Con questo racconto è risultato 6° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria:
«L’autore, in questo racconto crudo e realistico, colpisce al cuore con sagacia e ironia terribile la volontà fideistica popolare, e la analizza con accurata scepsi, mediante l’incontro e il dialogo tra il Rabbi Zekharia, anziano religioso ebreo, ed Eleazar, il Lazzaro della tradizione evangelica.
La devastante condizione di Eleazar resuscitato da Yeshua, Gesù, diventa una terrificante vittoria della natura sul soprannaturale.
Lazzaro è stato sì resuscitato da Gesù, ma in ritardo, e a beneficio della platealità del miracolo.
Le conseguenze sono l’imputridire e il marcire del corpo in decomposizione di Eleazar, costretto a coprire il fetore della morte con fragranze speziate, e consapevole di esser felice di morire di una vera e ultima morte per mano dei sicari del sinedrio.
Alla domanda del Rabbi sulla vita dopo la morte, Eleazar risponde in modo seccato ed evasivo, considerandola irrilevante, e ribadendo che la sua sofferenza di marcire giorno per giorno è l’opera egocentrica e incompiuta di Yeshua, desideroso unicamente di affermare la sua volontà di potenza.
L’umana e fisica sofferenza di Eleazar, diventa l’archetipo dell’eterna vittoria della natura sul sublime.
Questo racconto, irriverente e intelligente, ha ciò che la vera arte richiede: spezzare ogni argine e certezza per cogliere la verità e la bellezza anche nel più recondito e oscuro fattore umano».
Alessandra Crabbia
Fragranze speziate
Rabbi Zekharia avanzava lentamente lungo la stradina polverosa che portava dall’abitato di Betania alla casa di Eleazar, isolata nella campagna. Era un pomeriggio soleggiato, poco dopo Pèsach; quindi era arrivata la primavera e di ciò il vecchio Zekharia si rallegrava e recitava nella mente:
“Alzati, amica mia, vieni mia bella, mettiti in cammino. Ecco l’inverno è passato.”
Ciò malgrado, sopra la tunica bianca indossava il suo consunto mantello di lana col cappuccio sollevato a incorniciare i radi riccioli biancastri, che ancora pendevano arrotolati dai lati del cranio, e la lunga, morbidissima, barba candida. Usava il mantello perché le sue vecchie ossa risentivano ancora del gelo invernale e aiutava il passo esitante appoggiandosi ad un contorto e lucidissimo bastone in legno d’olivo di cui si serviva ormai da tanto, tanto tempo.
Sapeva bene che la sua età avanzata non era sufficiente a giustificare il ritardo della sua visita: troppo era il tempo trascorso dall’evento. Sua moglie Leah lo aveva a lungo martoriato:
«Tu hai officiato il suo rito funebre e l’hai fatto chiudere nel sepolcro. Poi lui è resuscitato e tu non senti neppure il dovere di andarlo a trovare, per parlargli, per chiarire. È un uomo del tuo popolo, un uomo che conosci da quando è nato, sei stato presente al suo bar mizwà; tu l’hai seguito, si può ben dire, dalla culla alla tomba. Ma perché non parli? Perché borbotti da solo e non ti spieghi?».
Non si spiegava né con la moglie né con altri semplicemente perché non capiva, non capiva più niente.
Durante tutta la sua vita lui aveva sempre rispettato tutti i mitzvot, tutti i precetti di un buon ebreo ma poi era arrivato questo Yeshua, pure lui ebreo, a dire parole e operare azioni non in linea con la Torah.
Diceva: “Sta scritto ma io vi dico…”.
Diceva di essere il Messia ma non si comportava come il Messia, tanto atteso, avrebbe dovuto comportarsi.
Diceva di essere il figlio di Dio!
Voleva cambiare il mondo, il mondo di Zekharia.
E aveva resuscitato Eleazar. Impossibile!
Ma lui, Zekharia, aveva ben visto il cadavere di Eleazar mentre la sorella Maryam gli frizionava la morta pelle del corpo con un composto di origano, menta e rosmarino, com’è consuetudine. Mentre veniva coperto dal sudario e i piedi e le mani avvolti in bende. Mentre veniva adagiato in una grotta ed una grande pietra era stata spinta a sigillarne l’ingresso.
«Dev’essere stato un caso di morte apparente. Ho già sentito parlare di casi del genere. Ma quell’uomo come poteva saperlo?».
Un mago, ecco cos’era stato, uno shèdim, un demone incantatore che però non aveva saputo incantare la morte ed era finito sulla croce, inerme come tutti di fronte al Sinedrio e alla fredda violenza romana.
