Antonio Machado
«E se la verità fosse più ardua dell’invenzione?»
(Articolo di Massimo Barile – Rivista Il Club degli autori 199-200-201 Anno 19 – febbraio 2010)
Il destino di un uomo è quasi sempre legato a qualcosa che sovrasta le sue azioni. La tragedia singola diventa l’ineluttabilità cosmica del fato.
Un poeta affida “il profumo del suo fiore al vento” e le sue poesie al Tempo. Ecco allora che la Parola serve ad esprimere la varietà infinita e la complessità del mondo: un continuo percorso verso le “cose della vita”.
La vita d’un uomo può prendere direzioni inaspettate. Antonio Machado come “viandante al limite del sentiero” segue “l’onda umile di poche vere parole” e pare fare sue le parole di Hofmannsthal: «La profondità va nascosta… alla superficie». Eppure la direzione da seguire si presenta e ripropone nelle visioni di luoghi in cui si è vissuti, nelle strade dove ci si è incamminati, nella memoria che riconduce a “campi verdeggianti”, tra “echi di luce” nel rifugio mancego, tra “rami di spigo castigliano”.
L’indagine insegue ciò che è nascosto, celato nelle fenditure, camuffato nelle ipotesi, plasmato nelle tracce su una superficie infinita. Ciò che è visibile diventa il “presente” che si vive, ciò che è invisibile diventa il tramite con una dimensione che conosce il senso del vuoto.
Nel mistero degli “aromi sparsi nei campi” e dei “sentieri tortuosi”, la memoria è ricoperta da frammenti d’immagini e l’uomo cerca di esprimere le sue idee sotto forma di quelle stesse immagini che vede davanti ai suoi occhi, in modo che fissino le “soledades” in una sorta di sperimentazione, tra osservazione ed esistenza.
Il poeta viandante che cammina lungo la terra nuda della strada, sopra “l’amara terra”, tra ombre e silenzi, speranze e “chimere rosate”, come uomo che si trova a “cogliere l’umile fiore di malinconia” e deve fare i conti con “l’angoscia dolorosa sul cuore”: e quel senso di malinconia sarà elemento profondo della stessa anima poetica di tutta l’opera ed il carattere distintivo della sua visione lirica.
Antonio Machado svela un po’ di sé, quasi con pudore, immettendo le percezioni d’uno sguardo a se stesso e al proprio intimo: «Il mio cuore non dorme./Se ne sta lì tutto sveglio./Né dorme né sogna, osserva,/gli occhi chiari aperti,/segnali lontani, ascolta/in margine al gran silenzio» e poi, ancor più intensamente: «Ho visto nel profondo/specchio dei miei sogni/che verità divina/sta tremando di paura/è un fiore che affida/il suo profumo al vento».
Antonio Machado è un poeta che difficilmente si può cogliere completamente all’inizio, dopo una semplice lettura che sicuramente fissa l’attenzione sulla descrizione di paesaggi castigliani o andalusi, sulle arrossate sere o sull’acqua limpida d’una antica fonte: in verità, questo canto, come melodia della tradizione iberica, riporta al cuore dell’uomo, avvolto come da un sottile velo che insinua nell’anima le parole “si canta ciò che si perde”.
La sua poesia implica un percorso poetico da intraprendere senza fretta, per passare attraverso le solitudini andaluse, la terra castigliana che porta ad un più ampio respiro nei confronti del mondo esteriore e, infine, negli “Elogi” con la speranza di una nuova Spagna.
In un clima di fervore culturale della Spagna nei primi anni del Novecento, la famiglia si trasferisce a Madrid e Antonio Machado frequenta l’Instituciòn libre de Ensenanza. In questi anni inizia le sue collaborazioni con articoli sul teatro e sulla politica, nonché con riviste come Electra e La Rivista ibérica, e la sua creatività poetica ha modo di porre le basi e di alimentarsi. Nel 1899, si reca a Parigi e lavora come traduttore presso la casa editrice Garnier. Qualche anno dopo conosce, divenendone amico, Rubén Darìo, che elogiò le sue poesie, e Pìo Baroja. Nel 1903, pubblica il suo primo libro “Soledades” (come si può riscontrare dalla copertina del libro Madrid, Imprenta de A. Alvarez, 1903) che viene accolto con entusiasmo in un ambiente che tende ad un rinnovamento artistico e letterario, offrendo, finalmente, a Machado, all’uomo riservato come lo aveva visto Jiménez, la possibilità di trovare una sua dimensione e mettersi in luce come un nuovo poeta, sapendo bene che non poteva che essere un positivo primo passo d’un percorso molto faticoso.
