Pistola & polvere da sparo

di

Angelica Rubino


Angelica Rubino - Pistola & polvere da sparo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 122 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-7210

eBook: pp. 122 - Euro 5,99 -  ISBN 978-88-6587-9276

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In copertina: «Iron and fire» disegno a matita e acquerelli di Michela Caccavallo


Prefazione

Il romanzo di Angelica Rubino rappresenta un autentico mare magnum di alterne vicende e inaspettati colpi di scena che rendono effervescente la narrazione con un susseguirsi di relazioni sentimentali che offrono spunti illuminanti e, al contempo, catapultano in zone d’ombra, tra falsità e tradimenti, torbide finzioni e vendette, fino all’inevitabile scenario conclusivo nel quale trionferà l’amore d’una donna in un’appassionata esaltazione dei suoi sentimenti più autentici.
Il racconto prende spunto da un avvenimento che accade ai giorni nostri ed è l’inaspettata visita ad una signora, vedova e con un figlio, da parte di un notaio francese, che la informa del fatto che il suo assistito, un tale Pierre Ullieul, l’aveva designata erede delle sue proprietà nella cittadina francese di Carcassonne, appartenute al ducato dei Leroy e avvolta dalla leggenda che narra d’un tesoro nascosto in quel luogo.
Dopo l’antefatto assistiamo ad un salto temporale che conduce la narrazione al Settecento, al tempo del ducato dei Leroy, con un ragazzino, Julian, che si dimostra arrogante e violento, e la piccola Violante che subisce le sue angherie: la ragazzina, che lavora come serva, ha solo nove anni ed è stata adottata dalla duchessa Annalisa, moglie del duca Philippe Leroy, che, purtroppo, poco tempo dopo, moriranno in circostanze misteriose.
Grazie ad un costante ed avvincente divenire narrativo viene raccontata la travagliata vicenda della protagonista Violante che, ancora bambina, viene abbandonata dalla nobildonna Isabella La Corte, appartenente ad una famiglia nobiliare piemontese: l’unico ricordo della madre è un ciondolo che la bambina porta al collo e rappresenta un asso di cuori sovrastato da un ramo d’ulivo, lo stemma del casato.
Qualche anno dopo la proprietà e la tenuta saranno vendute al conte Ferdinando Cagiani, uomo irascibile e violento, che non perde occasione per far valere la sua posizione e comportarsi da despota.
Violante ha ormai diciotto anni e non è ancora fidanzata perché il suo sogno è sposare “l’uomo che ama veramente” anche se è innamorata di un nobile capitano, promesso sposo della bellissima Gemma, la figlia del conte Cagiani.
Nel frattempo, sia Julien che sua sorella Evelyne, vengono cresciuti dalla zia Agnès e dalla sorella gemella Patricia, che esercitano una forte influenza negativa su di loro e si scopre che la nobile famiglia di Julian era imparentata con la famiglia della madre di Violante: ecco spiegata la somiglianza tra lei e la duchessa Annalisa.
Proprio in quel periodo avviene un nuovo incontro con Julian che, da ragazzino basso e grassottello, è diventato un uomo affascinante: tra lui e Violante nasce una strana forma di attrazione e, poco tempo dopo, le chiederà di sposarlo.
Dopo alterne vicende verranno alla luce sconcertanti verità su alcuni protagonisti, impensabili retroscena sulle loro vite e si scoprirà di chi è la mano che ha assassinato con il veleno la duchessa Annalisa e suo marito Philippe.
Avvolti da questa tempesta oscura, i protagonisti si muovono su un palcoscenico creato ad arte da Angelica Rubino, sempre pronta ad immettere nella narrazione un nuovo colpo di teatro che scatena impensabili prospettive ed illuminanti verità, da tempo nascoste, occultate per ipocrisia e tornaconto.
Nelle drammatiche pagine finali si assiste ad un autentico vortice che scoperchia presunte certezze e consolidate posizioni di numerosi personaggi dell’intricata trama ordita da Angelica Rubino, ma le parole convergono prepotentemente ad irradiare il sogno d’amore di Violante.

