Con questo Racconto è risultato 1° classificato nel concorso letterario Città di Melegnano 2009 sez. narrativa
Questa la motivazione della Giuria:
«Potente e drammatica attesa di una morte che tutta via si vuol precedere, per preservare una dignità umana ormai atrocemente martoriata da un morbo che non perdona. Il progressivo disumanizzarsi del protagonista, non suggerisce visioni tanatofobiche angosciose, ma tetre tenerezze, banali assenze dei grandi significati che l’ego umano considera essenziali. Il mesto e tuttavia audace habitat mentale e fisico di Max, è nei dettagli apparentemente irrilevanti, nelle pietose piccolezze e piaghe della carne, nella penombra di speranze marcite, nell’erotismo che pulsa testardo: è questa la grandezza di Max, che desidera una morte elegante, e che per ottenerla è disposto a usare le ultime logorate forze per finirla a modo suo. Ma la tragica bellezza della sua morte verrà da sola, e non voluta. In un bel vestito da sera, la danza macabra avrà fine. Poesia, e aspra dolcezza si mescolano in un racconto davvero per pochi. La grande riflessione e l’ispirazione dell’autore, insieme alla sua profonda e torturata sensibilità ricordano descrizioni tolstojane riguardanti i grandi temi dell’esistenza: la vita, la morte, il significato del proprio vissuto e dell’universo intero». Alessandra Crabbia
Il vestito da sera
Era ormai ottobre. Il sole tramonta presto in questo mese. Giusto all’ora in cui Marina, l’infermiera del terzo piano, gli serviva la cena. Brodo vegetale, petto di pollo, purè di patate e una mela il menù, più o meno uguale ogni sera. Anche questa sera non differiva per niente da tutte le altre che aveva passato nella clinica, e quando a fatica ebbe mangiato la mela – il termine appetito era per lui ormai un lontano ricordo –, Marina venne a ritirare il piattino con le bucce. La osservò, dal letto, camminare ancheggiando leggermente mentre usciva dalla camera. C’era una reminiscenza di desiderio in lui, nei suoi occhi, nelle sue viscere, barlume di un passato da manager playboy troppo vicino perché anche il male più crudele potesse averlo spento del tutto.
Voltò il capo verso la finestra. Vide i giardini sottostanti coperti da un tappeto di foglie morte, che alla luce dei lampioni erano di un colore indecifrabile. Spinse poi lo sguardo un po’ più in là, oltre la recinzione che delimitava il giardino della casa di cura. Nella strada principale c’era il consueto andirivieni di auto e pedoni, il vivere frenetico di cui fino a pochi mesi prima era stato fedele discepolo. Gli sembrava quasi priva di senso, ora, quella corsa all’ultimo euro da arraffare. Ma gli sembrava priva di senso anche l’estrema prostrazione del suo corpo, minato dal tumore e fiaccato dalla chemioterapia. Adesso che percepiva la morte allungare le sue oscene mani scheletriche per ghermirlo, ogni giorno più vicina, avrebbe avuto bisogno di speranza, o almeno di consolazione, invece provava rabbia e impotenza, avvertiva il senso del fallimento calare su di sé come una cappa oscura, non ché sul mondo intero che, pensava, prima o poi l’avrebbe seguito nella malasorte. Intanto, giusto o sbagliato che fosse, la vita seguiva il suo corso di sempre, mentre lui annaspava in sempre più cupi e penosi momenti di depressione. E questa sera era proprio uno di quei momenti che calavano un nero sudario di disperazione sul suo cuore e sulla sua mente, e gli rinfocolavano il terrore, più grande della paura della morte in se stessa, di una fine atroce. Il suo non era un timore del tutto infondato. Negli ultimi giorni aveva infatti constatato nella sua carne la progressiva minore efficacia dei potenti antidolorifici che gli somministravano, e messa da parte ogni ragionevole speranza di guarigione, era persino arrivato ad augurarsi che la morte sopraggiungesse presto, prestissimo.
L’attendeva quasi come una liberazione. Del resto, non la temeva più di tanto. Non aveva nessuna particolare fede religiosa, e di conseguenza non lo spaventava la prospettiva di un castigo ultraterreno per ciò che di sbagliato aveva commesso in questo mondo. Quanto alla morte in se stessa, aveva fatto proprio un detto che non ricordava più di chi fosse, che recitava, più o meno: “non temo la morte, perché quando verrà, io non ci sarò più”.