Nel 1907, dopo aver seguito il consiglio e l’incoraggiamento del suo maestro, ottiene una cattedra di lingua francese a Soria, cittadina nel cuore della vecchia Castiglia, capoluogo di una delle province più povere della Spagna. Questo trasferimento significa una sorta di svolta nella sua vita dopo l’avventura da bohémien negli ambienti del modernismo madrileni insieme al fratello Manuel: la condizione di relativa sicurezza con la cattedra nella scuola superiore offre nuove prospettive dopo aver sofferto le precarie condizioni economiche della famiglia a causa della morte del padre. C’è un vento di speranza e un cambio di orientamento estetico prendendo le distanze dalla concezione dell’arte del modernismo spagnolo.
Nello stesso anno, nel 1907, esce il secondo libro Soledades. Galerias. Otros poemas (da non confondersi con la seconda edizione del libro con un titolo modificato Soledades, galerìas y otros poemas, pubblicato nel 1919) considerato dalla critica una edizione ampliata e rivista del suo primo libro, quasi una sorta di riordinanamento ed ampliamento delle sue poesie, anche se due terzi del libro, in verità, erano completamente nuovi. L’intenzione di Machado fu di eliminare gli elementi più vistosi del modernismo che avevano caratterizzato il suo esordio: mettersi in una posizione indipendente, distanziandosi da Rubén Darìo, Juan Ramòn Jiménez e, pur avendo frequentato la sua casa, Francisco Villaespesa. Era come aprire una nuova strada personale, una voce che esprimesse una lenta e profonda riflessione sulla poesia, con una volontaria depurazione dal modernismo seguendo una visione tendente ad un “approfondimento introspettivo”.
In fin dei conti, il primo libro Soledades del 1903, legato alle istanze del modernismo, e il secondo libro Soledades. Galerìas. Otros poemas del 1907, opera più intimista, rappresentano l’itinerario poetico e il percorso umano di Machado che si miscelano in un sottile senso del divenire ed è nella sostanza poetica che ne scaturisce che v’è il senso dell’inizio del viaggio machadiano: una maniera simbolista e modernista di intendere la poesia che diventa più intimista, come in un inevitabile mutamento del proprio sentire, del proprio vivere.
Le “Soledades” riconducono al mondo interiore, ad una tristezza che pervade e ad un senso di malinconia, affiancate dalla simbologia del “sole che muore” dietro le case, della notte che giunge veloce, del sogno che non s’incontra mai; e da qui, il passaggio all’“angoscia dolorosa e grave sul cuore”, alla tragicità della vita davanti al tempo che scorre inesorabile, in una sorte di stato contemplativo che porta con sé la consapevolezza della morte. Le Gallerie che seguono le Solitudini si spingono ancor più in profondità in quel mondo interiore, accedono alle zone più segrete alla ricerca d’uno spiraglio, tra sogni e ricordi, che possa illuminare il senso della vita: o magari constatare la tremenda sensazione del “nulla”. Le Gallerie come un percorso che è caratterizzato da una sensazione di limitazione delle percezioni: dal confine del nulla si possono solo trovare i “silenzi” che impregnano il simbolismo machadiano. È inevitabile la sensazione di trovarsi di fronte ad un simbolico muro, che chiude ogni possibile via d’uscita: diventa impossibile continuare il proprio cammino, v’è solo cieca solitudine. Ecco allora che l’ultima sezione delle “Altre poesie”, diventa una specie di risalita verso un oggettivismo che prevede un mutamento della visione lirica.
Con Soledades, Machado ha affermato che intendeva «raccontare l’emozione pura, cancellando la totalità della storia umana»: ecco allora dispiegarsi la capacità evocativa dei paesaggi dell’anima, le atmosfere e le immagini evanescenti, la forza simbolica di selezionate parole chiave: l’acqua e la fonte antica d’acqua trasparente, il sole che acceca, il sentiero, la deserta piazza, la sera solitaria e la notte che scende, le musiche magiche, l’infanzia perduta, il senso puro della terra, “terra nella nostra carne” e sono tutti simboli che formano la sostanza stessa della sua poetica. Riconducono al mondo interiore che conosce la rarefatta malinconia, il senso d’inquietudine, la dolorosa angoscia, il cammino tortuoso, la cupa tristezza ed il dolore che fanno tornare alla mente le parole del poeta «e seppe quanto la vita di dolore e sete è fatta». In definitiva le Solitudini sono sia quella dell’uomo, ma anche quella dell’ambiente che lo circonda, delle cose che si trovano sull’amara terra: l’ennesimo simbolo machadiano, come simboli sono anche il sogno, il ricordo, l’amore.