Massimiliano Del Duca


Pistola & polvere da sparo


Introduzione

Agosto 2016.
Il sole stendeva i suoi ultimi riflessi rosa sugli alberi che segnavano l’inizio del possesso, e la sua luce s’insinuava nella campagna silenziosa. Le mosche svolazzavano nell’aria mite e profumata degli uliveti. Una di esse sfiorò il naso lungo e magro del signor Marceau e si posò sulla testa pelata color avorio dell’uomo. La signora Isa si sollevò un po’ sulla sedia e allungando la mano scacciò l’importuna.
«Grazie, signora Bianco» disse l’uomo, con un forte accento francese.
«Come sapete l’italiano?» domandò la donna.
«Studio per piacere. Non per niente il signor Ullieul ha scelto me come suo notaio.»
Isa gli sorrise, e si accorse che erano mesi che non sorrideva. Ancora non riusciva a credere a quanto di surreale le fosse capitato. Fino a una settimana prima, la sua vita era per lei un tunnel buio dal quale non riusciva a uscire. Sposata da otto anni con un operaio, viveva tranquilla nella sua modesta abitazione nel centro storico di una cittadina pugliese, Castellaneta, svolgendo il lavoro di mamma a tempo pieno del piccolo Giuliano. Un giorno, suo marito perse il lavoro.
Cercò un’occupazione dappertutto, ma non riuscì a trovare nulla. Lei aveva cercato di incoraggiarlo, dicendogli che avrebbero provato a trovare lavoro all’estero, ma lui era sprofondato in una grande depressione. Una sera, tornando a casa dopo aver fatto la spesa, lo aveva trovato impiccato. Si era trovata vedova, senza un soldo e con un figlio da crescere che non aveva alcuna intenzione di lasciare ai servizi sociali. Poi, il miracolo.
Trovò nella cassetta della posta una busta di uno sconosciuto signor Gaspar Marceau, un francese residente in una cittadina di nome Carcassonne a lei sconosciuta. Nella lettera, scritta in un italiano abbastanza corretto, c’era scritto che il signor Marceau era un notaio e che il suo assistito, un certo Pierre Ullieul, morto per un cancro improvviso, aveva segnalato lei come erede dei suoi terreni nella cittadina francese. L’uomo aveva lasciato un recapito telefonico. All’inizio Isa pensò a uno scherzo, ma decise comunque di chiamare l’uomo per accertarsene. Al telefono le rispose un uomo dal tono serio. La donna cercò di spiegargli che aveva commesso un errore, ma il notaio le rispose che non era possibile. Il suo assistito aveva speso tutti i suoi ultimi risparmi per ricostruire al meglio il suo albero genealogico, che lo aveva condotto sino a lei. L’uomo le chiese dei riferimenti bancari, dicendole che le avrebbe inviato un bonifico con la somma di denaro sufficiente per raggiungerlo in Francia.
«Avete mai lavorato in campagna, signora Bianco?» le chiese l’uomo.
«Per un periodo, da ragazza» le rispose la donna.
«Bene» sorrise l’uomo.
Isa non riusciva a smettere di contemplare la meraviglia di quel posto. Gli alberi di pesco e gli ulivi emanavano un’aria profumata. A terra, qualche piccolo melone incominciava a crescere. Il canto degli uccelli allietava la serata. Un pettirosso si posò sul pozzo di pietra, sopra il quale c’era un arco di legno sotto il quale era appeso un secchio legato a una fune. Il piccolo Julian si divertiva a inseguire un grillo, nei pressi della piccola cascina che quasi scompariva rispetto all’immensità della campagna.
«Davvero grande» commentò Isa.
«Una volta lo era ancora di più. Questa non è neanche la metà del terreno originale, appartenuto un tempo al ducato dei Leroy. L’altra metà è di proprietà del comune.»
«Ducato Leroy?» ripeté sorpresa la donna.
«Sì, i Leroy erano un’importante famiglia francese del Settecento con uno stretto legame di parentela con il re. Circolano varie leggende a proposito, come quella di un tesoro…»
«Per me il tesoro sono questi terreni, signor Marceau. Ancora stento a crederci.»
«Lo credo bene!» rispose l’uomo sorridente «vuole che le mostri i macchinari in cantina? Così avrò modo di raccontarle le leggende dei suoi antenati.»
«Volentieri!» rispose la donna, seguendo l’uomo sul retro della cascina.


