Il ricordo che ossessiona

di

Angelo Passera


Angelo Passera - Il ricordo che ossessiona
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 130 - Euro 11,50
ISBN 9791259512703

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In copertina: fotografia dell’autore


Il ricordo che ossessiona


Prologo

Il dottor Osvaldo Calvano, medico chirurgo, rientrando a notte inoltrata a causa di un’operazione urgente, è colpito da un improvviso malore. Perde il controllo della sua macchina, si schianta contro un palo della luce elettrica e muore sul colpo.
L’uomo aveva quarantaquattro anni, lascia una moglie e due figli già grandi, un’ottima posizione economica ed una splendida villa. Per la vedova incomincia così un’altra vita.
Anna ha quarantadue anni e cerca disperatamente di reagire. Era una donna felice, ma un così tragico evento ha brutalmente cancellato quindici anni della sua vita. Era stata abituata nell’agio e nella sicurezza materiale, ora deve badare a limitare le spese. Era certa dell’amore di suo marito, scopre ora con stupore che lui la tradiva.


Una triste verità

Quando il notaio aprì il testamento, grande sconcerto e stupore si instaurò nell’animo dei presenti.
“Prima di darne lettura, però, devo chiedere a un’altra persona di raggiungerci, si tratta di qualcuno che ne ha il diritto”, si affrettò a precisare, vedendo lo stupore diffondersi sul volto di Anna. Fece telefonare a Silvia Sanzi, che immediatamente comparve lì.
“Ecco la signorina Silvia Sanzi”, annunciò il notaio, facendosi subito da parte.
Sbalordita, Anna salutò la signora con un lieve cenno del capo.
“Si accomodino, prego”, si affrettò a dire il notaio, indicando due sedie di fronte al suo scrittoio.
Le due donne si sedettero senza guardarsi.
“Proprio non capisco”, pensava fra sé Anna, “perché deve esserci questa persona? Cosa c’entra con i Calvano e con Osvaldo.”
Il notaio aveva incominciato a leggere, una specie di ronzio che Anna non riusciva nemmeno a capire, continuava invece a tentare di spiegarsi il motivo della presenza di Silvia Sanzi nello studio del notaio.
“Il testamento, datato il 28 marzo 2009, è firmato Osvaldo Calvano”, disse il notaio, “se vogliamo firmare qui.”
Anna ebbe un sussulto. In piedi, il notaio si chinava verso di lei e attraverso lo scrittoio le porgeva dei documenti, “certo, sì”, balbettò e firmò come un automa.
“Posso andarmene ora?”, chiese Silvia Sanzi, dopo avere a sua volta firmato, “prego,” replicò il notaio. Mentre si allontanava, Anna ricordò finalmente chi era quella donna.
“La sua camminata è inconfondibile, quel suo corpo senza forme, senza un benché minimo di femminilità, come può avermi tradita con un tipo simile?”, si chiedeva.
La sua mente continuava ripetersi.
Era la sua segretaria, solo ora capiva il perché dei suoi continui ritardi.
Quando Silvia se ne andò, il notaio iniziò un discorso con Anna. Era imbarazzatissimo, ma superando il disagio balbettò, “Il testamento è inattaccabile, l’ho steso io stesso, dietro precise indicazioni di suo marito, che ha voluto fossero prese tutte le precauzioni possibili perché fosse rispettata la sua volontà. Ho dovuto consultare specialisti, mi creda ho cercato di farglielo capire al dottore che non mi sembrava corretto nei suoi riguardi, ma si trattava della quota disponibile, nulla impedisce di lasciare i propri beni ad un estraneo, un quarto dei beni, per l’esattezza.”
Anna aveva studiato legge, il notaio certo lo ignorava. Riflesse un momento prima di parlare,
“Non sapevo che mio marito e quella persona fossero così legati, è vero che non andavo mai alla clinica. Non mi sembrava che Osvaldo ci tenesse così tanto alla signorina, non avevo mai notato questo suo interesse, mi pareva un essere insignificante, in avvenire guarderò meglio il mio prossimo.”
Il notaio rimase quasi impietrito. “È vero che non ci sarà avvenire” continuò Anna come rivolgendosi a sé stessa.
“Suo marito le ha lasciato di che vivere”, azzardò il notaio. “La villa resta a lei, è un grosso capitale, alla signora Silvia Sanzi è toccato solo un quarto dei beni di suo marito.” “Come potrò mai ringraziarla, signor notaio?”
Insensibile all’ironia, l’uomo continuò:
