Con l’opera «Il ripostiglio» si è classificato al 7° posto alla XV Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2011
Questa la motivazione della Giuria: «Il ripostiglio dove sono custodite le cose di una vita, dai ricordi d’infanzia ai frammenti di vita ingialliti sopra vecchie foto, assurge a luogo simbolo d’un uomo che, ogni notte prima di andare a dormire, consuma il suo rito profano della visita al ripostiglio. Lo scrigno può far rivivere magicamente i ricordi, le immagini e le emozioni d’un tempo ormai svanito. Il ripostiglio è la ragione dell’esistenza: “la memoria aiuta a vivere” e Andrea Polini, con questo racconto intimista, rende perfettamente l’intenzione narrativa».
Massimo Barile
Il ripostiglio
Il salotto era rischiarato stancamente dal riflesso dello schermo del televisore, dove scorrevano i titoli di coda della prima commedia sexy della notte. Mario puntò il telecomando verso la televisione e la spense, ma per qualche istante lo schermo fremette ancora di una debole luminescenza. Guardò l’orologio digitale blu del lettore dvd. Segnava la mezzanotte e mezza. Si alzò dal divano, e si avvicinò al vetro appannato della finestra. Accarezzò le foglie della pianta di amaranta che aveva comprato due anni prima sua madre, poco prima della sua morte, poi guardò fuori il quartiere immerso nella quiete notturna e nella luce fioca dei lampioni. Il quartiere dove conosceva tutti, e dove tutti lo conoscevano. Non avrebbe potuto fare a meno – pensò -, di camminare in quelle strade familiari, di incontrare i soliti volti, qualcuno che ancora gli domandasse perché, alla soglia dei cinquant’anni, non si fosse ancora sposato. Ora però, come ogni notte, prima di andare a dormire, avrebbe consumato il rito profano della visita al ripostiglio. Si allontanò dalla finestra, uscì dal salotto ed entrò nel lungo ingresso. La vista gli si era abituata all’oscurità, quindi percorse a passo spedito i quattro metri bui che lo separavano dalla parete di fondo dell’ingresso, dov’era la porta del ripostiglio. Aprì la porta, e ancora non accese la luce. Nello stanzino, infatti, occhieggiava, attraverso la finestra, il riverbero dell’illuminazione pubblica della strada. Un certo disordine la faceva da padrone, come se il tempo, lì, avesse voluto lasciare tanti piccoli tangibili segni del suo scorrere. Vi era un vecchio mobile da cucina, con dentro diversi serviti inutilizzati da molti anni, e c’era un frigorifero non più funzionante, senza freezer, come usavano una volta, che ora fungeva da ricovero per i detersivi e per gli arnesi necessari ai lavori domestici d’emergenza. Sulle mensole polverose fissate al muro riposavano i suoi vecchi libri di scuola e qualche rivista, oltre a due radio fuori uso – una piuttosto grande, con una fodera di finta pelle, ed una più piccola, di plastica bianca –, che appartennero, rispettivamente, a suo padre e ad una zia materna. Insomma, il ripostiglio custodiva tante cose di poco valore economico che usò quotidianamente in lunghi periodi della sua vita, e delle quali, ora, non aveva il coraggio di disfarsi.
Si avvicinò al vetro della finestra. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo buona parte della periferia addormentata dov’era nato, cresciuto e quasi invecchiato, e poteva godere di questa veduta da una posizione, secondo lui, privilegiata. La casa, infatti, sorgeva al secondo piano, un’altezza che considerava ideale per offrirgli un punto di osservazione sufficientemente panoramico senza però il senso di distacco, di estraneità, che danno le grandi altezze, i punti di vista posti troppo in alto, troppo lontano da dove si consuma il vivere.
Ricordò che da quella finestra, da bambino, guardava suo padre partire con la vecchia Seicento grigia per andare al lavoro, e che sempre affacciato a quella finestra passava ore fantasticando – alcune mattine, di domenica -, mentre attendeva che gli zii e le cugine arrivassero in treno da Firenze. Gli piaceva vederli apparire in cima alla strada, dopo che erano scesi da poco alla vicina stazione ferroviaria.
Tutte le cianfrusaglie da cui era circondato, poi, nel silenzio gli sembrava riprendessero magicamente vita, ed ecco che dalle vecchie radio echeggiava il motivetto di apertura della trasmissione “La Corrida”, i libri di scuola dalle pagine ingiallite parlavano di volti di compagni e insegnanti non più incontrati da decenni, i serviti in disuso profumavano delle succulente pietanze che una volta cucinavano sua madre e sua nonna.
Pensò che da quella finestra dove si specchiava la luna, aveva assistito davvero – limitatamente al microcosmo del quartiere – alla trasformazione della società. Giù nella strada, infatti, vedeva le saracinesche stanche e arrugginite di quelli che furono negozi pieni di vita, oltre che di merce, e dove tanti anni prima – bambino –, andava a fare la spesa insieme a sua madre.
Li ricordava ogni notte, i mattini latte e miele di quando sua madre lo portava con sé a fare la spesa. Accadeva durante le vacanze, quando la scuola era chiusa, e quando a scuola andava il pomeriggio, perché i bambini nel quartiere erano tanti, e non c’erano abbastanza aule per tutti nel turno mattutino. Storie ormai lontane – pensava -, fotografie sbiadite di una società che si era profondamente trasformata, e lo identificava nell’insegna multicolore lontana, appena distinguibile oltre le chiome degli alberi che punteggiavano l’estrema periferia della città, il simbolo del cambiamento. Era l’insegna del nuovo, gigantesco centro commerciale, l’ultimo scintillante mostro tentacolare che aveva lasciato attorno a sé le rovine attonite della piccola distribuzione di un tempo, e dell’umanità che la componeva.
Sospirò, e si disse che era proprio ora di andare a dormire. Fissò ancora la lontana, sfacciata insegna multicolore, e in cuor suo sperò che il mostro lontano risparmiasse almeno il piccolo supermercato rionale dove lavorava. Fece due conti, così su due piedi. Gli mancavano ancora una quindicina d’anni di servizio, prima di andare in pensione. Con un pizzico d’egoismo, si augurò che l’eroico minimarket resistesse alla chiusura almeno fino ad allora. Dopo – pensava – succedesse quel che doveva succedere. Tanto, prima o poi, tutto cambia. È sempre stato così. Solo che è difficile adattarsi ad un mondo nuovo, e sempre ci sarà chi nel futuro non riuscirà ad entrare davvero, se non per morirvi.
“La memoria” – pensò, mentre girava le spalle alla finestra e stava per uscire dal ripostiglio – “aiuta a vivere”.
Andrea Polini