Il vestito da sera

di

Andrea Polini


Andrea Polini - Il vestito da sera
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 62 - Euro 7,30
ISBN 978-88-6037-9382

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In copertina: Young businessman walking on line in the air. © Tomasz Trojanowski – Fotolia.com


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 1° classificato nel concorso letterario Città di Melegnano 2009 sez. narrativa con il racconto Il vestito da sera


Il vestito da sera, titolo del racconto che dà il nome a questa raccolta, è allegoria della dignità che i protagonisti di queste brevi storie cercano di dare alle loro esistenze segnate dalla solitudine. Personaggi che pur rappresentati in circostanze di particolare difficoltà, o addirittura nei loro momenti estremi, non mi sento di definire sconfitti ma, rispettosamente, uomini.

Andrea Polini



Il vestito da sera


Il maestro

In una valle, ad est delle Alpi Apuane, scorre un fiume che, come una lunga processione azzurra, attraversa i boschi che si ergono maestosi di là dalle sponde. Qui sorgono alcuni paesi, incantati tra il verde delle selve e la trasparenza cristallina delle acque.
Pietro abitava in uno di quei paesi, in una vecchia casa al pianterreno, una casa modesta, ma pulita e in ordine. Quel giorno, dopo aver consumato un pranzo leggero, si era disteso come d’abitudine sul divano del salotto, vicino al televisore che, sommessamente, riempiva il vuoto della sua solitudine, cercando di recuperare le forze per compiere il dovere che si era imposto ormai da decenni, e che aveva continuato a compiere anche negli ultimi tempi, quando la sua salute era andata peggiorando e le analisi mediche a cui si era sottoposto ne avevano accertata la precarietà.
Sapeva che il tempo non sarebbe stato generoso con lui. Viveva però ancora da solo, circondato dall’affetto dei compaesani, che lo ricordavano come il buon maestro elementare di generazioni di bambini. I vicini di casa si offrivano di aiutarlo nelle sue necessità, ma il più delle volte rifiutava. Non voleva essere di peso, anche se l’affetto da cui era circondato gli faceva piacere.
«Coraggio,» disse Pietro con un filo di voce. Faticosamente si alzò dal divano, spense la televisione, poi andò nel ripostiglio. Dagli scaffali prese una bottiglia di alcool e uno straccio, e li mise in una busta di plastica. Riattraversò poi il lungo ingresso fino alla porta che dava sul vicolo. Prese nel portaombrelli la mazza da passeggio, e finalmente si sentì pronto per uscire.
Con andatura lenta e claudicante si incamminò lungo la stradina che conduce al cimitero, trecento metri di strada inghiaiata che ogni giorno che passava gli sembravano sempre più lunghi.
Qualche minuto dopo, stanco e ansimante, raggiunse il piccolo slargo di fronte l’entrata del cimitero. Aprì il cancello, tenuto chiuso con una corda, e notò subito che nel cimitero non c’era nessun visitatore, anche se mancava poco alla ricorrenza dei defunti.
“Siamo rimasti in pochi al paese. I tempi cambiano,” pensò.
Dopo aver oltrepassato il cancello, proseguì per alcuni metri nel vialetto compreso tra due file contrapposte di tombe. Si fermò davanti ad una tomba alla sua sinistra. Era una tomba di marmo bianco, ben levigata, che sembrava non risentire del passare del tempo.
«Anita, sono così stanco. Presto saremo di nuovo insieme,» disse con voce bassa e tremante.
Si fece il segno della croce, e recitò “l’eterno riposo”. Dalla busta di plastica prese la bottiglia di alcool e lo straccio. Versò un po’ di alcool sul panno, e con movimenti lenti e impacciati, ma colmi di tenerezza, pulì il marmo.
Alla fine sedette stremato sulla pietra che aveva appena pulita. I suoi occhi fissarono la fotografia della donna che riposava lì sotto. Era il volto di una donna giovane e bella, come certamente doveva essere stata all’epoca in cui morì, quarant’anni prima.
Pietro ricominciò a parlare con voce bassissima, che a malapena poteva essere udita, eppure quel filo di voce sembrava potesse davvero arrivare alle orecchie di sua moglie, oltrepassando le barriere del tempo e della ragione.