Alla fine Leah, a forza di tormentarlo, era riuscita a convincerlo, a vestirlo e a metterlo sulla strada, facendolo precedere da un veloce ragazzetto che preannunciasse la sua visita in casa di Eleazar. Zekharia sapeva bene che il principale motivo dell’attivismo della moglie era la sua insaziabile curiosità: lei voleva sapere tutto di prima mano per poi chiacchierarne con le vicine. Al suo ritorno in casa il povero Zekharia sarebbe stato sottoposto a stringente interrogatorio e ogni minimo particolare sarebbe stato esaminato, sezionato e interpretato.
Ma lui, in quel momento, avanzando a passettini incerti sul terreno sconnesso, aveva in mente la figura di Yeshua che aveva visto una volta mentre, circondato e seguito da una turba di pittoreschi discepoli e anche da donne sfrontate, attraversava Betania per andare a trovare il suo amico Eleazar. Non mancava certo il carisma a quell’uomo dallo sguardo così impudicamente penetrante! Lui,
Zekharia, in piedi sulla soglia della sua abitazione, aveva sentito che la sua anima era stata messa a nudo da quello sguardo e aveva tremato.
Insolente!
Si diceva che in quell’occasione Maryam gli avesse lavato i piedi (e questo era compatibile con la tradizione), li avesse cosparsi di olio profumato e poi li avesse asciugati con i suoi lunghi capelli neri. Questo no, questo era troppo, era persino osceno!
Si diceva anche che Lui, l’ospite, ne fosse compiaciuto.
Non sapeva cosa pensare del giudizio del Sinedrio di metterlo a morte. Certamente era un uomo che dava fastidio, che voleva cambiare il suo mondo, che, forse, bestemmiava. Ma il Sinedrio, si sa, era composto da sacerdoti nominati dai romani e quindi non c’era tanto da fidarsi delle loro sentenze.
Ma lui non ne sapeva nulla e nulla voleva saperne. Lui non c’entrava.
Era alfine giunto nel cortile della casa di Eleazar, ombreggiato da ulivi, dove era atteso da Maryam che lo scortò verso il fratello. Questi era seduto su una comoda poltrona di canne, imbottita di cuscini, posta vicino ad un tavolino, sotto un ulivo; solo il suo viso cereo spuntava da una ruvida coperta di lana che ricopriva l’intera poltrona. I due uomini si scambiarono i saluti di rito mentre Zekharia impediva ad Eleazar di alzarsi:
«Non ti incomodare mio caro ragazzo; ti prego, niente complimenti. Immagino che ancora non ti sarai ripreso completamente».
Le spente pupille scure di Eleazar erano perse in qualche suo mondo lontano. Non rispose.
Mentre Maryam faceva accomodare l’anziano rabbino in un’altra poltrona di canne foderata di cuscini, la sorella Martha s’avvicinò con un vassoio contenente pane, formaggio e latte.
Come sempre, da quando le conosceva, cioè dalla loro nascita, Zekharia si stupì della diversità e, nel contempo, dell’assonanza fra le due sorelle. Ambedue di carnagione scura, dalle sopracciglia folte e arcuate, Maryam era snella e slanciata come una cerbiatta mentre Martha appariva più materna e rassicurante. Dolce e pensosa Maryam in contrasto oppure a completamento dell’efficienza sbrigativa della sorella.
“Bella famiglia quella di Eleazar, – pensava Zekharia – strano che nessuno di loro si sia sposato! È davvero una famiglia singolare.”
Dopo essersi assicurate che il fratello e il loro ospite fossero ben sistemati e adeguatamente riforniti di cibo e bevande le due sorelle si allontanarono per permettere agli uomini di conversare liberamente.
Mentre si dissetava con un bicchiere di latte, Zekharia avvertiva nell’aria un intenso profumo di unguenti fra cui gli sembrava di distinguere l’odore dell’olio di palma, la fragranza limonata della melissa, l’aroma dolce e speziato della maggiorana e forse, un sentore mentoso dominante che gli ricordava qualcosa: che si trattasse del costosissimo cardamomo? Addirittura!
Eleazar, che evidentemente aveva colto le narici del vecchio annusare avidamente l’aria, intervenne:
«Sì Rabbi, sono profumi quelli che state fiutando. Maryam mi strofina unguenti profumati due o tre volte al giorno e non bada a spese per coprire il fetore pestilenziale che il mio corpo emana».
«Ma io non sento fetori».
«Avvicinatevi Rabbi, superate le fragranze speziate e sentirete».
