Con questo racconto è risultato 4° classificato – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010
Il volo dei cormorani»
Anche il grande fiume era come assorto in un’attesa strana e afflitta, che si evidenziava nel dolce e lugubre brontolio della corrente. La battaglia che i suoi figli avevano da poco condotto lungo una sua sponda era terminata, eppure l’ennesima carneficina di una guerra assurda e crudele che si era compiuta tra l’argento dell’acqua e il turchese del vasto cielo dell’est sembrava non aver ancora saziato la brama di sangue che, come un’orrenda maledizione, era il marchio di ogni scontro tra opposte fazioni.
“Testadicazzo! Più sono idioti e più li fanno comandare…” Aleksandr imprecava in silenzio, rivolgendo i suoi insulti al cadavere del suo capitano che giaceva nel terreno paludoso, vicino alla sponda del fiume.
Sul terreno bagnato di acqua e sangue, a formare una tragica corona attorno al capitano, un’intera truppa di caduti, uomini giovani e di mezza età. Aleksandr era l’unico ad essere sopravvissuto. Si era salvato, almeno per il momento, perché era abile a muoversi furtivo strisciando sul terreno coperto dal fogliame, come una grossa foglia tra foglie più piccole. O, forse, era sopravvissuto semplicemente perché era stato più fortunato degli altri.
“Quel maledetto lassù sa il fatto suo. Magari è uno del paese, chissà,” pensò Aleksandr mentre osservava il casotto di legno dipinto di verde, col tetto di forma piramidale, posto in cima a un’incastellatura metallica, a una quindicina di metri di altezza dal suolo, dove stava in agguato il mitragliere. Fino all’anno prima, quella era la postazione del guardaparco. Serviva alla guardia forestale per controllare le innumerevoli e prodigiose varietà di piante e animali che popolavano quel paradiso della natura. Poi, con la guerra, le priorità erano divenute altre, e il paradiso si era trasmutato in inferno. Gli cadde lo sguardo sui rami di un frassino morto che emergeva dal pantano, una ventina di metri sulla sinistra della postazione del mitragliere. Appollaiata sui rami rinsecchiti, vi era una coppia di cormorani. Anch’essa sembrava in attesa. Aleggiava uno strano silenzio, non si sentiva il fragore dei combattimenti, neppure in lontananza. C’era, però, il dolce brontolio della corrente, più forte in quel punto dove il letto del fiume si restringeva e formava una stretta ansa verso sinistra. Si considerava in trappola, costretto all’immobilità per non attirare l’attenzione del cecchino. Quasi non osava respirare.
“Abbiamo fallito, coglione d’un capitano… Tutti morti, tutti morti…” pensava, mentre un tremito di freddo e paura gli scuoteva il corpo. Avevano attraversato il fiume qualche decina di metri prima dell’ansa, dove il mitragliere non poteva scorgerli. La loro missione consisteva nell’aprire un passaggio attraverso il bosco per permettere l’approvvigionamento di viveri al paese. Lì, le ultime sacche di resistenza delle truppe irregolari erano state sconfitte, ma in gran parte della foresta circostante i combattimenti infuriavano più che mai, e gli irregolari mantenevano il controllo di molti importanti siti strategici, tra cui l’ex postazione del guardaparco. Era una postazione importante, perché con un solo uomo in gamba, bene armato, impediva alle truppe nazionaliste regolari di attraversare il fiume e portare rifornimenti al paese. L’unico punto dove, al momento, era possibile attraversare il fiume senza finire direttamente nell’inferno dei combattimenti o incorrere nella furia devastante del mitra era proprio quello scelto dal capitano, ma poi, comunque, bisognava fare i conti col cecchino, perché il bosco era impenetrabile prima dell’ansa, e qualsiasi truppa di terra, per tentare di avvicinarsi al paese, doveva per forza esporsi al fuoco di quel demonio isolato.