«Ricordi quando insegnavamo a scuola? Che bei bambini c’erano allora, così educati! Signor Maestro, signora Maestra… Oggi non si usa più. Fu allora che m’innamorai di te. Bella, dolce, paziente. Io non ero granché, neanche allora, ed ero soltanto un maestro alle prime armi. Tu eri molto più brava, e sapevi vedere oltre le apparenze. Forse per questo mi amasti. Avevi capito che il mio era un sentimento vero. Poi siamo stati felici, noi due. Abbiamo viaggiato poco, e a te sarebbe piaciuto, lo so, ma c’era una casa da pagare, il bambino, e i soldi… i soldi erano pochi, ma cosa importava? Nostro figlio, invece, ha viaggiato. Diceva sempre che questo paese era una prigione. Adesso, lo sai, abita lontano, in Cile. Si fa sentire poco, e sono già due anni che non lo vedo. Credo che sia felice, e questo a me basta. Noi, però, amavamo davvero questo paese. Lavoravamo tutta la settimana, e la domenica andavamo insieme a Messa. Non avremmo saputo, né voluto, chiedere di più. Quando arrivava l’autunno, ricordi come era bello andare a raccogliere le castagne? Ricordi quando mi togliesti le spine che mi si erano conficcate nel palmo di una mano, perché ero caduto sopra a un riccio? Amavi andare a passeggiare sulla riva del fiume, nelle sere d’inverno. Il riflesso della luna sull’acqua, dicevi, ci sorrideva. E quando il campanile batteva le sette, tornavamo a casa. Sei andata via presto, Anita. Come tutte le cose belle. Venire qui, ogni giorno, è stato per me come continuare a vivere, anche quando sentivo il mondo crollarmi addosso. Sì, vivere è stato difficile. Troppo difficile, senza di te. Adesso sono stanco, non posso più parlare, ma vorrei dirti ancora una cosa, confidarti un mio desiderio. Forse un desiderio ingenuo, una cosa da vecchi. Sarebbe bello che i nostri nipoti, un giorno, venissero ad abitare qui. Sono soltanto le fantasie di un vecchio, lo so, di un vecchio che per vivere deve aggrapparsi ai sogni, con tanta ostinazione quanto disperatamente, e nonostante tutto, ha amato la vita. Addio, amore.»
Baciò la fotografia sulla lapide, e solo allora si rese conto che stava piangendo. Si alzò faticosamente in piedi, e dopo un ultimo saluto alla sua amata, raccolse la busta di plastica e si avviò verso il cancello. Uscì dal cimitero, e richiuse il cancello con la corda, così come l’aveva trovato.
Guardò l’orologio, e con una punta di rammarico vide che erano già le quattro e mezza. “È tardi, ma voglio andare comunque al fiume, comunque,” pensò.
Si incamminò allora lungo il viottolo in forte discesa che si snoda nel canneto che sorge tra il cimitero e il fiume. Appena raggiunse la riva, sedette sfinito sopra un grosso masso levigato.
«È tutto come allora,» bisbigliò semidelirante per lo sforzo, poi ebbe un’allucinazione. Gli sembrò di vedere se stesso e Anita, entrambi giovani, passeggiare lungo la riva. Si stropicciò gli occhi, cercando di destarsi dal torpore che l’ aveva sopraffatto.
Pochi minuti dopo, a non molta distanza dal punto in cui si trovava, notò un uomo camminare nervosamente avanti e indietro. Cercò di mettere meglio a fuoco l’immagine, e riconobbe Orazio, un giovane del paese. Il ragazzo sembrava furioso, e di tanto in tanto sfogava la sua rabbia scagliando un sasso nel fiume.
Pietro agitò la mazza da passeggio, sperando di attirare l’attenzione del giovane. Avrebbe voluto chiamarlo ad alta voce, ma le sue poche forze non glielo consentirono.
Orazio, comunque, non tardò molto ad accorgersi della presenza del vecchio maestro.
Quando Pietro capì che era riuscito a farsi notare, con il braccio destro fece cenno a Orazio di avvicinarsi.
«Orazio, cosa stai facendo?» domandò.
«Mi scusi, signor Pietro, ma è una di quelle giornate…» rispose il ragazzo, un po’ imbarazzato.
«Ti conosco da quando eri un bambino. Se può servirti a stare meglio, confidati con me,» disse Pietro con fare paterno.
«Signor Pietro, non credo che possa essermi d’aiuto.»
«A volte anche i vecchi possono essere utili,» rispose Pietro con una punta di amarezza nella voce.