Prigioniero di questi pensieri, osservava attraverso il vetro della finestra il brulicare umano giù nella strada. Rimase così, con lo sguardo perso nel vuoto, per circa due ore, e in questo lasso nel suo cuore esplose un sentimento che non aveva mai provato durante i penosi mesi della malattia. Era l’invidia il nuovo mostro che ora gli divorava la mente, forse ancora più crudele del tumore che gli straziava il corpo. Provava un’invidia che urlava da ogni cellula del suo essere per quella gente laggiù che, pur nell’insensatezza del suo affannarsi, aveva ancora la possibilità di godere di quelle delizie che la vita può offrire, e che lui, finché gli era stato possibile, aveva bramato, rincorso e raggiunto.
Mancava poco alle otto quando Marina entrò di nuovo nella camera, con in mano il minuscolo bicchierino di plastica che conteneva le gocce per facilitare il riposo notturno. «Le gocce, Max,» disse.
Lui distolse lo sguardo dalla finestra, e lo posò sulle voluttuose forme della bella infermiera, forme che il camice bianco non riusciva a nascondere del tutto. «Grazie,» rispose, poi prese il bicchierino e inghiottì tutto d’un fiato la medicina, l’ennesima e ultima della giornata.
«Hai bisogno di altro?» domandò Marina, e la frase, pur nella sua innocenza, fece balenare per un attimo negli occhi di lui il fuoco del desiderio.
«No, grazie,» rispose infine, non senza un certo sforzo per celare il proprio turbamento.
«Bene, allora. Buonanotte, Max. A domani.»
«Buonanotte a te,» rispose, e rimase a fissarla mentre usciva dalla camera ancheggiando lievemente. La lussuria, tra tutti i piaceri proibiti il suo preferito, gli sembrò volesse schernirlo con un crudele supplizio di Tantalo. Pochi minuti dopo, il farmaco iniziò a fare il suo effetto, e in breve la benedizione del sonno scese sul coacervo della sua disperazione.
Si svegliò qualche ora dopo di soprassalto, seduto sul letto, la bocca atteggiata ad un urlo di terrore che però gli rimase strozzato in gola. Aveva sognato che stava nuotando in mare aperto, e che un enorme pescecane, sbucato all’improvviso dall’abisso, stava sventrandolo, e il mare tutto intorno si colorava del rosso del suo sangue. «Maledizione!» sbottò sottovoce. «Neanche nel sonno ho più pace…»
Si accorse quasi subito che un dolore reale e subdolo gli tormentava l’intestino, così trovò subito una spiegazione per quel sogno terribile. Riflettendo con le facoltà della mente ben vigili, rimpianse di non essere finito davvero nella pancia dello squalo, ora che il suo timore più grande lo tormentava nella realtà e nelle visioni allucinatorie del sogno. Si sentiva un uomo finito e disperato, senza neanche più un rifugio illusorio dove rifugiarsi. Dette un’occhiata al display azzurro della radiosveglia sul comodino. Mancava poco a mezzanotte.
Con fatica spostò le gambe fuori dal letto, e infilò le babbucce. Un proposito tante volte accarezzato col pensiero stava assumendo nel suo animo la consistenza di una risoluta determinazione. Non avrebbe atteso che la morte venisse a prenderlo a suo capriccio. Sarebbe stato lui a correre incontro al nulla, il solo concetto in cui credesse davvero. Facendo forza con entrambe le mani sul materasso, aiutò le gambe malferme a sollevarsi. Si avviò con l’incedere barcollante di un bambino piccolo verso la porta del bagno, situata nella parete dove appoggiava la testiera del letto. Subito gli cedettero le ginocchia, costringendolo a gettarsi di peso sul materasso, tuttavia non rinunciò a tentare nuovamente di alzarsi. Questa volte il tentativo ebbe maggiore successo. Appoggiandosi con il braccio destro alla parete, raggiunse la porta del bagno. L’aprì, e subito accese la luce. C’era un gradevole odore di lisoformio nell’ambiente. Sopra il lavandino, situato di fronte la porta, vi era una specchiera piuttosto grande. Guardò con attenzione l’immagine riflessa del suo volto, un volto dove ogni sofferenza affrontata negli ultimi mesi aveva lasciato una firma più o meno leggibile, per culminare infine nel simbolo del suo cranio calvo che la chemioterapia, come un pittore maldestro, aveva disegnato senza però riuscire ad imprimervi nessun colore che evocasse la vita. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda, premette il contenitore del sapone liquido e ne fece uscire un po’, poi si lavò la faccia e il cranio. Si passò infine l’asciugamano su tutta la testa, con calma. Dopo l’abluzione si sentì più rinfrancato, e decisamente sveglio. Chiuse il rubinetto e spense la luce, poi tornò nella camera, rischiarata da un paio di spot. Si avvicinò al letto. Sul lato opposto a quello dove era sistemato il comodino, stava una valigia morbida che conteneva due maglioni, due paia di pantaloni, alcune camicie e, cosa decisamente insolita, dato il luogo, un completo da sera.
