Peppedda
Conobbi Peppedda un sabato mattina in una panetteria, dove la gente entrava e usciva per comprare il pane appena sfornato. Fra gli acquirenti notai che una persona parlava confidenzialmente col venditore e talvolta con qualcuno in attesa che arrivasse il proprio turno per l’acquisto del pane. Era un po’ bassa, rotondetta, indossava sa vardetta e una maglietta.
Davanti portava un grembiule, quello che le donne usano quando sbrigano le faccende domestiche. Era pettinata come le donne dei paesi vicini alla nostra città, con i capelli raccolti all’indietro fermati da spilli. Sotto il braccio teneva un giornale e intanto aspettava il suo turno, quasi contenta di trovarsi in mezzo a tante persone. Sembrava le piacesse attardarsi in quel luogo. Uscì poi, un po’ barcollando e una volta che anch’io ebbi acquistato il pane, uscita fuori vidi che il suo incedere pendeva ora a destra ora a sinistra.
Da quel giorno, poichè, spesso ci trovavamo dal fornaio, Peppedda prese confidenza con me e proseguendo insieme un tratto di strada ogni giorno mi raccontava un pezzetto della sua vita. Poche battute all’inizio. Mi disse che fin dagli anni Cinquanta era venuta a servizio a Nuoro presso una famiglia signorile e benestante, che vantava anche titoli nobiliari, quindi poteva garantirle un certo benessere. La famiglia era composta da sette persone: i genitori, quattro figli e un’anziana signora, la nonna dei quattro ragazzi e madre della padrona di casa. Inizialmente Peppedda mi sembrò un po’ ingenuotta.
Poi incontrandola ancora mi disse che aveva fatto la serva sempre in quella casa. Non risparmiava però critiche alla padrona di casa, chiamandola pur sempre, donna Vincenza. Trattava i figli di questa con tenerezza, come se fossero suoi nipoti di sangue ed essi la ricambiavano con lo stesso affetto. Anch’io simpatizzai subito per questa donna che aveva bisogno di raccontarsi. Mi disse con tanta tristezza che in realtà lei una famiglia non l’aveva mai avuta, perciò, presa coscienza del suo stato di estrema miseria, aveva deciso di venire a Nuoro per fare “sa theracca”, almeno poteva guadagnare qualcosa per sé.
Non voleva continuare a vivere, andava a lavorare in casa di chiunque le consentisse di guadagnare qualcosa: – Miserie, signora mia. Si lavorava “pro sa entre” nelle case e in campagna. – Lei, ancora bambina, si trovò con altre bambine a servire presso una famiglia benestante del paese, dormivano per terra su sacchi o stuoie e si dovevano alzare presto per andare a innaffiare gli orti, raccogliere le olive o le mandorle, a seconda della stagione. “Soffrivo il caldo d’estate e tanto freddo durante l’inverno.”
Le mie compagne di lavoro, piccole come me, ma più fortunate, avevano una famiglia che le accoglieva con amore. “Io una famiglia non l’ho mai avuta. Vivevo con mia madre e mia sorella in una stanza a piano terra, nella povertà, ma soprattutto povera d’affetti, trattata da mia madre mai come una figlia, mentre tutte le sue attenzioni erano riservate per mia sorella.
La nostra abitazione era composta da una sola stanza, dove cucinavamo e dormivamo. Non aveva finestre e la notte veniva chiusa da una porta sgangherata assicurata dall’interno con una spranga di legno.”
Un giorno Peppedda venne a sapere che la mamma si era ammalata. Nel suo giorno libero andò a trovarla. Seduta in casa venne trattata come un’estranea, ignorata. A un certo punto la mamma chiese un bicchiere d’acqua. Peppedda si precipitò per darle da bere, ma la mamma la fermò dicendo: – Tue non ses fizza mea, dae tene non cherzo mancu una tassa de abba. – Pianse il cuore a Peppedda perchè, nonostante tutto, lei voleva bene alla mamma e alla sorella. Sempre più delusa si convinse di essere tonta davvero e tra sé ripeteva come in una cantilena: – Theracca so naschia e theracca appo a morrere. – Non seppe mai chi fosse suo padre e sua madre era peggio di una matrigna cattiva. Peppedda accettava la sua malasorte soffrendo e ripetendo: – Io sono disfortunata. Ho sofferto la fame e il freddo e nessuno si prendeva cura di me”.