Orazio sorrise per un istante, stancamente, come se tra loro due il più vecchio fosse stato proprio lui, poi disse: «Una banalità. Ho litigato con la mia fidanzata. Una banalità, appunto. Forse qualche parola di troppo, ed io… io non ci ho visto più, e le ho dato un ceffone. Mi ha lasciato, così, su due piedi. Per sempre, ha detto. E credo proprio che sia vero. So che non sopporta questi metodi, anche se è la prima volta che fra noi accade di arrivare a tanto».
«Non è semplice esserti d’aiuto. Tuttavia, se l’amore tra voi due era davvero grande, nonostante tutto può ancora esserci il modo di rimediare.»
«No, non mi illudo. Sono cinque anni che abbiamo gettato al vento, cinque anni che abbiamo vissuto assieme. Amore inutile, sprecato.»
«Orazio, l’amore non è mai inutile. È come l’acqua di questo fiume. Scorre, e sembra disperdersi. Ma non è così. L’acqua arriverà al mare, e quando sarà diventata mare, in parte evaporerà, andrà in cielo, e poi, come pioggia, tornerà ad alimentare le sorgenti, e nuovamente sarà fiume. L’amore è come questo ciclo, dove ogni goccia ha un passato, un presente e soprattutto un futuro. Anche le vostre gocce, un giorno, forse passeranno di nuovo da qui. Sarebbe bello se voi due foste su questa riva ad aspettarle,» disse l’anziano maestro, ma fu colto da un violento attacco di tosse che gli impedì di continuare a parlare.
«Signor Pietro, vuole che vada a prendere l’auto per accompagnarla a casa, oppure dal medico? Questa sera credo sia in ambulatorio, » disse preoccupato Orazio.
Pietro continuò ancora a tossire. Quando, finalmente, il fastidioso sintomo gli concedette una tregua, disse: «Grazie, ma la mia malattia è la mia età. E nessuno può farci niente. Ti sarei riconoscente se tu potessi accompagnarmi fino a casa, ma a piedi, come sono arrivato sin quaggiù».
«Volentieri. Si appoggi a me.»
Pietro si alzò con molto sforzo, aiutato da Orazio, dal masso dove era seduto. Guardò il fiume. Sull’acqua scura si rifletteva la luce della luna.
Sottobraccio ad Orazio iniziò poi a salire su per il viottolo tra il canneto, verso casa. Camminavano in silenzio, ma quando arrivarono all’altezza del cimitero, già punteggiato dalle fiammelle dei lumi votivi, Pietro disse: «Vedi? Quante fiammelle, quanti segni di un fugace passaggio su questa terra! Sono quasi quarant’anni che ogni giorno vengo qui a fare visita a Anita, mia moglie».
«Deve averla amata molto.»
«Sì, molto. Quando qualcosa non andava troppo bene tra noi, di solito le compravo dei fiori. Le piacevano moltissimo. Capita, sai, che qualcosa non vada bene. Capita a tutti.»
«Eh, lo so,» sospirò il giovane.
«Prova anche tu con i fiori.»
Orazio accennò un sorriso.
Continuarono a risalire il sentiero, e ormai si trovavano a poco più di cinquanta metri dall’abitazione quando Pietro fu di nuovo colto da un attacco di tosse. Furono costretti a fermarsi. A stento, dopo qualche minuto, Pietro riuscì a percorrere gli ultimi metri, appoggiandosi ad Orazio e alla mazza da passeggio.
«Posso offrirti un caffè?» domandò Pietro quando ebbe raggiunta la porta di casa.
«Grazie, ma devo proprio andare. È sicuro di poter stare da solo questa notte?»
«Non preoccuparti. Ricorda i fiori. I fiori possono fare miracoli.»
«Seguirò il suo consiglio. Buonanotte, signor Pietro.»
«Buonanotte, e grazie per la compagnia.» Per qualche istante guardò il ragazzo allontanarsi nella semioscurità del vicolo. Prese poi le chiavi di casa da una tasca del cappotto. Aprì la porta, e subito accese la luce dell’ingresso.
Ancora la spossatezza lo avvinse. Si trascinò faticosamente fino al salotto, e si lasciò cadere, sfinito, sul divano dove era solito riposare prima della consueta visita al cimitero.
La stanza era illuminata soltanto dal debole riflesso della luce dell’ingresso. Rimase a lungo, immobile, a fissare le fotografie dei suoi cari, esposte sulla credenza che gli stava di fronte.
“Devo preparare la cena,” pensò.
Fece per alzarsi, ma ricadde pesantemente sul divano. «Forza Pietro,» provò a dire ad alta voce, cercando di farsi coraggio, ma dalla sua bocca uscì un suono a malapena udibile.
Guardò la fotografia di Anita, e un impercettibile sorriso gli si impresse sul volto che stava facendosi sempre più pallido.
Il campanile del paese, in quel momento, batteva le sette della sera.
“È ora di tornare a casa,” fu il suo ultimo pensiero.


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