Aveva voluto portare quell’abito in clinica perché si riproponeva di indossarlo, coerentemente con la sua natura istrionica, il giorno che sarebbe stato dimesso risanato, o almeno in via di guarigione. Aveva progettato che, appena uscito dalla casa di cura, sarebbe andato a festeggiare l’evento nel party più esclusivo della città. Ora, però, sapeva sin troppo bene che i suoi meravigliosi propositi non erano stati altro che illusioni, e che dalla casa di cura sarebbe uscito forse presto, ma pietosamente chiuso nella cassa da morto.
Allora, si disse, tanto vale mettere su l’ennesimo “coup de theatre”, stupire tutti con l’ennesima trovata da istrione. Si sarebbe ucciso con addosso quell’abito elegante, avrebbe preso tutti ancora una volta in contropiede, come spesso aveva fatto nel lavoro e nella vita privata.
Gli costò fatica, ma riuscì ad accucciarsi e ad aprire la valigia. Facendo attenzione a non sgualcire gli abiti, trasse fuori il completo e lo appoggiò sul letto. Era chiuso in un involucro di cellofan, che subito aprì. Distese sul materasso la giacca mono-petto, i pantaloni e il gilet – tutti e tre di lana scura da filato pettinato –, la camicia bianca e il farfallino nero – entrambi di seta –. Si tolse la giacca e i pantaloni del pigiama – di cotone color celeste chiaro –, li ripiegò e li appoggiò anch’essi sul materasso.
Per qualche istante – con addosso soltanto la canottiera, le mutande, i calzini e le babbucce – rimase a contemplare l’impressionante magrezza delle braccia e delle gambe. Preferì non sollevare la canottiera, per evitarsi la desolante vista delle costole che sembravano voler fuoriuscire dalla pelle. Non perse però tempo a commiserarsi, e subito, più svelto che poté, indossò la camicia bianca e i pantaloni scuri. Infilare i bottoni della camicia, molto piccoli, nelle loro asole non fu semplice per lui, ma non volle accendere la luce per non insospettire Gabriele, l’infermiere che alle ventidue aveva sostituito Marina per il turno di notte. Sapeva che il giovane infermiere, se tutto procedeva tranquillamente, di tanto in tanto si concedeva qualche sonnellino, ma non voleva correre rischi. Niente doveva interferire col suo piano estremo. Dovette stringere molto la sottile cintura di pelle nera dei pantaloni, che ormai gli erano larghi di almeno tre taglie, poi mise il gilet, e questa volta gli fu più facile infilare i bottoni nelle asole, entrambi più grandi che nella camicia. A questo punto, stando ben attento a saggiare ad ogni passo la tenuta delle gambe, si portò sull’altro lato del letto, di fronte al comodino. Aprì lo scomparto più in basso, e tirò fuori una delle due paia di scarpe lì riposte. Erano scarpe adatte al completo, di nappa nera, così lucide che brillavano anche alla luce soffusa degli spot. Sedette sul materasso, si tolse le babbucce, e al loro posto infilò l’elegantissimo paio di mocassini. Si rimise di nuovo in piedi, spostandosi lentamente e con circospezione per la paura di cadere, e tornò sul lato del letto più vicino alla porta del bagno. Prese sul materasso il farfallino di seta nera, poi, sempre prestando la massima attenzione, appoggiandosi all’occorrenza con un braccio alla parete, raggiunse la porta del bagno. L’aprì, e accese la luce, ma l’accostò subito dopo, perché neanche quel riverbero filtrasse nel corridoio attraverso la porta accostata della camera. Guardandosi nella specchiera posta sopra il lavandino, fissò il farfallino nero al colletto immacolato della camicia. Rimase come inebetito a guardarsi nella specchiera, con uno stato d’animo indefinibile che in qualche modo armonizzava il compiacimento per la sua figura elegante, seppur emaciata, che il vetro gli offriva riflessa, con il terrore per l’imminente morte violenta che l’attendeva. Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì, davanti allo specchio, in quello stato di apparente catatonia, ma certamente quando spense la luce erano trascorsi parecchi minuti dal momento in cui si era aggiustato il farfallino. Ancora appoggiandosi con un braccio alla parete, raggiunse di nuovo il letto. Prese la bella giacca mono-petto nera che aveva appoggiato sul materasso e la indossò, poi infilò tutti i bottoni dell’unica fila nelle rispettive asole.
