Con questo racconto è risultata 2^ classificata – Sezione narrativa alla XIX Edizione del Concorso Marguerite Yourcenar 2011
Questa la motivazione della Giuria: «Una bambina dal nome Verde e la sua travagliata vita. Il racconto presenta una scrittura intensamente sentita e capace di far vibrare le corde dell’animo. Lo straordinario universo d’emozioni viene fissato in modo perfetto con l’offerta di un atto salvifico».
Massimo Barile
Little Green
Stava sola, nel mezzo del tappeto, le gambe incrociate. La finestra socchiusa lasciava che il vento giocasse con la tenda. Entravano profumi. Immobile aspettava la sera, aveva le ginocchia sbucciate per via di quella caduta dall’albero. Scrutava i disegni del sole muoversi lentamente sulla parete.
Il suo nome era Verde e nessuno sembrava stupirsene. Era il suo nome e doveva esserlo. Tutto era fresco, malinconico, odoroso e giovane nel suo volto e nella pelle, come nel suo nome. A volte accade, nasci per errore, ti danno un nome senza pensarlo. Alla fine, inaspettatamente, diventi il tuo nome. Verde.
Ma i suoi occhi erano blu, o meglio, turchini, di quel colore che cancella e sbiadisce tutto ciò che gli sta attorno. Quello che se guardi il viso da lontano vedi solo turchino, niente naso e niente bocca. Si prende tutto lo spazio, prepotente.
Quand’era pomeriggio sua madre andava al lavoro. Verde la seguiva silenziosa per la casa. Si svegliava e andava in bagno, attraversava il corridoio e entrava in cucina. Un bicchiere d’acqua e una sigaretta e un altro bicchiere d’acqua. Poi si vestiva, si truccava e le dava un bacio. Sbatteva la porta. Sua madre non era troppo delicata. Mai stata.
Tornava che il sole se n’era andato e Verde aveva spalancato le imposte per raccogliere l’ultima sorsata di luce della giornata. Il cielo rosa, rosa e viola. Verde sedeva nel giardino e le raccontava di ciò che aveva fatto. Finiva per inventare storie, ogni volta. Diceva:
«Sono scesa alla baia, sulla sabbia grigia c’era un merlo indiano che faceva da guida a una vecchia orba, come fanno i cani, ma lui parlava. Le urlava di no, non continuare che sarebbe annegata. Era nervoso come merlo, fuori di testa! Nervoso da morire! Ma la vecchia è rimasta calma, che di sicuro è abituata a quel matto del merlo.»
E saltava sul portico, imitava il merlo e le sembrava di vederla quella vecchia signora e il suo vestito a fiorellini minuscoli, mosso dal vento sulla spiaggia e i capelli in una crocchia candida, un reticolo di rughe attorno agli occhi spenti.
Dall’altalena cullava la stanchezza di sua madre sognando, liberando tutto ciò che taceva nella solitudine dei suoi pomeriggi. La mamma si levava le scarpe bianche laccate, con quel tacco alto per mostrare il sedere, e grosso per poter zampettare veloce tra i tavoli. Toglieva le calze e si stendeva sull’erba a guardare gli alberi. Le braccia statiche del ciliegio sopra la sua testa, nel caldo della sera. Nulla si muoveva. Erano i giorni migliori, i giorni caldi e immobili.
Dalla sua nascita era sempre stata in quella casa, completamente bianca. Sua madre aveva un’adorazione per il bianco.
Poi lei morì.
E Verde rimase seduta a gambe incrociate per due giorni, a fissare la parete torcersi alla luce, con le sue ginocchia sbucciate.
D’estate, senza gemiti o urla, senza spostare aria, senza tonfi. Sola, con la delicatezza che le era sempre mancata, in un sudario di lenzuola immacolate. Verde aspettò in silenzio che le molle del materasso cigolassero, che le uscisse un sospiro o uno sbadiglio. Nulla.
La portarono allora in una casa di mattoni, color mattone, odor mattone. Una volta lì, continuò a stare seduta, annusando. Tutto era estraneo, nessun profumo che potesse riconoscere. Per mesi il ricordo dell’odore sporco del mare divenne un’ossessione, un dovere. Come quello dell’alloro, dietro la cucina e del ciliegio di cui sua madre osservava la sagoma.
Quando si stancò di stare seduta, Verde si gettò nel giardino che circondava la casa di mattoni. Nuovo e sconosciuto. Non squillante come quello del ciliegio, in cui i crochi irrompevano ancor prima di primavera. Questo giardino era più discreto, quasi timido. Un giardino che non urlava: mormorava. Sussurrava sfumature pallide e suoni attutiti, scoperte rassicuranti.