Lo stesso Machado, a questo proposito, scrisse in una introduzione alla sua antologia Paginas escogìdas (Pagine scelte): «Pensavo che l’elemento poetico non fosse la parola per il suo valore fonico, né il colore, né la forma, né un complesso di sensazioni, bensì una profonda palpitazione dello spirito… E pensavo anche che l’uomo può sorprendere alcune parole di un monologo intimo, distinguendo la voce viva degli echi inerti; che può anche, guardando verso dentro, intravedere le idee cordiali, gli universali del sentimento. Il mio libro non è stato la realizzazione sistematica di questo proposito; ma quella era la mia estetica di allora».
Nella città castigliana di Soria, v’è quindi un mutamento nella visione poetica ed estetica di Machado ma, oltre a questa nuova direzione lirica, v’è anche una novità nella sua vita.
Conosce la giovanissima Leonor Izquierdo che sposerà nel 1909. È un periodo di tranquillità e felicità, ed infatti, l’anno dopo si reca a Parigi con la moglie per approfondire gli studi di letteratura francese ed assiste alle conferenze del filosofo francese Henry Bergson per il quale avrà sempre una profonda ammirazione. Purtroppo la moglie si ammala e morirà nel 1912, dopo tre anni di matrimonio, a soli diciotto anni. La figura di Leonor, la sposa bambina, rappresenta «l’imperscrutabile amore dell’innocenza sognante» come scriverà il poeta, l’amore subito perduto, senza neanche il tempo di assaporarlo con serenità, senza un motivo comprensibile. Comunque il poeta conserverà di lei un ricordo dolcissimo e amorevole per tutta la sua vita. Nello stesso anno in cui deve fare i conti con il grande dolore, viene pubblicato, alla fine del mese di aprile, “Campos de Castilla” che riceve positivi riconoscimenti da Ortega y Gasset, il leader del rinnovamento culturale spagnolo in quegli anni, ma il poeta, confesserà che il successo della raccolta di poesie era servito ad allontanarlo dal suicidio.
Anche Campos de Castilla è stato sottoposto ad una profonda opera di revisione da parte di Machado, come è stata sua abitudine intervenire sulle opere con costante lavoro di meditazione e rivisitazione. La prima edizione comprendeva il lungo poema La terra di Alvargonzàlez che, con più di settecento versi, occupava la metà del libro: ciò rappresentava una evidente mancanza di equilibrio dell’opera. Nella seconda edizione pubblicata nel 1917 all’interno di Poesìas completas, il poeta cerca di ristabilire un equilibrio aumentando il numero delle poesie con nuove sezioni.
Dopo Soledades. Galerìas. Otros poemas il poeta cercava ora di uscire dalla limitazione dell’Io, sempre vivendo quell’intimismo caratteristico della sua poesia ma cercando anche un nuovo equilibrio con il mondo esteriore, «quel sognare da svegli» come aveva scritto pochi anni prima: «Non dobbiamo crearci un mondo a parte in cui godere in modo fantastico ed egoistico della contemplazione di noi stessi; non dobbiamo fuggire la vita per forgiarci in una vita migliore, che sia sterile per gli altri… La bellezza non sta nel mistero, ma nel desiderio di penetrarlo».