TRE SECOLI PRIMA


1

Il meraviglioso cane da caccia aveva puntato la sua preda. Tra l’erba, una quaglia passeggiava tranquillamente:
«Attacca!» gridò Julian.
Il cane piombò con un balzo addosso alla quaglia, con le fauci spalancate. Affondò i denti nel collo. La quaglia emise un verso di dolore, prima che il suo collo si spezzasse.
Il cane portò la preda ai piedi del padroncino, che lo accarezzò contento.
Julian era un ragazzino di dodici anni piuttosto robusto e basso, con i capelli ricci castani e gli occhi verdi. Il suo viso era rubicondo, le labbra piene avevano preso una piega sadica alla vista dell’animale morto.
Afferrò la quaglia e la portò soddisfatto nel palazzo, per farla vedere a suo padre. Nascosta in un cespuglio, la piccola Violante aveva assistito alla scena con aria disgustata. Le piaceva però molto il manto lungo e fulvo del cane, che sembrava essere incredibilmente soffice. Uscì dal cespuglio per fargli una carezza. Si piegò, pronta ad affondare le sue manine dentro la pelliccia.
«Che cosa stai facendo?» ringhiò Julian alle sue spalle.
La bambina si ammutolì spaventata.
«Non volevi certo accarezzarlo vero?» domandò il ragazzino a denti stretti.
Violante scosse la testa. Il ragazzino sorrise.
«Molto bene. Guardare ma non toccare.» Violante si rasserenò. Proprio in quel momento si accorse che tra le mani il suo piccolo padrone aveva un sacchetto.
«Sono ali di pollo, devo dargliele come premio» spiegò Julian. In quel momento sulle scale del palazzo comparve il duca. La voce possente dell’uomo chiamò il figlio. «Devo andare» disse Julian, mettendo il pacchetto tra le mani di Violante «questo lo do a te, ma povera te se ne dai solo uno al mio cane.»
Il dodicenne schizzò via veloce. Violante rimase a guardare il cane, che si rotolava nell’erba. La bestia si sedette e incominciò a latrare affamata. I suoi grandi occhi marroni commossero la bambina. “Mi ha detto di non farlo” pensò. Ma quando il cane si sollevò sulle zampe posteriori aggrappandosi al suo abito rosa scolorito, non resistette e gli lanciò la prima ala.
Alla prima successero una seconda, poi una terza, successivamente una quarta. A Violante piaceva vedere la gioia del cane mentre si cibava. Improvvisamente due mani la buttarono a terra, facendola finire con il naso tra l’erba.
«Ti avevo detto di non farlo!» Con un calcio Julian la mise a pancia in su. Dagli occhi della bambina sgorgavano lacrime, mentre con le mani tentava di ripulirsi dalla terra sulla bocca e attorno agli occhi.
Il ragazzino le sferrò un calcio sull’anca, con tutta la forza che aveva.
«Ahiaa!» strillò la bambina. Gli occhi verdi del bambino fissarono quelli nocciola della bambina, che rimase spaventata da tanta cattiveria nel suo sguardo. Volle provare a rialzarsi, ma non ci riuscì. Un dolore lancinante le attraversava il fianco. Si preparò a un altro colpo, ma in quel momento giunse Vita, la bibliotecaria.
«Che cosa succede qui?» chiese, guardando inorridita la scena.
«Questa femmina (e schiava!) disonesta ha avuto ciò che si meritava!» rispose adirato Julian. La donna si trattenne dal mollargli un ceffone. Fosse stato per lei, avrebbe massacrato di botte quel ragazzino insolente.
«Andiamo piccola» disse sollevando la bambina «dobbiamo riferirlo alla duchessa!»
«No Vita» disse piangendo la bimba.
Violante si aggrappò alla donna e rientrò zoppicando nel palazzo.