“Se posso osare darle un consiglio, lei dovrebbe disfarsi della villa. La rendita che le verrà dalla clinica non sarà certo sufficiente per far fronte alle spese che dovrà sostenere, il dottor Calvano aveva calcolato che la vendita della villa le avrebbe fruttato il necessario per un vita più che dignitosa.
“Mio marito pensava proprio a tutto”, gemette Anna con gli occhi pieni di lacrime. Il notaio si morse le labbra, nella sua professione vi erano momenti veramente difficili.
“Il dottor Calvano sapeva di essere debole di cuore, certamente non voleva che lei si preoccupasse.”
“Penso invece che la signorina Silvia Sanzi ne fosse al corrente”, rispose risentita Anna e subito dopo una breva pausa continuò con voce soffocata, “Non venderò la casa. L’ho sistemata secondo i miei gusti, non secondo i suoi, dato che lui preferiva andare altrove.”
Il notaio accennò a un gesto di protesta con la mano.
“Niente le permette di supporre che suo marito e la signorina avessero una relazione.”
“E il testamento?”, ribatté Anna con violenza repressa.
“Nessuno è obbligato a rendere pubblica la cosa, tutti gli azionisti della clinica “Grande Intervento” fanno parte della sua famiglia e lei dovrebbe poter contare sulla loro discrezione.”
Anna si alzò, il notaio, sollevato, si precipitò ad accompagnarla. L’ingrato compito era terminato. In fondo si era aspettato una scena molto più penosa. Si capiva che la signora Calvano aveva classe.
“Dopotutto non ha ancora quarantadue anni”, pensò l’uomo, “si potrebbe dargliene al massimo trenta, sarebbe veramente sciocca se non si risposasse, la trovo molto meglio della signorina Sanzi.”
Durante tutto il colloquio Anna aveva dovuto far forza su sé stessa.
“Sto per esplodere”, si disse appena uscita dallo studio del notaio.
Incominciò a camminare, così, senza una meta. Non aveva assolutamente voglia di rientrare a casa. I figli Alberto e Rossella avrebbero pranzato senza di lei. Il domestico Paolo avrebbe finito con l’indurli a mangiare. Non si sentiva nemmeno la forza di telefonare. Improvvisamente si accorse che la gente si voltava al suo passaggio.
“Dio mio, sto piangendo”, affermò ad alta voce, accorgendosi che le lacrime le scorrevano sulle guance, prese il fazzoletto dalla borsetta e si asciugò gli occhi, senza essersi resa conto che era arrivata sino in centro. Qualcuno la urtò scusandosi, ma lei sembrava non accorgersene, la sua mente ormai era in un’altra dimensione. Entrò in un bar, ordinò un caffè corretto con della sambuca, finse di sfogliare qualche giornale e poi, quasi in trance, se ne andò senza salutare.
Nella sua mente ricorreva sempre il pensiero, “È spaventoso, Osvaldo è morto ed io vivo, io respiro, io rido, sono veramente un mostro.”
Ad un certo momento guardò l’orologio, era veramente tardi, poteva rientrare, certamente i ragazzi avevano già mangiato e lei sarebbe salita direttamente in camera sua.
Alberto e Rossella stavano finendo di cenare in compagnia di sua cognata Elda, la sorella più giovane di Osvaldo, che aveva deciso di prodigarsi sino in fondo per attenuare le loro sofferenze.
“Eravamo in pensiero”, disse vedendo entrare Anna, “Ho telefonato al notaio e mi ha detto che te ne eri andata da molto tempo.”
“Mi servirete qualcosa in camera”, disse Anna, rivolgendosi al domestico che, indossato un grembiule, stava incominciando a sparecchiare la tavola.
Rossella intervenne inquieta, “Ti senti bene, mamma?”
“Benissimo, cara, non ti preoccupare, sono stata forte fino ad ora, no? Siete sempre gentili tutti quanti, ma ora ragazzi andate a coricarvi.”
Alberto cercò di protestare, ma la sorella lo trascinò via.
“Dove sei stata?”, domandò Elda, non appena i ragazzi si allontanarono.
“Sono andata a fare quattro passi, avevo un gran bisogno di schiarirmi le idee.”
La cognata non manifestò alcuna sorpresa ed Anna gliene fu riconoscente.
“Hai fatto bene”, disse semplicemente subito dopo, “bisogna pensare ad altre cose, però è dura, non è vero?”
Anna assentì con la testa, senza rispondere, “Buona notte”, aggiunse poi, “Vado a coricarmi.”
Non voleva soprattutto intenerirsi. Salì in camera e stava infilandosi una vestaglia quando il domestico Paolo bussò lievemente alla porta. Portava il leggero spuntino che lei aveva chiesto. Il vecchio dispose con cura un piatto di carne fredda e un cestino di frutta sul tavolo, ai piedi del letto. La donna notò che aveva gli occhi rossi. Da quanto tempo conosceva il domestico? Vent’anni o quasi, era sempre stato al servizio della sua famiglia. Mentre stava finendo di disporre il coperto non poté fare a meno di soffiarsi il naso.
