Opere di

Angelo Cicatelli


C‘è la neve a dividerci

C’è la neve a dividerci,
lo conferma la voce dei treni sui binari
l’arrivo, la partenza di un sussurro a cui devo credere
cedere a tutta la bruttezza che mi si è gettata dentro,
costretto a rimanere lontano da te
isolato come una casa cantoniera…
Ascolto la tua voce al telefono,
la mia sembra un megafono che supplica la tua attenzione
ho le tempie gonfie come vele rimboccate dal vento,
tanto quanto sia trascorso il tempo e conservo i miei appunti nella mente
prima che giunga un sonno scomodo e senza tranquillità,
i miei occhi a fessura vedono sbiadire il tuo viso mesto…
Misero paio di scarpe nere dimenticate nella scarpiera,
destinate a non camminare, viaggiare, scendere dalle pedane delle metropolitane
a vedere i lacci sciolti sul pavimento,
mi torna in mente la mia rassegnazione di braccia incrociate…
Ti penso osservando un residuo di dentifricio che brilla dentro al lavandino,
mentre cadono miliardi di pallori umidi,nudi e muti…
E così senza che una ragnatela occupi una grondaia,
la neve soffoca il discorso del vento
nulla riesce a cacciar fuori quelle grosse e lucenti gocce di pioggia,
tantomeno il tuo nome quando è inciso sul legno
quanto molle e allo stesso tempo breve,
è quella cosa che va a tuffarsi dentro dighe colme di resina,
sovra incidendo il silenzio sulle secche sponde
si appiana sopra i prati…


Notti straniere

Mia dolcissima ricordi,
attraverso quel trascorrere di notti straniere insieme,
tutto aveva a che fare con la poesia,
anche giunti a Marsiglia alle prime luci dell’alba
e sul nostro balcone si era già posata una zanzara ricoperta di sale
che a guardarla mi innervosiva nonostante la tenerezza del momento…
Ci affacciammo durante la navigazione,
eravamo a pochi nodi e già immaginai
una dolce lotta fra i tuoi bianchissimi denti e il crepuscolo,
senza rendermi conto d’avermi fatto rubare dal vento
l’unica cosa di me che apparterrà per sempre al mare,
un’anima di porcellana con dentro una parola…
Per te afferrai i pochi cirri nel cielo e te li poggiai sulla bocca
per farmeli soffiare negli occhi e addormentarmi in sogni a pois
e cademmo insieme nell’acqua gelida di notte,
quando le onde ci trascinarono non per il vento
verso una fioca luce d’addio di stelle tremanti
e il giorno dopo fummo già all’altro porto, inconsci
con un faro ancora avvolto dalla bruma notturna
dove all’improvviso sbucò un piffero scivolato dai riverberi della luna
e che posato dentro un’anfora,
rivelò ai miei occhi la tua immagine…
Udivo i passi dei camerieri filippini,
un ritmo perfetto se solo avessi avuto un principio di melodia
e senza alcuna esitazione,
guardai l’altra sponda dov’era ormeggiato un mercantile francese
ricordandomi il numero degli uomini che ci trafficavano sopra,
ricordandomi il suo nome “Marianne Bouchard” mentre tu dormivi,
ricordandomi i suoi colori quando passeggiavamo per mano sul ponte
e infine te l’avrei presentato silenzioso come i ricordi delle nostre nozze…