«Ha voluto fare l’eroe, il capitano…Tutti abbiamo familiari o parenti al paese, che credeva? Che volessimo farli morire di fame? Ma quando non si può non si può…Ha voluto fare l’eroe della patria, e ora…» rimuginava Aleksandr, cercando disperatamente un’inesistente via di scampo. Era certo che se avesse strisciato ancora un poco verso la postazione del mitragliere, sarebbe stato falciato come tutti i suoi poveri commilitoni, mentre qualora fosse riuscito a scivolare nel bosco senza farsi notare – cosa che riteneva assai improbabile –, quasi certamente sarebbe stato ucciso dagli irregolari, prima di potersi unire a qualche truppa governativa che combatteva nella boscaglia. In ogni caso, prima del tramonto sarebbero venuti altri soldati a dare il cambio al cecchino appostato nel casotto, e a quel punto per lui non ci sarebbe più stata speranza. Calcolò che mancava poco più di un’ora al tramonto, e questo significava che aveva una quarantina di minuti al massimo per decidersi ad agire. Pensò che sparare alle pareti del casotto, sperando di colpire il mitragliere, era un’ipotesi da scartare in partenza. Il casotto distava dal punto in cui si trovava circa trenta metri, e la sua altezza rispetto al terreno era di almeno quindici metri. Le pareti erano di solido legno, e non era affatto escluso che da quando il casotto era stato adibito a postazione militare, le pareti fossero state rinforzate, probabilmente con un rudimentale rivestimento di lamiera. La mitraglietta calibro nove aveva ben poche possibilità di colpire il bersaglio. Inoltre, una volta aperto il fuoco, avrebbe rivelato al cecchino la sua posizione, e per lui sarebbe stata morte certa. A completare la desolata constatazione del suo stato di drammatica inferiorità, il fatto che il cecchino disponesse non di una, ma di ben quattro mitragliatrici montate su treppiedi, una per ogni lato del casotto. Aveva sperimentato l’efficacia dell’armamentario nemico durante il tragico combattimento di poco prima. Gliela ricordavano i poveri corpi dei compagni caduti, sparsi nella palude. Gliela ricordava il fetore di morte che sempre c’è nei campi di battaglia. Gliela ricordavano le canne delle mitragliatrici che sporgevano dalle feritoie nelle pareti del casotto. Si disse che avrebbe potuto provare ad arrendersi, ma era sicuro che se si fosse alzato in piedi con le braccia sollevate in segno di resa, il cecchino l’avrebbe falciato senza pietà. Sapeva bene che da queste parti nessuno osservava la convenzione di Ginevra in tema di prigionieri di guerra, meno che mai le truppe irregolari. Perciò riteneva che l’unica, piccolissima possibilità di salvare la pelle consistesse nel riuscire ad uccidere il mitragliere appostato lassù nel casotto. Da dove si trovava, non poteva stabilire neanche quale porzione del vasto orizzonte stesse tenendo d’occhio il cecchino. Sarebbe stata un’informazione preziosa, per prenderlo alla sprovvista. Un piano, infatti, per disperato che fosse, Aleksandr l’aveva. L’incastellatura che sosteneva il casotto era stata recintata soltanto con un basso filo spinato, e lui pensava che se fosse riuscito a penetrare all’interno della porzione di terreno delimitata dai quattro pali d’acciaio che costituivano l’ossatura principale della struttura, da là sotto avrebbe potuto far fuoco contro il pavimento di legno dove poggiava i piedi il cecchino. Si rendeva però conto che il suo piano, per avere qualche possibilità di successo, avrebbe richiesto di sapere quando il mitragliere non stesse sorvegliando la porzione di palude in cui si trovava. Solo a questa condizione avrebbe forse potuto coprire i trenta metri che lo separavano dal casotto, senza farsi uccidere. Era però oltremodo cosciente dell’impossibilità di reperire quell’informazione preziosa. Decise che avrebbe tentato l’assalto tra mezz’ora, quando il sole sarebbe stato abbastanza basso sull’orizzonte da allungare molto le ombre, così, forse, il cecchino avrebbe notato meno il suo strisciare tra i corpi dei compagni morti e i rami scheletrici dei frassini, altrettanto morti, che spuntavano come moniti oscuri dal pantano. Mentre, immobile, fissava il casotto di legno verde sospeso lassù, come a mezz’aria, a irridergli la possibilità di scorgere i movimenti della letale minaccia che nascondeva al suo interno, la sua mente vagava libera a ritroso nel tempo, seppure i suoi pensieri non riuscissero mai a sollevarsi dalla dimensione di una cupa malinconia. Soltanto per un attimo ricordò i giorni – sembrava un secolo ormai – quando in quelle terre convivevano in pace tre razze, tre culture, tre religioni diverse. Si disse che pure il mostro lassù in agguato nel casotto, forse aveva bevuto in sua compagnia in una delle osterie al paese. Sembrava impossibile a pensarci