“Via, Paolo”, mormorò Anna, “sono io la vedova.”
Il vecchio fece un gesto quasi per scusarsi, si raddrizzò e finalmente osò guardarla in viso.
“Non vorrei apparire indiscreto, ma posso permettermi di domandarle se va tutto bene? Insomma”, farfugliò, “voglio dire la signora non ha qualche nuovo grattacapo, molto spesso una morte porta con sé noie di denaro.”
Tacque e ambedue restarono per un momento in silenzio. Anna stava facendo dei calcoli mentalmente. Sino a quel momento non aveva ancora considerato le cose da un punto di vista pratico.
“È vero”, disse dopo aver riflettuto, “ho proprio paura di non poter pagare lei e la cuoca Giada.” Paolo aggrottò le sopracciglia, “Non è che io le voglia offrire i miei risparmi”, aggiunse, “ma è talmente tanto tempo che sono con lei signora, noi possiamo benissimo aspettare un po’, sino a quando lei non sarà in grado di prendere una decisione al riguardo, io non ho bisogno dello stipendio”. Dopo aver parlato fece un inchino cerimonioso e uscì con molta dignità.
“Caro Paolo, bisogna proprio che pensi a tutto questo.”
Poco dopo Anna pensò di soddisfare la sua fame e tra un boccone e l’altro si faceva sempre più forte il pensiero della slealtà del marito. Non riusciva a capacitarsi del suo comportamento, della sua relazione con Silvia, la tormentava il pensiero che il marito fosse andato dal notaio e avesse organizzato la sua vita dopo la sua morte.
“La nostra vita, la mia e quella dell’altra, come ho potuto essere così cieca?”, continuava a pensare fra sé.
Si sentiva la mente invasa, però, anche di splendidi ricordi, delle immagini di vacanze piene di sole all’Isola d’Elba, del rumore del mare; come erano stati felici.
“Siamo ritornati il nove agosto ed io, senza dire nulla ad Osvaldo, sono corsa dal ginecologo, credevo di essere incinta.”
Arrossì al ricordo dei loro abbracci di fronte al mare. Quelle notti, all’Isola d’Elba, tutti e due e nonostante ciò, un mese prima, aveva steso quel testamento.
“Di Silvia Sanzi non ne parlava mai in casa, lei sembrava così devota, senza dubbio è per questa ragione che le ha lasciato un quarto delle azioni della clinica per ricompensarla di tanto lavoro e di tanta dedizione.”
Si sforzava di negare l’evidenza, di illudere sé stessa, non riusciva a crederci. Quasi con rabbia si mise davanti allo specchio e si guardò.
“Se almeno fosse più giovane e più bella di me potrei capire, ma ha la mia età, cosa poteva dargli più di me?”
Si mise ad andare avanti e indietro per la camera ritornando, di tanto in tanto, davanti allo specchio, interrogandolo quasi con rabbia.
“Tra Osvaldo e me i legami si sono via via allentati, evitavo di parlargli della clinica perché mi pareva che non ci tenesse, non avevamo molte cose in comune; questa casa, questo focolare che ho costruito a poco, a poco, in quasi vent’anni di matrimonio, gli era estraneo. Ci sfioravamo quasi senza vederci, spesso rientrando molto tardi la sera, avevo perso l’abitudine di aspettarlo, scivolava nel letto mentre io ero già addormentata e quando mi svegliavo al mattino se ne era già andato, ero la madre dei suoi figli, la sposa del dottor Calvano, la signora che dirigeva la casa del dottore.”
Tolse con lenti gesti la vestaglia e indossò la camicia da notte, si stese sul letto, che le parve immenso.
“Mio Dio”, gemette, “non sono nemmeno riuscita a conservarmi Osvaldo, non avevo altro da offrirgli che un cuore vuoto, come è potuto accadere tutto ciò?”
Fu scossa dai singhiozzi e pianse quasi con voluttà, il viso sprofondato nel cuscino. Improvvisamente le venne un’idea, parecchie volte al mese Osvaldo si recava nelle più disparate città perché diceva che chiedevano la sua consulenza prima di operare. Quando terminava tardi dormiva in albergo per non viaggiare di notte.
“Non era vero”, si disse, “ogni volta rientrava la sera, non appena aveva finito di operare, ma invece di ritornare qui, andava da lei, ed io qui.”
L’evidenza della cosa la fece smettere di piangere, poi, ubriaca di stanchezza e dolore, si addormentò come un masso.
“Domani andrò da lei a mettere in chiaro tutto questo”, pensò ancora confusamente prima di piombare nel sonno.

[continua]


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