Con questo racconto è risultata 10^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010
«Il destino degli uomini»
Caro Sig. F.
le scrivo per ragguagliarla sugli sviluppi della nostra impresa.
Il viaggio, come già le scrivevo anche nella mia scorsa missiva, finora è stato dei più faticosi che abbia mai affrontato. Questo paese, ai confini del mondo, Signore, è da raggiungere con la tenacia e la forza della disperazione e la speranza, se ancora ce n’è rimasta nell’animo.
La carovana si è fermata. Mi rammarica dirlo, ma si è arrestata in un punto tragico.
Non procediamo ormai da quattro settimane.
Ci avevano indirizzato in una foresta oltre la quale dicevano ci sarebbe stato questo luogo che tanto cerchiamo. Ce lo dissero uomini poveri e sudici, affamati che vivevano ai confini, ultimo presidio di disperati. Avremmo dovuto sospettare di tali uomini, ora mi rendo conto dell’errore, ma anche noi avevamo perso la speranza e ci aggrappammo a quell’ultima estrema notizia riguardo alla terra che bramiamo.
L’ottimismo parve per un attimo tornare nei nostri cuori.
Entrammo nel folto dei rami, il sole lentamente scomparve dietro di noi, la vegetazione ci chiudeva la volta del cielo e la luce, in pochi giorni, non sorse più al mattino.
Sono settantadue giorni ormai che non vediamo la luce.
Siamo ciechi o poco più che ciechi.
E che umidità, Signore! è come essere in un canale sporco e fangoso, soffocare nell’acqua.
L’umidità ci scorre lungo la schiena, ci bagna i materassi, la muffa invade i nostri pochi oggetti che ci tengono disperatamente legati al vostro ricordo.
Questa foresta doveva finire, ma non termina e non termina e davanti a noi c’è un fosso, un’enorme ferita della terra, l’abisso infernale più profondo che occhio umano abbia mai visto.
Si sente un odore, Signore, che atterrisce, di qualcosa di morto, di ferro, di fuoco e acqua marcia: lì in fondo deve esserci la fine.
A volte la notte, quando gli uomini cadono stanchi e sconfitti nelle brande umide e fredde, stringendosi gli uni agli altri come animali spaventati, la notte, mi avvicino ai margini dello squarcio e spio, cercando di scorgere il fondo. Un freddo sale, un gelo come dall’aldilà.
Mi viene, allora, la voglia irresistibile di fare l’estremo passo, uno solo in più e sentire il mio corpo leggero precipitare, avvolto dalle tenebre, la mente svuotarsi di tutto l’orrore vissuto.
Voglio dimenticare mio figlio. Non voglio pensarci. Era necessario che andasse a finire com’è finita. Ma il mio cuore trema al ricordo di quello che ho fatto.
Non c’è modo di andare avanti e di là dal baratro la foresta continua, uguale e tetra chissà fino dove, chissà fino quando.
Sento, Signore, che, quello che ci spingeva all’impresa, sta smorzandosi giorno dopo giorno, i miei compagni stanno morendo davanti questo squarcio. Ho paura a dirlo ma anch’io mi sento meno motivato, sconfitto, siamo soli davanti alla fine del Mondo.
So che lei, voi tutti sperate che l’impresa abbia un buon esito.
Dio voglia che sia così!
Troveremo davvero quello che cerchiamo? Ci sarà?
Quante terre abbiamo attraversato, quanti mari, paesi, laghi, quanti…?
Dietro la montagna più alta del mondo, in fondo all’abisso più profondo, in cima all’albero più alto, giù nel pozzo infinito… oltre, più in là, in fondo…
Non c’è Signore, non troviamo il paese che cerchiamo. Sei anni e mezzo e niente.
I miei compagni hanno paura di morire ugualmente e nello stesso identico e tragico modo.
Non li spaventa la morte del corpo, Signore, a quella ogni uomo si deve rassegnare, li atterrisce la fine dell’anima, della loro delicata razionalità.
Quella morte li spaventa.
Come abbiamo fatto, mi dica, Signore, chi è stato a commettere l’errore?
Dobbiamo trovarlo. Quel paese deve esserci!
Mi rassicuri signore che non è solo un sogno.
Dobbiamo trovare i Libri.
Quando l’Antenato pensò di bruciarli, non si rese conto che ben presto l’anima di tutti sarebbe morta.
Pensò di bruciarli e di crearne uno perfetto, un libro mai esistito, con parole mai pronunciate da alcuno, che soppiantasse tutti gli altri, che eliminasse ogni falsità, eterogeneità e racchiudesse in uno il tutto.
Che idea folle! Oggi l’ho capito, che maledetta idea!
Nessuno lo fermò? Nessuno protestò? Che fecero gli uomini? Ave, ave all’Antenato! Com’erano spaventati dell’orrore che era diventato il mondo! E non capirono.
Comporre un libro dalla parola perfetta, suono perfetto del reale.
Come crearono questa pazzia? Quanti saggi e filosofi e scienziati si misero intorno al tavolo ad approvare questo? Ormai è successo.
Non riusciremo mai a creare quel libro.
In milioni di millenni abbiamo provato, linguisti, dotti astronomi, maghi, scienziati, letterati, psicologi, filosofi, eroi ed eroine, cuochi, calzolai, panettieri, tutti, tutti insieme per formare il libro perfetto, summa di ogni conoscenza e umana idea… non esiste, non esisterà.
L’uomo non può farlo.
E quanto è andato perduto nei roghi? La scienza dell’intera storia dell’umanità. E per l’idea folle dell’Antenato.