Bambolina

Cammini dolcemente,
nemmeno l’ostacolo di alti gradini sembra impoverire la tua bellezza
dalle tue sottili labbra fatte di parole a modulazione ondulata,
i tuoi passi continuano a interferire con il tuo vestitino appena sfiorato dal vento
mentre il roseo colore della tua pelle sembra aumentare,
come l’immaginaria timidezza sbiadita dei papaveri sotto il sole…
Non molto lontano si trova un cantiere,
badilate di ghiaia vengono gettate a terra sfaldandosi al suono dei macchinari
ma anche nel bel mezzo di tanta rudezza,
il tuo sorriso non mi da sconforto nemmeno nell’aria polverosa
e come vorrei baciarti nel momento in cui l’aria lascia i suoi inspiegabili vuoti,
bambolina…
Le tue mani al profumo di camomilla mi accarezzano insieme ai tuoi colpi di spazzola sui capelli,
vedo l’orizzonte del paese perso in macchie informi dal colore latteo
e poi come una bozza di scarabocchio, mi appare tutto in ordine il tuo viso…
Per i tuoi occhi dagli sguardi leggeri come l’olio,
vorrei essere un nastro magnetico per condurre l’intensità alla fatica di essere impressi nei miei
la pinzetta che costruisce altrove attingendo dalle pietruzze e atomi colorati che ti formano…
Quelle tue sopracciglia,
nient’altro che cirri in arrivo dai bassopiani e silenziosi come sbadigli
ma a volte smosse dal pianto che affonda come un tuono nella mia tranquillità,
diradate e asciugate dall’inconsueto tremolio della mia voce…
Sulle tue spalle si rincorre e scivola con prepotenza qualcosa che deve apparire ai miei occhi,
solo spifferi di spiagge lunghe e deserte dove io morirei bisbigliando le ultime cose alle onde…
Vorrei attraversare interminabili file di vetrine,
per poter uscire dalla monotonia di veder riflessa solo la mia immagine sui vetri
ritrovarti nella confusione di altri mille giocattoli,
solo allora sarei sicuro che non mi sfuggiresti più
oppure perché sei semplicemente,
bambolina…


Io ti porterei

Sopra bianche rocce marmoree,
di un castello di canne e tetto di alghe in riva al mare
dove i gabbiani spengono le loro ali e agitano il petto per spolverarsi dal sale,
io ti porterei…
Dove l’eco dei fondali mi desta dal sonno,
il vento con le sue folate tortura di inquietudine la peluria delle mie braccia
e l’acida medusa adagiata su una conchiglia la corrode,
io ti porterei…
Vorrei avere l’abilità di un giocoliere per fare uno spettacolo con tutto quel che vola in alto,
centrifugare e avvolgerti tutta fino a far diventare di un solo colore le mie carezze su di te
vederti fare capolino da una polpa profumata,
mentre sto seduto sotto un mandorlo osservando le tue pupille di miele sciogliersi dolorosamente.
Stenderei un bianco telo di lino sulla sabbia,
che andrei a riprendere quando le stagioni avranno avuto il coraggio di spogliarsi
lasciando sulla battigia le loro vesti, in un quadro ad olio che appenderemo nella nostra casa…
E poi lasciar correre le nuvole indisturbate senza deviarle sui nostri pensieri,
senza ammonirle con l’indice teso delle nostre mani solo perché non riescono a raggiungerci
lasciarle pure prendere rotta verso l’autunno dimenticandosi per sempre di noi,
io ti porterei a tempo di cicale verso il caldo e umido profumo del limone sbucciato a terra
in attesa di osservare in cielo una luna ansiosa di svanire sopra l’arco teso dei nostri passi…
Al mattino quando i pescatori fanno rientro al porto stremati,
vorrei vedere il tuo viso sulle piastrine dorate delle loro collane sui petti bruciati dal sole
il cordame delle reti che portano a strascico la tua anima,
il tuo nome scritto sulla prua dei loro pescherecci…
Ti porterei verso il luccichio di una lanterna,
quanto basta per osservare le continue risalite delle nostre ombre verso i crateri lunari
rigettate e coricate all’orizzonte in attesa di essere rianimate dalle grucce di luce dell’alba…
Se mai nel mio destino fosse scritto un progetto,
sarebbe di plasmarti nel silenzio della cera sciolta di una candela
donandoti un profilo che abbia un po’ di tutte queste immagini descritte
e con il vento che stenderà i tuoi capelli,
la nostra barca filiforme andrà avanti
e insieme a me,
io ti porterei…


