Paese nativo

di

Antonio Capriotti


Antonio Capriotti - Paese nativo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
12x17 - pp. 36 - Euro 5,00
ISBN 88-8356-542-8

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Prefazione

Ecco, dopo le “Elegie ripane” del 2001, una nuova silloge di versi che il poeta ripano Antonio Capriotti dedica al proprio paese di origine: Ripatransone, un’antica cittadina picena situata su un alto sperone collinare che si affaccia a balcone sul mare. Ancora una volta dunque il paese – il paese nativo – proposto dal Capriotti come ineludibile luogo dell’anima, come fonte inesauribile di emozioni legate alla memoria, a quelle “reminiscenze” che, platonicamente, divengono conoscenza per il soggetto, scoperta di sé e dunque indagine sul proprio umano destino. Di qui forse l’incessante dialogo dell’autore con luoghi, figure, cieli e stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza vissute al paese poi da lui abbandonato e fatto oggetto di struggente nostalgia. Da ciò è scaturito un ulteriore dettato poetico, un nuovo tessuto espressivo dall’intenso ordito lirico, dove passato e presente si intrecciano dando luogo a quadri di stupenda visualità, a icone di trasfigurata mitologia personale, nella quale gli stessi insistiti motivi della “fanciullezza”, della “lontananza” e del “ritorno” assumono volta a volta significazioni più alte, universali e trascendenti.
La riscoperta di remote atmosfere e figure del vissuto ripano trovano adeguato compimento in un uso stilistico sapientemente dosato di antico e moderno, di composta effusività, di modulazioni aperte e segrete, ammiccanti, le quali contribuiscono non poco ad arricchire di suggestione indotta il già di per sé fascinoso paese nativo.

Stefano Venanzio Cerulli


Paese nativo

Paese nativo

Case aggruppate e torri, vicoli d’ombra e intorno
baratri di luce, latitudini marine: paese nativo
e pur effimeri si torna, tratti come in sortilegio
noi che partimmo affabulati e ora tristi
figli in parabole di prodighi. Si torna
mutati ai sentieri iniziali del tempo, a luoghi
e cose che hanno volti e nomi di memoria, vene
e respiro di terra, di patria: fuggita
nostra Itaca che chiama – limite e meta, enigma
arenario di voli e radici.


E un giorno infine

caduti a noi per sempre i gesti e le parole
approderemo stabili all’altura, ombre
mansuete lassù dove nacque l’ansia
oggi conversa in dolcezza di labili ritorni: gli echi
del tempo, i passi e la memoria senza più suono
né ragioni – dissolti allora
saliremo nel vento, da ogni dove a cercare
lassù, nel grembo di mura remote, le nostre
libere strade della Terra.


Quando qui si fa sera

Quando qui si fa sera
e già affondano rive
nel buio, penso al paese
mio alto: lassù
in quel medesimo istante
ancora s’appigliano mura
al tramonto – e lunghe
rivedo penombre
durare alle strade
del timoroso mio passo fanciullo.


Le cicale

Ricordo ancora remote cicale
nel culmine arso dei giorni
lente cantare cantare
dai pini o dai tigli assetati:
un vibrare alato di corde
nell’arco tra il giallo mattino
e il buio tenue d’agosto – un uguale
invisibile coro, un canto
nascosto che forse era pianto
del tenero tempo che andava.


Lontani inverni

Lontani inverni al paese, lunghi
di neve sui tetti, di brace
consunta ai camini – lì intorno
le fiabe di sera e il rosario
a bisbiglio quando ululavano
i tristi corsieri del vento
Sperduti i mattini, avvolti
di bianche totalità, di stupite
afonie – e appese alle gronde
magie di lunghi cristalli
stillanti a filigrane pallide
di sole.


Morìe di giochi là fuori

per agguati interminabili
di tosse e geloni – e tu sospiravi
dal chiuso pensando a voli
di rondini lontane, a lento
germinare ascoso, a tremanti
sui rami crisalidi
di primavera. Ansioso
scrutavi meridiane stente, ellissi
assiderate lungo i muri.


Cammina cammina…

A nonna Geltrude

“Cammina cammina” diceva la favola
antica, e c’erano fanti e donzelle, villani
e cavalieri – e tutti andavano andavano
cercando a fatica piccole cose o castelli.
Nel bosco viveva la strega, il vecchio romito
sul monte; d’inverno cadeva la neve
e il lupo bussava alle porte; il vento parlava
ai camini e la luna alla fonte – e poi vi si specchiava
rubando spazio alle stelle.
Il principe a primavera svegliava
col bacio la bella dormiente in attesa
tra i fiori: poi insieme andavano via, e intorno
tutto era d’oro, brillava
felice andare alla vita, all’amore.

Mentre la fiaba scorreva
assonnavano i bimbi a poco a poco, sognavano
ormai – e la voce al racconto languiva
ormai stanca. Negli anni poi rada
si fece, sempre più rada alle sere, fin quando
per sempre si tacque. E di tutta la favola
bella, di tutta la favola cara
nel cuore restava soltanto – scandito
ancora in sordina – “cammina cammina cammina…”


Ricordo notturno

Estremo lembo di colle, rifugio
notturno alla calura
quando in serie scricchiavano
sui rami – aereo scherzo di folletto – le pigne disseccate. Aliti
salivano di valle sopra l’argine
scosceso, odoroso insieme
di resina, di cardo, di mentuccia.
E la Luna era lampada tra i pini
per il gioco infinito
dei cantoni, e teneva desto
col suo giallo nella notte
un tremulo frinire di cicala.


Piccolo idillio

Ci cercavamo io e lei – bimbi
un po’ precoci – col gioco audace
e tenero di ciglia, e io avrei voluto – lei lo sapeva – esser farfalla
stabilmente in posa sui fiori
biancorosei del suo volto
oppure uccello tessitore
perso ad intrecciare
in mille nodi d’oro i suoi capelli.

*

Usciti poi dall’esile giardino
profumato dell’infanzia
altri fummo noi due, distanti

- pure

incontrandoci negli anni
correva ogni volta tra noi
fugace un sorriso, un dolce sguardo.


Le lampare

Erano immense e chiare nell’estate
le notti ripane: lente maree
diffuse dopo lungo ardere agli orli
lontani di montagne. Risalivano
da valli in mistura d’ombra
e opale, di blu e lievissimo giallo
lunare. A oriente – là in basso – incantava ai balconi
d’un tratto apparire il piano marino
fiorito, tremolante di lampare.


Alla Befana

Amabile vecchina solitaria, adunca
fata disadorna, inesausta dispensiera
di balocchi e onniveggente viaggiatrice
di cieli e di camini scendeva nella notte
magica dei doni: oh cara Befana
recami ancora dalle stelle
o da chissà dove quell’antico palpito
d’infanzia; deponi nella calza – da me perennemente appesa – quell’attimo
sospeso, d’attesa sia pure di un nonnulla
oggi più di allora iridescenza
dentro la mia stanza
sommersa ormai di cenere e carbone.


Sera al paese

Strade silenziose tra anse
di mura remote: pietre serene
scolpite di luna, graffite
in simulacri. Torri svettanti
inesauste scrutano il mare
vicino, i monti lontani
e il vòlucre fiume del tempo – e guardano me che cammino
con passi divisi: incerti
passi impigliati, presi
tra aperte linee di fuga
e grinfie tenaci di nostalgia.


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