2

Violante e Maria terminavano di far colazione nella sala da pranzo color pesca un po’ buia a causa delle tende avvolgibili abbassate sulle porte a vetri. Alcuni fasci di luce s’insinuavano lungo il pavimento, fino alla tovaglia dal tessuto arancio e giallo, ma le due ragazze erano immerse nella penombra, profumata dai tulipani e dalle rose disposte in un vaso di porcellana. Sapevano benissimo che, a due serve come loro, non era consentito mangiare nel salotto del conte, ma quella camera piaceva a loro così tanto che non riuscivano a farne a meno.
«Vuole un’altra tazza di tè, cara?» domandò Violante all’amica, con un atteggiamento da finta nobildonna.
«Certo tesoro! Purché non mi sporchi il vestito!» rispose Maria, stando al gioco. Le due scoppiarono in una fragorosa risata, ma il loro divertimento fu subito interrotto dalle urla di Gemma, piombata all’improvviso nella sala.
«Violante! Maria! Cosa ci fate qui?»
La contessa le afferrò per le braccia:
«Correte in giardino a estirpare le erbacce, e non vi farò frustare!»
Violante e Maria corsero fuori, con l’aria corrucciata. Quanto sarebbe dovuta durare quella storia?
Erano ormai nove anni che erano costrette a sopportare le prepotenze di Gemma, la figlia del conte Cagiani, nuovo proprietario della tenuta che fino a quel tempo era appartenuta al duca Leroy. Le persone che le avevano cambiato la vita. Aveva solo sette anni, Violante, ma quella mattina d’estate la ricordava come ieri.
Era seduta come al solito su uno dei tavolini dell’osteria “Gamberi”, con le ginocchia ancora in fiamme per i colpi che le aveva inflitto sua madre con la frusta. O meglio la sua mamma adottiva, perché anche se Violante chiamava così la signora Elvira da anni, sapeva bene che non lo fosse davvero. La sua vera madre l’aveva abbandonata ai piedi dell’osteria quando aveva appena un anno. Di lei si ricordava vagamente i capelli chiari e lunghi. Rammentava vagamente il suo vestito dalla tonalità verde chiaro, forse per quello da sempre il suo colore preferito. La ricordava come un sogno. Solo il ciondolo che aveva al collo le ricordava che non era così.
Era grata a Elvira perché le aveva garantito cibo e un tetto sopra la testa, ma la odiava allo stesso tempo, perché la picchiava per ogni cosa. Come quel giorno. Che colpa ne aveva lei, se il vassoio le era scivolato per colpa di un cliente ubriaco che le aveva tirato una gomitata? Era immersa in questi pensieri quando la duchessa fece il suo ingresso nell’osteria.
Era una donna bellissima. Aveva gli occhi e i capelli lucenti come quelli di una fata, e un sofisticato abito celeste. Con fare incantevole, allungò la mano ricoperta da un guanto bianco verso la sua, piccola e piena di lividi.
«Vieni con me» disse sorridendo, sotto gli sguardi sbalorditi di tutti.
«Dove pensate di portarla?» strillò Elvira.
«In un posto dove non subirà più maltrattamenti» ringhiò la duchessa, caricando Violante su una carrozza. Il volto magro e scarno della bambina osservò a lungo quello tondo e ben proporzionato della duchessa. Allungò una mano per toccare la sua guancia liscia e la chioma lunga sino al seno. Da quel giorno, visse in un altro mondo.
La duchessa la portò nella sua splendida tenuta torinese, e la fece lavorare come serva, senza però mai castigarla. Le diede molto amore, e quando Violante di tanto in tanto piangeva pensando alla sua vera mamma, e al perché l’avesse abbandonata, lei la consolava, dicendo che a volte mandare via un figlio fosse un gesto obbligato.