Un cammino che conduceva Machado alla scoperta del paesaggio castigliano che si contrapponeva al forte soggettivismo delle Soledades. La poesia Ritratto che apre Campos de Castilla diventa la sua dichiarazione: «…il mio verso sgorga da sorgente serena;/più che un uomo alla moda che sa la sua dottrina/sono, nel senso buono della parola, buono./ Adoro la bellezza, con moderna estetica/tagliai le vecchie rose del giardino di Ronsard;/ma non amo i belletti di nuova cosmetica/nè sono un nuovo uccello dal trillare allegro./Disprezzo di tenori boriosi le romanze/e il coro dei grilli che cantano alla luna./Mi soffermo a distinguer le voci dagli echi/e ascolto solamente, tra tante voci, una./ …Vorrei lasciar/il verso come lascia la spada il capitano;/famosa per la mano virile che l’impugna,/non pregiata per l’arte saputa del suo fabbro./ …E quando verrà il giorno dell’ultimo mio viaggio,/e salperà la nave che non tornerà mai più,/mi vedrete a bordo leggero di bagaglio,/e quasi nudo, come i figli del mare».
Machado mette in luce la sua nuova visione della poesia, di certo ancora legata al suo intimismo ma desidera fissare il valore dell’autenticità, della essenza della sua poetica che ormai supera la dimensione limitante dell’Io e penetra nella vita. La realtà del mondo non può permettere al poeta di rimanere chiuso nel suo labirinto intimo ma lo sospinge ad un rapporto con l’esterno: la nuova coscienza si accompagna ad una profonda riflessione sulla terra castigliana, simbolo della decadenza della terra spagnola, con risvolti etici e una visione che possa permettere la “rigenerazione” della Spagna e quindi vi sono anche elementi politici ed una comunanza con l’idea d’un rinnovamento sociale della terra di Spagna.
Campos de Castilla sarà pubblicato poco prima della morte della giovane sposa Leonor. La perdita sarà una profonda ferita per il poeta che dovrà fare i conti con una “nuova” solitudine ed una crisi poetica.
Il profondo dolore per la morte di Leonor spinge Machado a chiedere il trasferimento presso il liceo di Baeza, piccola città andalusa, dove insegnerà fino al 1919. In questi anni, Machado fa fatica a scrivere, vive in una condizione di solitudine, deve fare i conti con periodi di afflizione e si percepisce una forte propensione ad uno stato meditativo, ad una visione filosofica: nonostante sia un periodo di solitudine e di simbolica “aridità”, il poeta attua una sorta di ripensamento della sua poesia e le solitudini andaluse diventano una purificazione del suo sentire, una poetica del silenzio. Dalla lontana città andalusa di Baeza, luogo dove vivere il dolore, e poi da Segovia, Machado è uno dei fondatori della Liga de Educacìon Politica Espanola per una rigenerazione nazionale che mettesse al primo posto i valori civili e democratici.
Nel 1919, infatti, si trasferisce a Segovia, altra città castigliana vicino a Madrid, dove continua ad insegnare; scrive testi teatrali con il fratello Manuel ed entra in contatto con l’ambiente letterario e gli intellettuali della capitale oltre a collaborazioni con riviste culturali. Nel 1929, conosce la poetessa Pilar de Valderrama, la famosa Guiomar dei versi del Canzoniere apocrifo. Lei è una donna sposata e molto conosciuta nella società madrilena ma riesce a coinvolgere il poeta in un rapporto passionale seppur platonico ma la guerra civile interromperà la loro decennale frequentazione. Per il poeta significherà una ulteriore perdita causata dal destino, d’altronde “si vive nel dolore”. Machado cerca disperatamente di impegnare tutte le sue forze per appoggiare la causa della repubblica ma la dittatura di Franco elimina la resistenza repubblicana. L’uomo Machado sembra seguire lo stesso percorso della sconfitta e, nel 1939, il poeta, ormai gravemente malato, intraprende il viaggio d’esilio e muore a Collioure in un paese del sud della Francia.
L’anima del poeta cerca di orientarsi nel mistero, l’arco della vita è un “crepuscolo morato”: dopo i silenzi e le ombre nei teatri della speranza e dei ricordi, dopo le malinconie e le dolorose perdite forse già avvolto dalle “ali dell’illusione”, il sogno del poeta devia come in un labirinto.
Ed è forte il senso del tempo “non guardare… tutto passa”: il tempo che “rompe il ferro e consuma gli avori”; “il tempo che sfiora e rode e lustra e macchia e morde”; il tempo che scava la pietra, scolorisce la guancia dell’Uomo, “brucia la foglia verde” e “incide sulle fronti i solchi dell’idea”.
Il poeta affronta il tempo che passa inesorabile, come un uomo che lotta contro un demone: il poeta vuole vincere il tempo, ma “c’è un posto dove spingere la lotta?”. È l’anima che si oppone al tempo “…come il ponte all’impeto del fiume” …solo l’anima è ancora sulla riva.