Le altre bambine, coi loro grembiulini blu scuro e una faccina piccola e pallida, la guardavano da lontano. Il suo nome suonava bizzarro. Sul finire dell’estate le si avvicinarono e Verde riscoprì il piacere di essere ascoltata.
Gli assistenti sociali le chiesero di suo padre, chiesero dei suoi nonni, di zii e amici. Oltre a Ninetta, l’altra cameriera della trattoria giù al molo, sua madre aveva un unico amico, il Signore del gelato. Veniva a trovarle di tanto in tanto, portava gelato alla fragola per Verde e pretendeva che si sedessero al tavolo della cucina. Verde non era abituata così. D’estate lei e sua madre mangiavano sedute sui gradini del porticato, guardando i bambini che tornavano dalla spiaggia e i ragazzi con le camicie sbottonate. D’inverno si accoccolavano sul tappeto in soggiorno e bevevano cioccolata per cena, mentre la risata secca del fuoco riempiva il silenzio. Tuttavia a Verde piaceva mangiare il gelato col cucchiaio, stare seduta composta ma macchiarsi comunque la canottiera di rosa. Il Signore del gelato era vecchio ma aveva degli occhi così vispi e ridenti che nessuno gli avrebbe dato del vecchio. Perlomeno non Verde. Portava sempre qualche disco. Il suo preferito era Count Basie. Sua madre era in gamba, sapeva tutto di musica. Non incontrò molte donne come lei. Libera, limpida, perché non voleva essere un uomo. Quelle sere , se era felice, ballava, muovendo i piedi scalzi sulle assi bianche. Non era troppo delicata. Era vera, sicura e forte.
Ma morì distesa, avvolta di bianco, vestita di lino. L’uomo che portava il gelato era vecchio per prendersi cura di Verde. In fondo, non era che un amico di sua madre.
Ora suor Cristina si occupava di lei, di tutte loro. Ogni mercoledì le portavano nel parco e mangiavano cocomero, gocciolando liquido zuccherino sulle gambe e sui piedi. Cercando poi di pulirseli tra l’erba le rimanevano tra le dita gli steli ingialliti dal sole. Le bambine dormivano sotto gli alberi. Verde fingeva di farlo. I moscerini si muovevano svagati sopra le loro teste e le ombre estive danzavano sui volti, sulle bocche spalancate e sui piccoli pugni serrati.
«Guardi come sono belle, sembrano fiori» diceva a suor Cristina.
«Dormi Verde».
«Non sono stupende?» si voltò a guardare il viso appuntito della suora «vorrei poterle vedere tra dieci, vent’anni. Saranno splendenti allora.»
«Su, dormi.»
Lo pensava spesso, ogni volta che si fermava a guardare le bimbe e i loro occhi liquidi.
«Perché Verde?» le chiedeva il Dottore.
«Perché cosa?»
«Perché non ora? Perché tra vent’anni?»
«Perché saranno bellissime. Non si può resistere alle cose bellissime, Dottore. Mamma diceva che i giovani risplendono.»
Erano vivi nella sua testa. Ragazzi ridenti mano nella mano, scendevano correndo alla spiaggia. La casa bianca spettatrice di quello scalpiccio leggero. I loro capelli catturavano la luce del pomeriggio e sua madre li osservava mentre stendeva il bucato. Verde ricordava i colori molto più facilmente dei suoni. Giovani dorati.
«Le vedrò tra vent’anni e dirò loro che immaginavo già tutto, anche quando erano così piccole, così pallide.»
Il Dottore non replicava. Era un uomo silenzioso e, in qualche misura, timido. L’ascoltava. Ad ogni visita voleva una nuova storia, una di quelle storielle semplici e surreali che Verde tirava fuori quasi per scherzo. Lui beveva i racconti con avidità, gli occhi assorti e uno strano sorriso a piegargli la bocca. L’ambulatorio era tinteggiato di bianco. L’assaliva una breve vertigine nel notare le macchie di umidità che si allargavano e si restringevano a seconda della stagione, nell’angolo sinistro della stanza, appena sotto la finestra. Anche i muri si muovono. Lo disse al Dottore mentre, stendendosi, la carta le grattava la schiena nuda. Lui si allontanò per fissare la macchia da vicino.
«Non me n’ero mai accorto» sussurrò «e sono qui dentro tutti i giorni. Da cinque anni.»
«Strano.»
«Già.»
«Vuoi vedere come cambia?» Verde amava trovare soluzioni.
«Come?»
Verde saltò giù dal lettino e corse alla scrivania. Afferrò un pennarello e lo stappò con la bocca. Eccola già al muro che disegnava scrupolosamente la sagoma della macchia. Si voltò soddisfatta, in mutandine e realizzò che i suoi piedi poggiavano sulle piastrelle gelide.