Come un torero, aveva completato la cerimonia della vestizione, ma a differenza del matador non avrebbe sfidato la morte, l’avrebbe abbracciata nell’istante dell’impatto del suo corpo sul selciato del cortile interno della casa di cura. Passò la mano destra, come una carezza, sul materasso, sulla coperta e sul cuscino che tanto l’avevano visto soffrire e sperare.
«È ora,» disse sottovoce, gettando lo sguardo verso il display azzurro della radiosveglia sul comodino. Segnava la mezzanotte e mezza. Girò le spalle al letto, senza indugiare, e senza più tenersi alla parete si avviò verso la porta della camera. Non aveva paura di cadere, un’energia nuova e strana sembrava aver pervaso il suo povero corpo debilitato.
Appena sbucò nel corridoio, dette un’occhiata a destra e a sinistra per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Il corridoio del piano, lungo una ventina di metri, era deserto, e come succedeva quasi ogni notte, vi regnava un totale silenzio. La sua camera era la seconda del corridoio alla sinistra del vano scale. Si diresse verso sinistra, con una strana camminata che sembrava al tempo stesso goffa e felpata, ma era soltanto il risultato del suo tentativo di fare meno rumore possibile. Passò davanti la porta della camera a parete con la sua. Sopra la porta semiaperta vi era una lampada al neon, lunga e sottile, ed erano proprio queste lampade, poste in corrispondenza di ogni stanza, che fornivano l’illuminazione al corridoio, invero, comunque, assai soffusa. Il degente nella camera dormiva, perciò poté passare agevolmente oltre senza alcun rischio di essere scoperto. La stanza successiva era l’infermeria del piano, dove si trovava Gabriele. Sapeva che transitare là davanti sarebbe stato il solo reale ostacolo per raggiungere il terrazzino dal quale intendeva precipitare tra le braccia della sua liberatrice. Passò davanti l’infermeria quasi in punta di piedi. Qui la porta, a differenza di quelle delle camere, era completamente aperta, e la piccola lampada al neon posta sopra di essa gli sembrò emanasse l’abbagliante fascio luminoso di un faro, tanto era il suo desiderio di non farsi scoprire. Con la coda dell’occhio vide che Gabriele era assopito, seduto dietro il piccolo tavolo di plastica bianca dove, a volte, finché le sue condizioni non erano drammaticamente peggiorate, andava per farsi fare il prelievo del sangue. Passò oltre, e la sua camminata perse un po’ della rigidità che aveva mantenuto fino a quel momento. Si avvicinò poi alla camera a parete con l’infermeria. Aveva sentito dire che in quella camera vi era un giovane colpito da un male simile al suo, e quando si trovò all’altezza della porta, mentre passava oltre, pensò di essere fortunato per aver preso la risoluzione estrema, e provò pietà per quel ragazzo che, invece, con ogni probabilità in quella camera avrebbe finito i suoi giorni.
Fece ancora qualche passo. Sulla sua destra, ormai, vi era la porta a vetri che dava sul terrazzino. Scostò la tendina trasparente che copriva la vetrata, e ruotò la maniglia in senso orario, ma la porta era chiusa a chiave. Allora, attento a non fare il più piccolo rumore, girò la chiave già inserita nella toppa. Provò di nuovo a ruotare la maniglia, e questa volta la porta si aprì.
L’aria fredda della notte autunnale lo fece rabbrividire. Da mesi non metteva piede fuori dalla clinica, e quell’aria fredda sulla pelle non fu una sensazione piacevole. Fece un passo in avanti. Il terrazzino era largo non più di ottanta centimetri, e la ringhiera gli arrivava sì e no all’altezza del bacino. Gettò lo sguardo verso il cortile, dieci metri più in basso. C’erano due auto parcheggiate nel vialetto che si snodava tra le aiuole, illuminato appena, di riflesso, da un lampione distante. Ebbe un capogiro, un’angoscia terribile lo assalì, faticava persino a respirare. Tutta la determinazione che l’aveva sorretto fino a quel momento svanì in un istante. «Non devo esitare, non devo…» singhiozzò piano, senza tuttavia osare ancora guardare verso il basso. Tremante, indietreggiò, e con le spalle toccò la porta a vetri.