Subiva il suo destino tristemente rassegnata come se fosse ineluttabile. Racconta ancora Peppedda: – Un giorno il padrone di casa, dove lavoravo prima di partire a Nuoro, mi disse che una sua figlia, che si era diplomata maestra, aveva avuto il posto da insegnante nelle scuole serali del paese. Per tenere aperta la scuola ci voleva un certo numero di alunni. Io dovevo essere il numero uno di quegli alunni, giusto per far numero dovevo andare. Non era importante che io imparassi a leggere e a scrivere, tanto ero considerata tonta. E così stavo seduta come una mummia, non calcolata nemmeno dalla maestra, aspettando annoiata che la lezione finisse. “Oijoi”, sospirava: – Io sono nata “disfortunata”, mentre si asciugava gli occhi senza lacrime.
Avvenne che un giorno il padrone di casa rimasto vedovo con otto figli sposò la sorella di Peppedda giovanissima. Quindi il destino cambia per la sorella, ma non per lei. “Io serva sono nata e serva morirò”. Ripeteva con tanta tristezza.
Peppedda non tornò più al suo paese e rimase a servire fedele in quella casa di Nuoro per quarantacinque anni. Si considerò sempre una serva. Nessuno mai la mandò via da quella casa, ma anche lei non aveva intenzione di andarsene. Ormai quelle erano le sue radici.
Dopo la morte della padrona e della figlia minore, cui lei era molto affezionata, continuò a vivere sola, accudita da una badante, trascorrendo i suoi giorni in solitudine avendo sempre nei suoi ricordi la sua infanzia triste e senza affetti. La casa di Nuoro la sentiva sua e anche la famiglia che aveva servito era diventata la sua famiglia.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita ascoltando la radio o rispondendo al telefono, seduta su una piccola sedietta, faccia al muro d’inverno con una stufetta davanti per scaldarsi, incanalata tra il tavolo e il lavello della cucina. Giunta la bella stagione girava la sedietta verso un terrazzino, guardando il nulla, pensando alla sua infanzia e a quando, ancor giovane, aveva lasciato il suo paese per non tornarvi più.
Al suo funerale poche persone: i figli di donna Vincenza, una nipote di sangue che ogni tanto si commuoveva, alcune persone che avevano conosciuto Peppedda. Tutti i presenti al funerale accompagnarono il feretro in cimitero e rimasero fino a quando non venne tumulata la salma in un loculo, forse più largo dello spazio che Peppedda aveva occupato da viva nella casa di donna Vincenza.
Io che ero presente alla tumulazione pensai: – Riposa in pace Peppedda, quello spazio non ti starà certo stretto, forse è più largo di quello che hai occupato, sulla terra, da viva. Nell’altro mondo almeno avrai il premio come il povero Lazzaro di cui parla il Vangelo. Ti meraviglierai di essere accolta in un spazio immenso, non verserai più lacrime perchè: “Terre Nuove e Cieli Nuovi” ti si apriranno e anche tu canterai l’Alleluia dei Beati.
Spiegazione delle parole scritte in sardo:
1) Peppedda – Giuseppa
2) Sa vardetta – la gonnellina di cotone plissettata, che le donne sarde indossavano abitualmente nei giorni non festivi
3) Theracca – serva, domestica
4) Pro sa entre – per il cibo necessario in quella giornata lavorativa
5) Tue non ses fizza mea, dae tene non cherzo mancu una tassa de abba- Tu non sei mia figlia, da te non voglio nemmeno un bicchere d’acqua
6) Teracca so naschia e teracca appo a morrere – serva sono nata e serva morirò
7) Disfortunata – sfortunata