Affinché il “vino d’oro trabocchi dal bicchiere di cristallo”, Antonio Machado cerca di spingersi nelle “segrete gallerie dell’anima”, nel “cammino d’ogni sogno”, nel “giardino dell’eterna primavera” come quando odorava ancora il profumo intenso della menta e del buon basilico che sua madre aveva nei vasi. Ma la vita non è quasi mai come l’abbiamo sognata. La vita sorprende, a volte, annienta.
«Siamo vittime di un duplice miraggio» scriveva Antonio Machado «se guardiamo fuori e cerchiamo di penetrare le cose, il nostro mondo esterno perde in solidità, e finisce per dissiparsi quando arriviamo a credere che non esiste per se stesso ma per noi. Ma se guardiamo dentro di noi, allora tutto sembra venir fuori e chi svanisce è il nostro mondo interiore con noi stessi».
Ecco allora la domanda che sorge spontanea: «Che fare allora?» e la conseguente risposta del poeta «tessere il filo che ci danno, sognare il nostro sogno, vivere; solo così potremo operare il miracolo della creazione. Un uomo attento a se stesso e che bada ad ascoltare soffoca l’unica voce che potrebbe ascoltare: la sua».
L’uomo attento a se stesso: «Ed io pensai che missione del poeta era inventare nuove poesie dell’eterna umanità, storie animate che, pur essendo sue, vivessero ugualmente per se stesse». Il cammino è stato faticoso e sofferto: «Ho percorso molte strade,/e aperto molti sentieri;/cento mari ho traversato/e attraccato in cento rive».
L’essere umano è così fragile ed è la parola che lo conduce davanti alla tribuna del mondo, come a mettersi in ascolto del suo presunto male: «Se io fossi un poeta/galante canterei/ai vostri occhi un canto così puro/come su bianco marmo l’acqua chiara»: ecco allora i respiri più puri della vita, l’illusione candida e antica, un’ombra sul muro bianco che diventa ricordo, “sogni d’argento” alla finestra, il suono di vecchie campane, antiche muraglie, piazze deserte e labirinti di stradine, bianchi gelsomini ed “edera che si estende sui muri”, acqua di fonte e una notte di stelle e di luna.
Con Campos de Castilla si avverte l’abbandono del labirinto interiore, del sogno dentro sé che non ha bisogno del mondo circostante e si attua un’apertura verso la realtà da osservare, gustare, assaporare… vivere. Machado incontra liricamente l’essenzialità castigliana e inserisce nelle sue poesie le continue descrizioni dei paesaggi della Castiglia, di quella terra e delle persone che vivono su quella terra.
Con un bicchiere di manzanilla, vino liquoroso dell’Andalusia, si può sognare il cammino che conduce al sogno, «così vado io, ubriaco, malinconico/lunatico, poeta/e pover uomo in sogno/sempre cercando Dio dentro la nebbia».
E l’uomo dallo sguardo profondo, che parlava con un cenno di timidezza e orgoglio, che appariva sempre misterioso e silenzioso, come lo ricorda l’amico poeta Ruben Darìo, si confonde con il poeta la cui voce arrivò al cuore e, ormai, non trova più nulla vicino a sé capace di risollevarlo, di condurlo alla via della salvazione, perché il suo mondo è perduto per sempre alle fonti del Duero o nel rifugio del suo dolore.
Come non ricordare le sue parole, già precedentemente riportate in queste pagine: non si devono abbandonare i sogni, ma “sognare da svegli”: «la bellezza non sta nel mistero, ma nel desiderio di penetrarlo».
E poi la consapevolezza che il tempo della vita è legato ad un sottile destino che noi non conosciamo: «Sappi sperare, aspetta che cresca la marea,/-come a riva una nave – e partir sia facile./Chiunque sa aspettare sa che la vittoria è sua:/perché la vita è lunga e un giocattolo è l’arte./E se la vita è breve/ed il mare non giunge al tuo battello,/aspetta e non partire e spera sempre, perché l’arte è lunga e, inoltre, non importa».
Era una notte del mese di maggio, una notte azzurra e serena. Si udiva solo il suono di una fonte. Tra il profumo del mirto, una dolce melodia nel giardino e una voce dolente. Poi, restò solo la malinconia, vagante per il giardino. S’udiva solo la fonte. Sono parole di Antonio Machado dedicate al poeta Juan Ramon Jimenez. Il destino dei poeti.