«Cosa mi prende…» balbettò, poi alzò lo sguardo verso il cielo nero, senza luna. Anche dalle finestre dell’ospedale non filtrava alcuna luce.
Fu allora che vide uno strano oggetto luminoso che, immobile, stazionava in aria nel cielo sopra la clinica, ad un’altezza che non seppe valutare. Gli sopravvenne uno strano pensiero. Si disse che sarebbe bello se quello strano oggetto fosse un disco volante, con a bordo alieni di una civiltà avanzatissima in grado di curare ogni malattia, e che lo portassero lontano dal suo dolore.
«Ma cosa penso,» sussurrò. «Sono completamente pazzo, pazzo… Non posso aver preparato tutto così bene per poi…»
Il suo corpo, però, rifiutava con fitte dolorose al petto e alle braccia ciò che la sua disperata volontà voleva imporgli. In quel momento ricordò che il vestito da sera che indossava lo aveva comprato in Canada, a Montreal, per andare in un elegante topless bar sulle rive del San Lorenzo, dopo aver partecipato ad una riunione d’affari dei manager della compagnia telefonica per cui lavorava, che si era svolta al Palais des congres, edificio dalle trasparenti vetrate multicolori.
Gli sembrò di evocare ricordi al tempo stesso troppo lontani e troppo vicini, comunque insopportabili. Tutto ciò per cui riteneva bello vivere apparteneva ormai al passato, ed una nuova angoscia calò su di lui, tetra come la volta del cielo senza luna.
Si sentì solo, mostruosamente solo, seppure non desiderasse alcun aiuto, semmai lo desiderava soltanto per farla finita. Ancora gettò lo sguardo verso il cortile, e un terrore indicibile gli serrò la gola, fin quasi ad impedirgli di respirare. Indietreggiò, tremante, con le gambe che a malapena riuscivano a sostenerlo. Si ritrovò di nuovo nel corridoio, assurdamente vestito a festa, mentre la sua mente vagava confusa a ritroso nel tempo, fino a quella notte al topless bar sulle rive del San Lorenzo.
Si sentiva sconfitto. Sconfitto dalla vita, dalla morte, da un destino senza pietà. Senza più badare a non far rumore, richiuse la porta a vetri e girò la chiave nella toppa. Non gli importava più che qualcuno lo vedesse agghindato a quel modo. Era soltanto, si disse, un uomo sconfitto da tutto ciò che poteva sconfiggerlo.
Strascicando i piedi, appoggiandosi con il braccio sinistro alla parete esterna, si incamminò verso la sua camera. Quasi non riusciva a respirare, il torace gli sembrava oppresso in una morsa, fu persino tentato di chiedere aiuto a Gabriele, ma con uno scatto d’orgoglio, stavolta non cedette alla paura.
Nessuno si accorse del suo passaggio nel corridoio, e quando, stremato, fu di nuovo in camera, barcollando più di un ubriaco si trascinò sino al letto e vi rovinò sopra, mentre la gamba destra gli rimase ciondoloni fuori dal materasso. Pensò che gli sarebbe piaciuto avere lì i suoi genitori, e che magari non avessero mai divorziato.
Pensò, infine, che sarebbe stato bello avere una donna sempre accanto nella vita, fino alla morte.
Verso le quattro, come d’abitudine, Gabriele si affacciò sulle soglie delle camere per sincerarsi che nessuno avesse bisogno di lui.
«Cazzo, ma cosa…» esclamò, affacciatosi sulla soglia della camera di Max.
Vide che il giovane era disteso sul letto con indosso uno strano vestito, ed aveva una gamba penzoloni, fuori dal materasso. Di corsa si avvicinò al letto. Un uomo come lui, sempre in confidenza con la morte, notò subito l’incipiente rigidità delle membra, e dopo avergli tastato il polso, freddo e assente, capì che anche Max non faceva più parte di questo mondo.
«Poverino,» disse, fissando il cadavere emaciato alla luce soffusa degli spot.
Non riusciva però a capacitarsi perché fosse vestito in quel modo assurdo, dato il luogo in cui si trovava. Vide che le dita delle mani avevano assunto un colorito nerastro.
«Sono quasi sicuro che è stato un infarto,» si disse. «Adesso chiamo il dottore di turno, stabilirà lui le cause del decesso, ma di certo è un infarto. Povero Max, mi dispiace, ma forse è meglio che tu te ne sia andato in questo modo. Ti avrebbero atteso giorni davvero brutti…»
La camera era ancora avvolta nella luce soffusa degli spot e nel silenzio della notte. Max l’istrione aveva recitato a braccio. Ora il sipario poteva calare.