adesso, ma era proprio così che andavano le cose. Subito, però, la sua mente scivolò più indietro nel tempo, a quando era un bambino di soli otto anni. La sua era una famiglia di contadini: genitori, nonni, e sette tra fratelli e sorelle. Vivevano in un casone semidiroccato che sorgeva su una collinetta circondata da altre collinette, che in estate erano punteggiate di innumerevoli covoni fatti col grano appena mietuto. Avevano da mangiare, quel che bastava per non soffrire la fame, ma la povertà era tanta, e ad un certo punto anche Licia, il cane di casa, fu considerato un lusso da suo padre, il capofamiglia. Così, un brutto giorno, suo padre aveva caricato il cane sulla Dacia celeste chiaro, tutta corrosa dalla ruggine, che ormai marciava a malapena, e lo aveva abbandonato ad una ventina di chilometri di distanza, ai margini di un fitto canneto, proprio sulle sponde di questo fiume. Per tranquillizzarsi la coscienza, pensò che il cane se la sarebbe cavata benissimo allo stato selvatico. Una settimana dopo, la cagnolina riuscì a ritrovare la strada di casa. Aleksandr, che dal giorno dell’abbandono quasi non aveva toccato quel poco da mangiare che c’era, pianse per la gioia. Passarono soltanto tre giorni, e Licia sparì di nuovo. Suo padre gli disse che si era già abituata alla vita selvatica, e si era allontanata di sua volontà. Qualche mese dopo, Ivan, uno dei suoi fratelli più grandi, gli disse invece che loro padre aveva sparato a Licia, e l’aveva sepolta ai piedi del noce che sorgeva proprio accanto al casone dove abitavano. Aleksandr pianse ancora: pianse perché voleva bene a Licia, pianse per la cattiveria di suo padre, pianse perché Ivan si era rivelato cattivo quasi quanto il loro genitore, non risparmiandogli un dolore ormai inutile. Iniziò allora a capire come vanno davvero le cose del mondo.
Un paio di spari lontani distolsero la sua mente dai ricordi, riportandolo alla crudele realtà della guerra ed al terribile pericolo che incombeva su di lui. Si trattò di due spari che non ebbero seguito. Il fiume e la palude ripiombarono nell’opprimente silenzio di un’attesa disumana, scandita dal brontolio lieve della corrente. Osservava con impotente attenzione la feritoia nella parete del casotto che dava sulla zona in cui si trovava, sospirando di scorgere il più piccolo movimento che gli rivelasse la posizione del mitragliere. A poco a poco la sua attenzione, frustrata, andò scemando, e la sua mente si ritrovò ancora a vagare, come sonnambula, tra i ricordi. Si domandò com’era possibile che tre razze che fino a poco tempo prima convivevano pacificamente, a volte unendosi addirittura in matrimoni misti, ora non desiderassero che l’annientamento dell’altro, e tutto questo in nome di qualche carattere somatico diverso, di qualche usanza diversa, del credo in un Dio diverso che nessuno aveva visto coi propri occhi. I suoi occhi, ora, vedevano il cielo turchese iniziare ad incendiarsi dei primi bagliori rossastri del tramonto. Pensò che quello, forse, era il vero volto di Dio: quel cielo bellissimo ma intriso di un rosso che ricordava il sangue, il sangue dei suoi compagni, che col suo fetore lo soffocava di disgusto e dolore. Ricordò che dopo il triste fatto di Licia, quando sentiva il prete parlare dell’amore di Dio, quantunque fosse allora soltanto un bambino, sentiva crescere dentro il germe di un’acuta disapprovazione.
“Nessuno ha in sé l’amore vero,” si disse, macerandosi in quei pensieri foschi.
Ricordò poi il giorno che si era arruolato. Prima di allora, era stato in città soltanto due o tre volte in tutta la sua vita. Provò un’improvvisa nostalgia per il triste palazzo di cemento color grigio chiaro della caserma. Si era trovato abbastanza bene là dentro, ed era stato orgoglioso di indossare la divisa, esaltato, addirittura, all’idea di difendere la patria. Soprattutto, era stato felice di essere uscito dal ricettacolo di miseria che era la sua casa, con le sue piccole meschinità.
La sera prima di partire per la guerra, aveva festeggiato con altri due commilitoni, portandosi a letto una ragazza occasionale, incontrata ai tavoli all’aperto di una birreria nella strada più elegante della città. Aveva fatto l’amore con lei senza provare grande rimorso per Irina, la dolce e bella Irina, la sua ragazza. La ricordò come vestiva la domenica, con la gonna e il foulard variopinti, e il rimorso che non provò allora lo assalì, tanto da inumidirgli gli occhi.
“No, nessuno è davvero capace di amare,” concluse, amareggiato come può esserlo chi sente incombere su di sé l’intera infelicità del mondo.
Attese ancora un po’, lo sguardo fisso al casotto e alla sua beffarda feritoia, mentre il cielo turchese imbruniva sempre più, arrendendosi ai bagliori color sangue del tramonto.
