sua” Parola «sale la vena della vita» come ha sottolineato lei stessa e lotta sul campo di battaglia che è questa esistenza, e le sue emozioni sorprendono, lasciano senza fiato, alterano la percezione delle presunte verità, sconvolgono la mente perché la ragione non può spiegare la “sofferenza da accettare”.
La Parola conduce davanti alla tribuna del mondo, come a mettersi in ascolto della diagnosi del nostro presunto male, della spietata analisi della nostra condizione, delle evidenze e delle sofferenze con le quali dobbiamo fare i conti, prima o poi.
Quando si sente l’anima «satura dentro/di amarezza e dolore», quando si vedono gli sguardi che “salgono dal buio”, quando i poveri versi di un’anima ferita non sono “belle, millantate parole” ma “brandelli di carne”, si può ben capire che la poesia non fa dormire, scava dentro il cuore, sgomina le false apparenze e non si rassegna alle “sembianze”: la poesia ritorna “nuda e senza difesa”, ultimo disperato tentativo di salvazione.

Alda Merini scriveva «i miei poveri versi sono brandelli di carne» e aveva ragione. Sapeva molto bene che «la carne si sfalda facilmente se l’anima va in cancrena»: ecco perché cercava di preservare la sua “anima innamorata” dalle insidie della vita, dalle delusioni dell’amore stesso, dalle vicissitudini patite. A volte, sentiva fortemente di “non avere posto fisso nel mondo”, come una donna “nata zingara”, che non dimenticava mai che «tutte le ombre hanno le loro vertigini»; altre volte, la dimensione della propria solitudine era quasi ricercata perché la solitudine “non fa paura”, anzi, scriveva «più mi lasciano sola, più splendo», e non ricercava certo il Paradiso che non le piaceva «perché non ha ossessioni».
Capace di fantasie pericolose, esaltazioni ed inabissamenti, sofferente e mistica, semplice e complessa, desiderosa di diventare “acqua” dove si riflette lo sguardo del poeta, “onda” nei flussi del destino, Alda Merini non è mai rassicurante perché tutto è passione e sangue, lacrime ed estasi.
Ardente, poetica, onirica, carnale, oscura, sacrale.
Le disperazioni bruciano, la sua mente si spinge fino alla suprema vertigine interiore: «…io voglio, tanto spazio/per dolcissima muovermi ferita;/voglio spazio per cantare crescere/errare e saltare il fosso/della divina sapienza./Spazio datemi spazio/ch’io lanci un urlo inumano,/quell’urlo di silenzio negli anni/che ho toccato con mano.»
La memoria ritorna all’esperienza del manicomio «quando ci mettevano il cappio al collo/e ci buttavano sulle brandine nude/insieme a cocci immondi di bottiglia/per favorire l’annientamento… laggiù dove morivano i dannati/nell’inferno decadente e folle/nel manicomio infinito,/dove le membra intorpidite/ si avvoltolavano nei lini/come in un sudario semita…/laggiù tu vedevi Iddio/tra le traslucide idee/della tua grande follia».
Nella sperimentazione di mille inferni, la sua insopprimibile voce sembra implorare la venuta degli angeli con le spade della Giustizia Divina, l’annientamento del luogo del peccato, la guarigione della piaga nascosta sotto le vesti del giudizio superficiale dell’Uomo.
Devastante la presa d’atto che «nell’antro della follia» tutto può succedere.
La consapevolezza di questa resa dei conti che può condurre ad un abisso senza ritorno, aiuta ad elaborare la strategia che le permette di scrivere “con frenesia”, di getto, d’istinto, nessuna remora, nessuna limitazione, in definitiva, di agire in profondità senza rimanere intrappolata nel tormento della vergogna.
Alda Merini mette un gioco la sua sofferenza, si getta nell’infinito, si scaraventa nello stato caotico, partecipa alle tensioni di una vertigine che nasce dal dolore delle sue esperienze, fino a consumarsi nello slancio più drammatico, nel senso ultimo della sofferenza umana.
La sua parola sembra farsi sangue, piaga universale, amalgama di carne e spirito, sangue e coscienza: la sua inquietudine sconvolgente e le sue infinite contraddizioni, in un viaggio dal Nulla all’Essere, diventano un lento processo di purificazione che condurrà al colloquio finale, a confrontarsi con la misericordia, all’accoglienza divina.
Dalle voragini del sogno e dalle crisi liberanti, scaturisce la sua parola che diventa testimonianza del “cuore morale” che combatte l’Uomo impregnato di superbia e disperso nella sua illusione: in ogni momento della sua vita, mette un ardore assoluto, quasi perdesse la coscienza del tempo, come se possedere l’immediato, il presente, sia l’unica salvezza: «Non ci resta che contentarci di un presente umile e giornaliero, per creare da noi questa polvere magica che è il pensiero e che batte nelle nostre ali come la polvere nelle ali delle farfalle».

La poesia è la pelle del poeta: «Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/e le menti aguzzate dal mistero./Le più belle poesie si scrivono/davanti a un altare vuoto,/accerchiati da agenti/ della divina follia./Così, pazzo criminale qual sei/tu detti versi all’umanità,/i versi della riscossa /e le bibliche profezie/e sei fratello a Giona./Ma nella Terra Promessa/dove germinano i pomi d’oro/e l’albero della conoscenza/Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto./Ma tu sì, maledici/ora per ora il tuo canto/perché sei sceso nel limbo,/dove aspiri l’assenzio/di una sopravvivenza negata.»
Dopo la fatica della vita, vissuta nell’intima sostanza, nel dramma delle esperienze, nella frenesia selvaggia, sempre in equilibrio tra lo stato caotico e l’effervescenza della malattia, la poesia trova la sua verità perché raggiunge il confine che va oltre la vita, perché cerca il suo segreto oltre il tempo.
Alda Merini, donna dalle mille magie, “nata il ventuno a primavera”, capace di scatenar tempeste, semplice “anima innamorata”, era unica: impossibile delimitarla in un ambito, difficile vederla conformarsi a regole precostituite, arduo pensare di conoscerla fino in fondo. L’unica via possibile per sfuggire al suo labirinto… è leggerla. Oggi ancor più. Magari scoprendo alcune sue fulminee intuizioni e ironiche parole come è capitato a me qualche tempo fa: «Rifiuterò sempre il premio Nobel perché in Svezia fa freddo».

Massimo Barile




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