«Adesso vedrai come cresce e cala e cambia forma» disse.
Lui rise e l’abbracciò. Mai aveva avuto un abbraccio del genere. Quello di mamma era bianco e caldo, quello del Signore del gelato più rigido e speziato ma questo era vigoroso e avvolgente. Era un profumo nuovo. Perché Verde non aveva mai annusato un padre.
Eppure lo amava. Suo padre, il più bello degli uomini sulla terra. Un uomo che fugge e vive. Verde sapeva che gli uomini potevano volare lontano. Navigare se hanno voglia di vedere il sole sciogliersi nell’acqua, camminare se vogliono sentire la stanchezza. Le donne devono mettersi tacchi laccati o un velo in testa, come suor Cristina, per nascondere capelli color fuoco e lasciare la faccia sola ad affrontare la luce e gli sguardi.
«Voglio essere come un uomo e andarmene» diceva alle altre bambine «voglio amici e animali e un disco di Count Basie.»
Lo stava ascoltando anche quel giorno. Non le piaceva poi così tanto quell’allegria nei tasti del pianoforte. Verde amava il disco con la faccia disperata e rugosa dell’uomo in nero, tutto storto, sullo sfondo arancione. Ma metteva Basie per imparare a memoria ogni passaggio, per non lasciare sola la musica nella testa di sua madre. Aveva appoggiato il vinile sul piatto, assisteva al mistero del fruscio che precede il suono. Il tonfo della porta la riscosse. Sua madre era tornata prima. Ricordava di essere stata sorpresa a cercare di risistemare le copertine che la attorniavano. Aveva sbattuto la porta e aveva lanciato le scarpe contro lo specchio. Non si era rotto. Esasperata, liberò quello che a Verde sembrava un ruggito soffocato. Stava piangendo quando percorse il corridoio verso la sua stanza e Verde la vide sfilare esausta come uno spettro, scalza come una bambina. Cercò di non fare rumore, vide i suoi capelli bagnati dalle lacrime incollarsi alle guance, vide rigagnoli di mascara solcarle il volto.
Scese alla spiaggia. Quando era sola, tutti i pomeriggi, si allontanava di rado. Qualcosa le teneva legata alla sua casa, il doverla custodire. Ma quella volta se ne andò. Anni più tardi, quando la casetta bianca al mare non sarebbe stata che il fantasma di un ricordo, capì che non era fatta per consolare ma per compatire. E compatire non era solo faticoso, era puro dolore. Quella donna distesa a piangere, umiliata ancora, il viso rotondo scavato di nero da righe impietose. Sentiva tutto il suo dolore, la stanchezza, la fierezza delle lacrime trattenute fino a casa. Seduta sulla sabbia aspettò.
Allo stesso modo aveva atteso che la portassero via dalla casa bianca, dal suo pavimento. Allo stesso modo attendeva che le bambine di suor Cristina se ne andassero dentro auto lucide e scure, salutando dal rettangolo del finestrino posteriore. Per ricordare i loro nomi cominciò a tenere una lista. Il Dottore le dava i fogli intestati che usava per le ricette, solo uno ogni mese. Doveva scrivere una lettera accavallata all’altra, non sprecare spazio. Il tempo era un amico monotono alla casa di mattoni. Scandiva i suoi impegni e la lasciava libera per eternità, salvo poi ripresentarsi nel trillo della campanella del vespro, prima di cena. Alla fine di ogni settimana le rimaneva la domenica, un tappeto di ore da riempire. I ricordi l’accompagnavano. Sua madre era dietro le porte e sui soffitti, nell’acqua e tra le lenzuola ruvide del suo letto. Eppure temeva di dimenticare la sua voce.
Si stancò di tenere la lista delle orfane che andavano e venivano quando si accorse che i nomi le erano divenuti estranei e non ricordava a che faccia appartenessero. Iniziò allora a scrivere di loro, di tutte loro. Per ognuna una piccola storia, un futuro a carboncino. I fogli del Dottore non le bastarono più.
Le era sempre piaciuto. Prima, con sua madre, inventava storie d’inverno e le scriveva sui quaderni di scuola. Staccavano le pagine per conservarle in una scatola di latta. Ogni giorno la Signorina Maestra la rimproverava per i mozziconi di pagina tra gli esercizi di matematica. A casa ne ridevano insieme, come fanno due bambine. Solo sua madre sapeva imitare la voce, roca e agitata, della maestra Ada. Tutti i suoi compagni risero alla festa del suo ottavo compleanno. Gli altri genitori non erano altrettanto divertenti, anche se Verde adorava le mani gentili delle mamme, le loro pelli di un identico rosa pesca.