Che maledetta idea!
Voleva mettere tutti d’accordo, accomunare le dottrine, pacificare le menti, trovare per tutti la giusta opinione.
Utopica scelta!
Come? Come l’abbiamo permesso?
E intanto la memoria dimenticava ogni generazione di riportare qualcosa, ogni uomo scordava di raccontare qualcosa al figlio, e il figlio a suo figlio e così molte volte.
Questo ha fatto perdere millenni di scritti, esperienze, conquiste! L’uomo credeva nell’onnipotenza del suo intelletto. Non siamo macchine perfette. Chi scrisse per la prima volta lo sapeva.
E fu troppo tardi quando cercammo nuovamente di scrivere perché i geni erano mutati, il cervello era mutato. C’eravamo rovinati con le nostre stesse intelligentissime mani.
Signore, troveremo mai quel paese, oltre l’abisso invalicabile, oltre il resto della foresta, oltre questo, oltre quello, oltre l’altro e altro ancora, troveremo quel paese?
I miei figli rimasti, ancora non colpiti, lo troveranno? I figli dei miei figli? I figli dei figli dei figli? O chi? Chi, Signore? La memoria sbiadisce ogni giorno di più. Mi chiedo se finiremo per non ricordare più niente. Non lo sapevano, Signore, non sapevano che questo avrebbe sfumato i ricordi fino all’incapacità di ricordare?
Saremo in fine degli animali?
O mio Dio, animali, bestie, ci divoreremo!
Quei libri di quel paese, forse leggenda, quei libri ci potranno salvare?
Non esiste Signore.
No, no! Voglio credere che esista.
Si ricorda quando i primi cominciarono a dimenticare? Alcuni i nomi dei familiari, altri la propria arte, finch… molti iniziarono a vagare vuoti di ricordi. Altri ululavano come cani, grugnivano come maiali, ragliavano come asini.
Mio figlio… ho dovuto come ognuno sacrificare l’amore per non diffondere il panico.
Quanti ancora dovranno morire prima di trovare quel paese?
Quegli occhi del mio bambino! Erano occhi di un cucciolo, un cagnolino.
Ma non era un cagnolino era un uomo.
Che animale mi toccherà essere in sorte? E agli altri miei figli? La mia dolce Camille? Inorridisco.
È come un morbo che ci opprime. Eravamo troppo abituati a ricordare con la parola impressa sulla carta, quei tratti ci permettevano di essere noi stessi, esseri umani, razionali.
La memoria. Solo questo.
Alcune volte anche a me sembra di non ricordare.
Il perché del viaggio.
Perché il viaggio?
Il perché di quest’abisso.
Il perché dei miei compagni.
Dobbiamo trovare quel paese che è oltre.
Solo questa la speranza!
Credo che questo sia l’unico motivo che ci permette, a noi pochi sopravvissuti, di non dimenticare.
Le invio questa lettera. Gliela porterà un uomo fidato. Attraverserà ogni luogo, dove i nostri piedi si sono fermati, sperando di non perdere il senso del viaggio, di non perdere la mia missiva, di non perdere l’umanità.
Alla scorsa lettera non ha risposto (come anche alle precedenti cinque).
Gli inviati devono aver perso il cammino della ragione.
Non voglio credere che voi tutti l’abbiate perso.
Con la solita speranza
Hassan
Un essere metà uomo e metà animale irruppe nella sala del consiglio. Gemeva, ululava, pronunciava qualcosa simile a parole: I libri… i libri.
Il suo sguardo era folle e incosciente, il suo corpo ricoperto da una rogna che lo deformava, puzzava come un morto, di ferro e acqua marcia, d’Inferno.
Sembrava fosse passato per l’Inferno!
Un sacerdote che appariva il più vecchio, per la lunghissima barba, scese dal suo seggio, si avvicinò all’essere moribondo che si contorceva al suolo. Lo guardò con sguardo compassionevole. I capelli bianchi, gli occhi profondi: Quali libri figliolo? Che dici?
L’uomo-bestia non capiva.
Il vecchio savio chiamò un giovane studioso.
Prendi un testo Hagas! Prendi un testo.
Tutt’intorno ai seggi dei consiglieri si stendevano sulla parete circolare scaffali e scaffali di libri, milioni di giri infiniti verso l’alto. Sospesi su ballatoi giovani e vecchi, curvi su leggii leggevano pagine e pagine di milioni di libri. Tanti occhi scrutavano le righe, i segni, le storie.
Alcuni ridevano, altri piangevano, c’era chi negava e chi annuiva.
Vivevano storie già vissute o ancora da vivere.
Tutti perpetuavano la memoria.
Il ragazzo tornò con libro, la copertina scura e un poco logora lo datava come un libro molto antico.
Torna alla tua scrittura Hagas, devi ancora portare a termine la copiatura del giorno. Il tono serio del vecchio lo rendeva imponente come un antico albero secolare.
Alcuni vecchi si erano avvicinati incuriositi.
Il sacerdote anziano porse il testo all’uomo-bestia che continuava a contorcersi a terra e a farfugliare con la bava alla bocca: I libri, i libri.
Ecco il tuo libro! Gli disse gentilmente il vecchio.
Quello sfortunato lo prese tra le mani, lo odorò, lo leccò.
Lo vide, ma non capì!
Non capiva!
Non sapeva più niente.
Lo strinse al petto come un bambino, con un sorriso vuoto di significato sulle labbra.
Allora un altro vecchio, in disparte, pronunciò beffardo: Ma non vedi? E’ solo un animale! Che se ne fa di un libro?
Annalisa Casciani