Massimo Barile
Antonio Machado nasce il 26 luglio 1875 a Siviglia. A otto anni si trasferisce insieme alla sua famiglia a Madrid dove studia nella Institución Libre de Enseñanza, una scuola laica e moderna fondata da Francisco Giner de los Ríos. Nel 1893 la morte del padre – studioso di folklore – lascia la famiglia in precarie condizioni economiche ma ciò non impedisce al giovane Antonio di trascorrere la sua giovinezza in ambienti teatrali e letterari, nei caffè frequentati da Miguel de Unamuno, Ramón María del Valle-Inclán, Azorín, Francisco Villaespesa, Juan Ramón Jiménez e Ramón Pérez de Ayala. Compie due viaggi a Parigi nel 1899 e nel 1902. Durante il primo soggiorno parigino conosce Oscar Wilde e Jean Moréas; durante il secondo il poeta nicaraguense Rubén Darío. Nel 1903 esordisce con il libro di poesie Soledades. Nel 1907 ottiene l’assegnazione di un posto di professore di francese nelle scuole secondarie di Soria. Qui, due anni dopo, ormai trentaquattrenne, sposa la quindicenne Leonor Izquierdo.
L’anno successivo segue un corso di Henri Bergson a Parigi, dove va accompagnato dalla giovane moglie che però, appena due anni dopo, nel 1912 – anno che segna l’uscita della sua raccolta più famosa Campos de Castilla –, muore di tisi dopo lunga e penosa malattia. Pesantemente prostrato dalla scomparsa della moglie, Machado torna in Andalusia, a Baeza, dove conduce vita solitaria sino al 1919, anno in cui si trasferisce a Segovia con frequenti soggiorni nella vicina Madrid. Negli anni Venti Machado fu tra gli intellettuali che con più forza si opposero alla dittatura di Primo De Rivera. Nel 1924 pubblica un’altra raccolta di versi: Nuevas canciones.
Come scrittore collabora con il fratello maggiore Manuel nella stesura di testi teatrali: Juan de Mañara (1927), sul mito di Don Giovanni, e La Lola va ai porti (La Lola se va a los puertos, 1929), loro maggior successo. Nel 1927 entra far parte della Real Academia Española de la Lengua e l’anno successivo conosce la poetessa Pilar Valderrama, suo grande amore dopo l’indimenticata moglie Leonor.
Nel 1932 si trasferisce a Madrid insieme alla famiglia del fratello José (pittore e disegnatore) e all’anziana madre che restano con lui fino alla morte. Nel frattempo prosegue la pubblicazione dei suoi versi e nel 1933 esce la terza edizione delle Poesías completas cui viene aggiunta una ulteriore sezione: De un cancionero apócrifo. Del 1936 è invece la pubblicazione del Juan de Mairena. Nel frattempo Pilar Valderrama parte per il Portogallo ed inizia la guerra civile. Machado si schiera con i nazionalisti, prendendo posizione a favore del governo repubblicano. Nel frattempo dà alle stampe un secondo Juan de Mairena (che venne pubblicato postumo) e le prose e i versi de La guerra. Nel 1936 Machado e la sua famiglia si trasferirono dapprima a Valencia e poi, nel 1938 a Barcellona, ultimo baluardo di coloro che si oppongono ai golpisti. A fine gennaio 1939, Machado, la madre, il fratello e la cognata lasciano la città catalana diretti verso la frontiera francese. Nell’esodo, percorso per un lungo tragitto a piedi, lo scrittore è costretto ad abbandonare una valigia contenente tutti i suoi versi, appunti e lettere. Machado e i suoi familiari prendono alloggio in un piccolo albergo appena dopo la frontiera a Collioure. Il poeta ormai stanco, ammalato e amareggiato, trascorre lunghe ore guardando il mare grigio e dedicando i suoi ultimi versi all’assolata Siviglia della sua infanzia.
Il 22 febbraio 1939 il poeta muore lasciando in una tasca del suo cappotto il suo ultimo verso: Quei giorni azzurri e quel sole delliinfanzia. La bara, coperta dalla bandiera repubblicana, viene tumulata nel cimitero della piccola cittadina francese. Tre giorni dopo muore anche la madre che viene sepolta accanto al figlio.