Il suo compleanno venne anche alla casa di mattoni. Fu una bella festa. Giocarono e il Dottore le regalò una penna. Ma nessuno faceva l’imitazione di nessuno. E non aveva un vestito nuovo. I suoi abiti estivi erano la memoria dei suoi passati compleanni, perché una grande festa ha bisogno di un bel vestito. Il giorno del suo compleanno era caldo. La svegliava l’impazienza. Trovava sua madre seduta ai piedi del letto e un vestito nuovo. Sempre. Lo portava tutto il giorno, tutta l’estate. Ricordava sua madre china a lavarlo con energia, il vestito steso all’aria della notte, pronto per il mattino successivo, intriso del canto dei grilli. A luglio l’aria profumava di sale nella casa bianca e la luce entrava a disegnare ragnatele sul soffitto. Prima di mezzogiorno, quando il postino chiamava dalla strada, non osava correre fuori. Si nascondeva sotto il tavolo. I biglietti di suo padre erano curiosi, a volte venivano da luoghi che non aveva mai sentito. Allora doveva andare in biblioteca a cercare suo padre nell’atlante. Sua madre la guardava con le mani sui fianchi. Le labbra sporgenti, diceva:
«Da dove viene?»
Lei leggeva: «Va-len-ci-a» prolungando ogni sillaba, incerta.
«È un tipo originale, sì» e rideva.
La grafia di suo padre – l’osservava di continuo – veloce e lunga. Cercava di scorgersi un po’ di sé stessa. Ma non c’era molto da fare, la sua scrittura assomigliava solo a quella di sua madre. Alle parole “latte”, “sale” e “farina” appese sul frigo; ai biglietti gialli che lasciava in giro per casa. Sua madre aveva una pessima memoria.
Le rileggeva ancora, le cartoline e quella lettera. L’aveva trovata vagando sola per casa. Sentiva ancora il respiro farsi rumoroso. Viveva ancora il momento in cui aveva capito che era suo padre e la sua scrittura. Capì che sua madre la teneva nel cassetto per rileggerla. Sua madre, la donna decisa e forte.
Sempre più spesso ripensò a quella lettera, e ancor più all’altra, che mai avrebbe potuto leggere. La lettera che forse lui conservava o aveva stracciato. La lettera con la grafia sbilenca di sua madre. Quel suo modo di scrivere la “effe” che lei si era ostinata a imitare da quando la maestra se ne era lamentata. E lui che leggeva una lettera breve, senza lacrime a sciogliere l’inchiostro.
«Mi hai detto che ha gli occhi blu, grandi occhi blu, e la amo già» scriveva. Non aveva mai visto i suoi occhi, non blu, ma turchini, e l’amava. Ma lei di più.
Ciò che aveva erano ventiquattro righe, trecentosessantatré parole e una firma illeggibile. Suo padre steso su un foglio sgualcito, che parlava di lei, che non riusciva a rinunciare a sé stesso. «Qui tutto è più caldo». Era molto giovane, era molto bello. Doveva esserlo e doveva essere bruno.
Era grata a sua madre per non averne mai parlato, nemmeno un frase o uno sbuffo sovrappensiero. Preferiva quel foglio, un ragazzo senza forma, tutta nebbia, trecentosessantatré parole che recitava a memoria. Un significato che percepiva ma non riusciva a comprendere, raccolto nel legame tra lei e lui.
Non lo cercò. Sua madre le aveva infuso l’orgoglio della propria fragilità senza mai pronunciare la parola indipendenza. Non avrebbe avuto molto da lui. Nulla più di quelle perfette righe scritte con una penna blu che si stava scaricando.
Quando se ne andò dalla casa di mattoni aveva imparato a chiamarla istituto. Era bizzarro, pioveva e c’era il sole e promise che sarebbe tornata a fare visita. Promise, convinta di non poter rinunciare alle macchie sul muro del Dottore, ai suoi abbracci, alle piccole in grembiulino. Una mezz’ora dopo capì che mai avrebbe mantenuto la promessa. La mano sudata di suor Cristina scivolava mentre cercava di stringere la sua. Appena la lasciò si pulì più volte strofinandola contro la gamba, con certo fastidio che la sorprese. Non sarebbe tornata lì.
Lo scrisse al Dottore e lui se ne dispiacque. Le augurava buon viaggio. «Ora sei splendida, Verde, giovane e splendente. Certo, però, tu lo eri già il giorno in cui arrivasti qui.»
Radiosa, dondolando sul bordo del marciapiede, con i capelli che le bagnavano le spalle, nude e arrossate, pulsanti sotto il sole. L’autobus le sembrò un’astronave con alla guida il barista di un baracchino da spiaggia, lineamenti decisi e scuri che si scioglievano nel sudore. Provava un sottile dolore. Ne rise e salì.
Alessandra Olivo