La duchessa era la moglie del duca francese Philippe Leroy, un uomo austero e di poche parole, spesso in viaggio tra la Francia e il regno piemontese. Avevano due figli: Julian Pierre Eugene ed Evelyne Charlotte Sophie, che la mamma chiamava per nome intero quando combinavano una marachella. I due erano diversi fisicamente ma soprattutto nel carattere. Julian assomigliava alla duchessa Annalisa ma aveva gli occhi gelidi e verdi come il mare proprio come gli occhi di suo padre. Evelyne aveva ereditato al contrario il viso allungato e tendente all’ovale del duca e gli occhi più scuri della madre. Julian era dispotico, Evelyne era delicata come il suo nome. Insegnò a Violante a leggere e a scrivere. Alle loro sedute in biblioteca si unì la figlia della bibliotecaria, Maria, una ragazzina minuta, dalle trecce nere e gli occhi vivaci, piena di spirito. Sua madre Vita, era la donna con la favella più arguta e giudiziosa che avesse conosciuto. Aveva cresciuto Maria da sola, dopo la morte del marito, ed era una persona davvero forte.
Purtroppo un giorno i duchi s’indebitarono e dovettero vendere la tenuta. Si trasferirono definitivamente a Carcassonne. Il distacco fu doloroso.
La villa fu comprata dal conte Ferdinando Cagiani, un uomo massiccio e tarchiato, nobile e ricco quanto irascibile e rozzo.
Sua figlia Gemma era invece di una straordinaria bellezza. Aveva boccoli neri e occhi chiari. Violante aveva sempre adorato certi occhi blu: le sembrava che il mare camminasse tra la gente. Quelli di Gemma però erano freddi e crudeli. Il suo fascino ammaliò tutti i ragazzi della servitù, che però la odiarono subito dopo per la sua saccenteria e cattiveria. Nonostante la severità del padre, invitava spesso signorotti nel palazzo in sua assenza, minacciando la servitù di vendicarsi nel caso avessero osato spifferare qualcosa. Nessuno però avrebbe mai osato tanto, sapendo bene che il conte considerava bene Gemma la sua pupilla e non avrebbe mai dato credito ai pettegolezzi di un servo.
Un giorno, quando Violante aveva dieci anni, seppe che la duchessa Annalisa e suo marito erano stati trovati morti in circostanze misteriose. Pianse tutto il giorno. La notizia le era stata comunicata da Gemma, che aveva sulle labbra un sorriso sadico.
Violante la compativa solo perché sapeva che Gemma aveva avuto un rapporto burrascoso con la madre, che pare avesse conosciuto un bell’uomo in una vacanza con la famiglia e fosse fuggita con lui. Da allora la donna non aveva più voluto saperne della figlia. Questi fatti le erano stati riportati da Maria, solita origliare con suo rischio e pericolo dietro le stanze dei conti.
«Violante, a cosa pensi?»
La voce squillante di Maria la riportò al presente.
«Niente, ricordi del passato.»
«Passato, pensi sempre al passato! Pensa al futuro! Quando ti decidi a fidanzarti? Hai diciotto anni ormai!»
«Quando troverò l’uomo giusto.»
«Bene, spero che ti sbrighi. Perché io ieri mi sono fidanzata con Francesco.»
Lo stupore si dipinse sul volto di Violante. Francesco era lo stalliere della tenuta, che fino a un anno prima le aveva fatto una corte spietata. Lo fece notare cautamente a Maria.
«Violante, Francesco si è stufato di aspettarti.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi Maria disse:
«Sai di essere bella. Sei diventata una splendida ragazza. Hai qualcosa che mi ricorda la duchessa. Sarà il taglio degli occhi, o il sorriso dolce. Puoi avere chiunque.»
«Questo è un gran complimento, ma io non voglio chiunque, io voglio Antonio.»
Maria scosse la testa:
«Violante, Antonio non è alla tua portata. È un capitano, è nobile. Ed è promesso sposo di Gemma. Domenica sarà il suo compleanno, e sicuramente annunceranno il loro fidanzamento.»
«Gli dichiarerò prima il mio amore» rispose sognante Violante.
«Buona fortuna» replicò secca Maria.

[continua]


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