“Devo agire adesso,” si disse, e il suo corpo fu scosso da un tremito violento di freddo e paura. “Forse è già troppo tardi. Tra poco verranno a dare il cambio al bastardo lassù, e per me sarà comunque finita. Morto per morto, devo tentare.”
Iniziò a strisciare nel pantano verso il casotto, forse meno circospetto di come avrebbe voluto, di come la prudenza avrebbe suggerito. Ma incombeva l’arrivo dei compagni del mitragliere, perciò doveva fare in fretta, più in fretta possibile. Confidò nella possibilità che il cecchino, ormai, credesse di aver fatto fuori tutta la truppa, credesse che non vi fossero superstiti. Aveva la tuta mimetica bagnata dell’acqua del pantano e del sangue dei compagni. Il fetore di morte saturava l’aria e gli dava la nausea. A stento reprimette un conato di vomito. Comunque, a dispetto di tutto, avanzava su quel pantano laido di morte. Più libera del suo corpo, la sua mente era un caleidoscopio dove si confondevano i ricordi, i volti del passato, e l’ormai incombente postazione del cecchino. Ora, stranamente, non provava più odio o risentimento verso nessuno. Chiese perdono anche al suo capitano per averlo definito “coglione testadicazzo”. “Pure se ha sbagliato,” – pensava adesso – “chi mette in gioco anche la sua pelle merita comunque rispetto.” Non odiava neppure il mitragliere appostato lassù nel casotto, l’uomo che doveva uccidere per non esserne ucciso. Doveva ucciderlo, ma adesso non lo odiava. Si diceva che tutti e due erano vittime di un destino malvagio. Non accusava più neppure Dio. Forse – si diceva – Dio non vuole realmente tutto questo, ma neanche Lui può opporsi al fato malvagio. Capiva che erano pensieri dettati dalla paura di un uomo che stava andando incontro alla morte, ma fosse come fosse, adesso erano davvero i suoi sentimenti.
Poco dopo – a lui sembrava incredibile, gli pareva di sognare – raggiunse la recinzione dell’incastellatura che sosteneva il casotto. Rifletté alcuni istanti, e si disse che nella posizione in cui ora si trovava, il mitragliere probabilmente non poteva neanche vederlo, e di certo era fuori tiro per la mitragliatrice. Come rigenerato da un’improvvisa speranza di sopravvivere, si alzò di scatto in piedi, e con un balzo scavalcò il basso reticolato e penetrò nella porzione di terreno delimitata dall’incastellatura. Il cecchino non si era accorto di niente. Ora rideva sommessamente, simile a un folle, per la tensione nervosa accumulata. Rovesciò indietro la testa, e nelle retine gli si impresse l’immagine delle tavole di legno del pavimento del casotto. Non poteva individuare il punto esatto dove si trovava il cecchino, ma era là sopra, sulla piattaforma di legno, adesso più vulnerabile di quanto non lo fosse lui stesso. Sapeva che nella mitraglietta non erano rimasti molti colpi, tuttavia erano sufficienti per crivellare il pavimento dal basso, erano sufficienti per sperare in una remota possibilità di salvezza. Non poteva e non doveva assolutamente indugiare oltre. Sparò. L’arma gli sobbalzò tra le mani. Il rumore dei colpi in rapidissima successione fu quasi coperto dallo schioccare del legno del pavimento che si spezzava. Vide con la coda dell’occhio la coppia di cormorani che da molto stazionava sui rami rinsecchiti di un frassino morto che emergeva dal pantano levarsi in volo precipitosamente, veloce e maestosa. Appena la furia della mitraglietta cessò, udì l’urlo acutissimo, straziante, del mitragliere ferito. Era l’urlo che aveva imparato a riconoscere sin troppo bene in quell’ultimo anno di guerra. Era l’urlo dell’agonia, l’urlo della morte.
«Tu!».
Era una voce non lontana, assai dura, simile a un comando.
Aleksandr, che ancora fissava il pavimento squartato del casotto, abbassò subito lo sguardo, e con un movimento convulso, quasi grottesco, girò di scatto la testa verso destra e poi verso sinistra, infine si voltò, cercando di raccapezzarsi da dove provenisse la voce. Un terribile sospetto lo assalì, tramutandosi subito nel gelo della certezza. Erano soldati delle truppe irregolari, venuti a dare il cambio al cecchino. Sapeva che per lui era giunta l’ora estrema. Guardò la coppia di cormorani che si allontanava lassù, nel cielo turchese all’imbrunire, tra i bagliori color sangue del sole morente.
«Aspettatemi…» sussurrò accorato, come se i due maestosi uccelli potessero udirlo e comprenderlo, e fu tutto ciò che ancora poté dire. Fu tutto ciò che ancora desiderava dire.
Andrea Polini