Zekharia si allungò verso Eleazar aspirando ogni odore ed effettivamente il suo olfatto fu investito da un lezzo nauseante di cosa marcia o corrotta che lo respinse all’indietro, sulla seggiola.
«È disgustoso, vero?».
La voce spenta di Eleazar sussurrava tutta la sua disperazione.
Zekharia, che si tirava e pettinava la barba, avrebbe voluto essere lontano da lì.
«Mio caro ragazzo, probabilmente, col tempo, l’odore diminuirà e poi sparirà. Forse è legato alla malattia che avevi; non ho mai saputo di cosa si trattasse».
Eleazar aveva il capo teso verso l’alto, dove le fronde dell’ulivo venivano agitate dalla brezza dolce del meriggio.
«Non lo so neppure io. Avevo tremendi dolori allo stomaco e vomitavo spesso. Il rofè non sapeva o non voleva darmi una diagnosi; alle mie domande rispondeva semplicemente che l’Eterno è l’unico risanatore e che a lui avrei dovuto rivolgermi. Poi accadde che svenni e mi svegliai molto più tardi udendo una voce che gridava: “Eleazar vieni fuori”. E io mi alzai».
Le dita nodose di Zekharia giocherellavano nervosamente con i suoi scarsi payot che gli ricadevano coprendogli le orecchie.
«Così, semplicemente?».
«Così io ricordo quello che è accaduto».
Zekharia si sporse, sapendo che questa domanda gliela doveva proprio fare, per riferire la risposta alla moglie e anche per se stesso.
«E nel frattempo? Cos’hai visto? Dove sei stato?».
Eleazar scosse il capo, irritato.
«Tutti quelli che mi vengono a trovare mi chiedono la stessa cosa. Non so cosa rispondere, non posso rispondere. Morite anche voi se volete conoscere l’inconoscibile».
Zekharia cercò di placarlo.
«D’accordo Eleazar, sta calmo. Non voglio turbarti. D’altronde il tuo caso potrebbe essere stato soltanto un episodio di morte apparente».
L’altro sbuffò.
«Secondo voi Rabbi, la morte apparente conduce alla putrefazione del corpo? È possibile?».
Il vecchio rabbino si strinse nelle spalle, sotto il mantello.
Poi, per cambiare discorso, chiese:
«Avrai saputo della morte di Yeshua, a Gerusalemme».
Per la prima volte il vecchio distinse un bagliore nello sguardo spento di Eleazar.
«Tutto ho saputo. Della sua crocifissione e morte e anche della sua resurrezione».
«Come puoi credere a una cosa del genere?».
Eleazar parve ridacchiare.
«Proprio voi mi fate questa domanda? Voi che avete celebrato il mio rito funebre, che mi avete fatto seppellire nella grotta e ora state parlando con me mentre annusate il mio tanfo sotto il profumo degli unguenti? Certo che credo che il Maestro sia risorto, ma Lui non puzzerà perché Lui è il Figlio nella gloria del Padre suo».
Il vecchio sembrò restringersi dentro il suo mantello, scrollando il capo mentre i payot gli si agitavano ai lati del viso.
«Ma se Lui era quello che diceva di essere perché il Padre ha permesso la sua morte?».
La voce di Eleazar rispose debolmente, come ripetendo una lezione che avesse imparato a memoria.
«Per questo era venuto: per dare testimonianza di sé e del Padre suo e per salvare l’uomo dal peccato con il Suo sacrificio».
Cadde il silenzio; il vecchio borbottava fra sé qualcosa. Eleazar lo guardò interrogativamente.
«No, niente: riflettevo. Pensavo di sapere un po’ di cose sul mondo, sugli uomini, sul patto fra il nostro popolo e l’Eterno. Mi pare ora di non sapere più niente. Questo mi sconvolge».
Un uccellino dalle penne brune e il gonfio petto bianco atterrò sul tavolino, becchettò qualche briciola di pane e poi svolazzò via, verso i rami dell’ulivo.
Zekharia pensò che era ora di andarsene. Scorgeva gli occhi curiosi di Maryam sbirciarli dalla finestra della casa.
«E gli affari, come vanno? Penso che non avrai avuto tempo di seguirli ultimamente».
Eleazar ridacchiò di nuovo come se tossisse.
«Gli affari! Se Martha non avesse pensato lei a tutto, ai braccianti, al grano, alle potature, adesso ci troveremmo in mezzo alla strada!».
«È sempre stata una ragazza molto concreta tua sorella Martha!».
«È vero, eppure il Maestro sembrava preferirle Maryam. Una volta, a Martha che si lamentava della sorella che non la stava aiutando per ascoltarlo, il Maestro ha detto: “Martha tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maryam si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta.” Io questo non lo capisco».