Stratosfera

Il nostro è stato come lo sbando di nuvole nel cielo,
coprendo miglia marine su mari sconvolti e chilometri a piedi nudi sul caldo panno della spiaggia
all’uscita di arcobaleni sempre umidi e ricoperti di finissimo glitter,
il lido balneare è uno scivolo dove luci e ombre si divertono a rendere oblique e capovolte le scritte
poi quei rumori di scafi insabbiati dove a fatica sbattono i remi sul legno per farsi udire,
le palme sul lungomare simil tropicale sembrano pennini di liquido che ombreggiano le terrazze…
Cercare partenze e ritorni delle maree sulla bacheca del porto,
c’è un legame passato e futuro con l’orologio delle maree appeso al muro della hall dell’hotel
un ciclo preciso che può sfasare solo nei primi e ultimi quarti di luna dei tuoi sguardi…
Ci sono stati posti in cui ti portavo e la pioggia si frantumava sulle lenti dei tuoi occhiali,
poi nel pieno sole sembravano essere bramose di sparire portandosi dietro tutte le cose inutili
prosciugandosi da tutte le immagini e le scene intrappolate durante il temporale…
E poi le voci, le nostre parole dal colore castano come libeccio d’autunno che spazza la costa
e il tuo corpo perfettamente a incastro fra due rami come può esserlo la puleggia di un motore,
sfumatura sincronizzata allo spegnersi dei nostri discorsi, al declino di tutto ciò ancora nascosto…
Poi di sera c’era quel tuo lieve gesticolare le mani nello spiegarmi le cose,
unito al leggero trucco sugli occhi e alla luce della luna sembrava un ritaglio di nubi nottilucenti
mentre con le tue mani afferravi mensoline d’aria dall’alta troposfera e tremavi al pensiero del peso
io facevo spazio nella tua mente per farvele accedere e godere insieme di tutti i fenomeni celesti…
Passava un minuto o un’ora con te e sembrava già far parte di un grande passato,
simile all’odore in pelle di un vecchio vagone e traversine estive sotto teli di cellophane…
Tu eri il mio palcoscenico e io la tua intonazione,
le stagioni si dimezzavano o si accavallavano pur di far passare velocemente il nostro tempo
entrambi sentivamo la folla che gremiva con mille occhi abbottonati sul nostro amore,
ma tutti i dolci strumenti dal suono melodico sono stati sostituiti dall’avanzata insolita del tamburo..
Ora siamo diventati cumulonembi che si gonfiano sopra campagne abbandonate,
imminenti temporali sembrano peggiorare la tranquillità di cose al di fuori di noi
noi siamo un sole contuso e sconfitto dalla troppa grandine che cade su lunghe fila di guard rail,
un bagliore che affloscia il cemento, le strade e tutte le luci del vicolo dove mi sono dichiarato a te…
Tutta la poesia e la musica sono sospese,
ma sono certo che tu avrai messo un segnalibro al capitolo del nostro romanzo
un fermacarte allo spartito dove le note non devono volare verso il flusso migratorio delle rondini,
mai come allora sono preda di eterne vibrazioni…
Come un bimbo trovo semplice trovare sollievo nell’infinito,
allungo i tuoi capelli srotolandomi con loro alla tua lontananza
fino a quando il capolinea dell’invalicabile me lo impedirà…
Siamo fragili come cactus del deserto a cui non bastano le spine per difendersi,
non siamo la corrente del fiume per levigare la durezza della roccia
non siamo la cartacarbone dove la felicità altrui può esser ricalcata ai nostri dolori
non siamo l’aquilone che vive la sua colorata gioia nel vento…
Ora io e te in bianco e nero come i film di un’epoca fa,
in cinemascope dove come altre comparse sono presenti elementi a vita breve
quali tramonti e boccioli a lutto,
tutto uno schianto dopo questa interminabile e infinita giravolta
una goffaggine tenuta ben nascosta sotto le ali del nostro comune angelo…


Visioni

Nei mattini d’inverno,
all’ombra di gobbe brinate e dell’irriducibile frutto rinato
mi intrufolo nel muto torpore di gente vaporosa che non vedrò mai più,
assorbito dal lucente e profumato alone di detersivo lasciato sui vetri delle boutique
mentre il tuo viso risplende come il marmo del campanile,
quasi a sembrare una bellezza a tempo pronta a svanire
trascinata dalle maestose punte del suo orologio…
Le fossette delle tue guance sembrano crema di un dolce sfiorato da un cucchiaino,
mentre il lembo della tua sciarpa ciondola nel tentativo di accarezzarti le spalle…
Il colore castano dei tuoi occhi cade obliquo sulla neve,
il bianco funereo delle tue dita s’allunga frugando nel notturno del fondovalle,
il roseo delle tue unghie scintilla e si agita come la brace,
piume e colori dall’incredibile crescita t’avvolgono come un pettirosso immortale…
Ora posso solo sentire il freddo di un monetina in tasca,
contemplo il ramo dell’abete che ondeggia e non vuole confidarmi il suo segreto
non vuole dirmi il nido e l’occhio di ghiaccio che trama i tuoi sogni,
il mio cuore è sfuggito alla tensione volando dall’unica asola sbottonata del mio cappotto
ormai senza unione come una catena slegata dalla bitta,
mi lascio allontanare come una nave, inghiottito dall’orizzonte più confuso e torbido che ci sia…
Ora in mia assenza l’aria mite di boccioli piumati delle tue ciglia ha avvolto la mia stanza,
ha ammorbidito il tarassaco nascosto fra i dirupi,
ruota dolcemente le maniglie delle finestre per sussurrare al vuoto la tua dimora…


Il paese che non c‘è

Armonie di chitarra sembravano volersi allacciare all’alba e al tramonto,
mentre io ero il plettro che scivola sulle lapidi della tua terra acquietata dalla morte
la mia esistenza, i miei tentativi di venire a smuoverti da un malinconico stallo
il mio camminare alla rinfusa fino a quando non ero colmo di tutti quei ricordi,
tutte quelle situazioni vissute ai miei idoli, ai miei amici che non so come hanno rimosso tutto
dimenticato, qui nel paese che non c’è…
Senza nessuno con cui parlare,
solo uno spazzino di ridicole rime di foglie secche
e poi un carretto di legno che vendeva antichità nella piazzetta,
scricchiolava senza attirare l’interesse di nessuno tanto era avvolto dall’ubriachezza e bestemmia
qui, nel paese che non c’è…
Sorgi arroccato sul pendio del monte Alburno,
inclinato come il palmo di una mano che vuole soffiare il tarassaco di bacio alla sua amata
fragile e rude vai ancora a cercare la dolcezza della luna,
nel centro pagina di stelle e capitoli di chi vive in te mai conclusi
in un dialetto antico sulle labbra taglienti dell’aratro…
Mi ritrovai a camminare in uno dei tanti vicoli,
muri scorticati da vecchi necrologi gettati a terra dal vento e l’umidità,
piccoli depliant del circo che si è trovato di passaggio mi circondavano le caviglie
e in un giallore stracciato, appariva coraggioso il sorriso del pagliaccio…
I miei capelli sfioravano le luminarie della festa di paese,
i tralicci ondeggiavano di contentezza nel reggere il peso di luci colorate
anche angoli di vecchi portoni in legno abbandonati mostravano il dorato delle ragnatele…
Il mio udito era stuzzicato dallo sferragliare di una donna che tesseva,
mentre una lenta foschia la poca luce rimasta mordeva…
I miei passi sembravano accelerare l’ansia sul trascorrere del tempo delle lancette dell’orologio,
arrivò il giorno tutto febbricitante e accecato dal torreggiare di altissimi alberi piagnucolanti
stillanti rugiada simile a scintille di una smerigliatrice in quel mattino di maggio…
Un paese in cartolina senza bollo di partenza,
destinato al bussare del mio cuore e all’anima immortale di chi lo abita
un ritratto di comignoli fumanti e staccionate dove ciondolano ombre di bambini,
finestre dalle tende leggere e trasparenti di pizzo dove spiano gli occhi delle mamme
sono alla ricerca dell’arrivo di una cantilena dalle campagne,
lo spaccar di legna dell’ascia del boscaiolo…
I camini tremavano al pensiero di farsi riavvolgere dall’ennesimo piccolo incendio,
mentre l’esile figura che riuscii a scorgere nel calore di lana grossa della folla
non era altro che un ragazzo, l’ancor bocciolo di poeta
piangeva seduto, piegato come una misera virgola nel bel mezzo della sua dichiarazione d’amore
fallito il sogno di restare con lei,
nel paese che non c’è…



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