Gli occhi infossati di Eleazar erano persi nell’ombra. La sua voce, roca e piatta parve incupirsi quando aggiunse:
«Ma c’è un’altra cosa che non capisco. Una cosa più importante».
Zekharia si fece più attento.
«Mi hanno raccontato – ora Eleazar sussurrava piano, come se parlasse soltanto a se stesso – che quando le mie sorelle mandarono qualcuno ad avvisare il Maestro che io ero molto malato, Lui era in Perea, non molto lontano da qui. Ma Lui non venne subito: si trattenne altri due giorni nel luogo ove si trovava. Poi disse ai suoi: “Il nostro amico Eleazar s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo.” E aggiunse, perché i suoi discepoli non comprendevano: “Eleazar è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate.” Avete capito Rabbi? Ha aspettato due giorni perché io morissi e Lui era contento perché così aveva modo di mostrare ai suoi, ai giudei e al mondo intero il suo potere, perché tutti potessero credergli. Quando è arrivato qui io ero già da quattro giorni nel sepolcro».
Zekharia si agitava sulla sua poltrona imbottita che ora non gli pareva più così comoda.
«Però ti ha resuscitato, secondo quanto tu dici».
«Sì, mi ha resuscitato, ha avuto il suo spettacolo. Io sono uscito dal sepolcro. Ma il mio corpo era ormai irrimediabilmente putrefatto».
«Cosa avrebbe dovuto fare, secondo te?».
Eleazar girò il viso cereo verso il vecchio rabbino.
«Un amico, un vero amico, corre subito ad una richiesta di aiuto, specialmente se è davvero in grado di aiutare. Altrimenti avrebbe dovuto lasciarmi là, nel mio sepolcro, dove non soffrivo più.
Mi ha usato, capite Rabbi? Yeshua mi ha usato».
Zekharia avvertì l’eco di un singhiozzo.
Poi Eleazar proseguì:
«Qualche giorno dopo ci fu una cena per festeggiare il mio ritorno alla vita. Io ero seduto di fianco al Maestro ma a fianco a me non sedeva nessuno per il cattivo odore che emanavo che impediva di godersi il cibo. Ma per il Maestro io avrei potuto odorare di rose per come si comportava: non sentiva nulla. Era radioso in viso e continuava a parlare della resurrezione dal peccato! Capite Rabbi, il mio caso era semplicemente un esempio, come si dice, una metafora. Avevo peccato ed ero morto; ora ero resuscitato perché credevo in Lui ed ero salvo al Suo fianco. Poi se n’è andato e mi ha dimenticato qui».
C’era rabbia e disperazione nella sua voce, quella disperazione che scosse Zekharia.
«Figliolo mio, c’è qualcosa che posso fare per te?».
«No Rabbi, vi ringrazio ma voi non potete fare nulla. Altri invece potranno».
«Altri? Chi?».
Il viso di Eleazar era rientrato parzialmente sotto la coperta di lana e da là sotto rispose:
«Mi hanno informato che il Sinedrio ha deciso di uccidere anche me dopo Yeshua. È chiaro: viene troppa gente a visitarmi, a parlare con me. Vedete Rabbi: io rappresento la prova del potere di Colui che loro hanno mandato a morte. Forse i sacerdoti del Sinedrio hanno ucciso il vero Messia? No, io devo morire e così cancellare ogni suggestione. I sicari faranno quanto devono con discrezione e rapidamente. Mi è stato consigliato di fuggire, di nascondermi. Sciocchi! Io aspetto con gioia quel momento».
«Perché Eleazar, perché?» Zekharia aveva alzato la voce, tanto che Martha era apparsa sulla porta di casa.
Eleazar le fece un segno rassicurante con una mano, una mano emaciata uscita dalla coperta. Poi si volse verso il vecchio.
«Perché voglio morire, Rabbi, e questa volta per sempre».
Il tono era definitivo.
Poco dopo il vecchio prese congedo da Eleazar e dalle sue sorelle.
Ripercorrendo il sentiero verso l’abitato di Betania, nella luce perlata del tramonto, Rabbi Zekharia ebbe modo di riflettere a lungo mentre si appoggiava al suo bastone e metteva un passo incerto avanti all’altro.
Una cosa era sicura: a sua moglie Leah avrebbe fornito una versione un tantino modificata del suo colloquio con Eleazar. Non era il caso di gravare la semplice mente della sua compagna con le terribili domande che ora tormentavano la sua di mente e che restavano senza risposta.