Opere di

Antonio Marinucci


Con questo racconto è risultato 8° classificato – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010


Rocco

Il caldo a Milano è un nemico duro. Ti piomba addosso all’improvviso. Non ti concede tempo per elaborare difese. Ti serra la gola, rapace. Ti ruba l’aria, boccheggi. Ti si appiccica alla pelle, sanguisuga. Eppure, preferisco abbandonare l’aria condizionata dell’ufficio e farmi quattro passi tra gli scarichi dei tubi di scappamento, immerso in questa piscina di sudore maleodorante, assieme a questa moltitudine di sventurati come me, tutti con gli occhi affessurati da questo sole africano: il popolo dei mensaioli degli uffici di Milano centro. Come da regolamento, dalle 12 alle 13 pausa­pranzo. Non mangio quasi mai, però. Piuttosto che spintonarmi con altri disperati alla ricerca di un posto a sedere in questi barucoli minuscoli che, per il triplo del loro costo, ti riempiono di pennette surgelate e sofficini ai conservanti, preferisco andarmene in giro. Così, da solo: che diceva mia nonna: meglio solo che male accompagnato. Do un’occhiata alle vetrine, considerando per la milionesima volta quanto caro e inaccessibile sia praticamente tutto. Guardo l’umanità attorno a me, mi interessano i volti delle persone. Rubo frammenti di conversazioni, cerco di entrare a far parte delle vite degli sconosciuti, anche solo per qualche istante. Su un palo della luce hanno attaccato alla meno peggio un manifestino bianco. C’è su la foto sbiadita di un tizio col nasone e occhiali spessi, calvizie avanzata, uno sguardo a metà tra il divertito e il disperato. Il messaggio dice: «Non rivediamo Rocco dal 25 giugno scorso. Ha quarant’anni, alto un metro e settanta. Qui in una foto recente. È soggetto a perdite di memoria, perciò potrebbe non ricordare dove sia casa sua, o il suo stesso nome. Se lo avvistate, per favore contattate immediatamente la famiglia al numero qui sotto e trattenetelo fino al nostro arrivo. Sarete ricompensati lautamente. Rocco, se dovessi leggere questo messaggio, per favore torna a casa. La tua famiglia, i tuoi amici e i tuoi colleghi di lavoro ti aspettano a braccia aperte. Non successo nulla, tutto si aggiusta in qualche modo».

***

Strano messaggio. Prima Rocco è smemorato, poi gli dicono di tornare, che tanto non è successo niente e tutto si aggiusta in qualche modo.«Ma in quale modo?” direi, fossi Rocco. Eh no, perché qui bisogna essere precisi. È facile dire: «In qualche modo, poi si parla, poi ci si mette d’accordo». Fossi Rocco, io vorrei sapere per filo e per segno come hanno intenzione di risolvere il problema prima di tornare, no? Pensando a Rocco, rientro in ufficio. L’aria condizionata a palla mi aggredisce senza preavviso. Praticamente come passare dal deserto a un igloo. Penso che ‘sta cosa non mi faccia proprio bene. Ma le sventure non vengono mai da sole, anche questo diceva mia nonna. Così alla macchinetta del caffè mi aggancia Stefano, il direttore generale, sorriso a quaranta denti: «Antonio, ma lei non ci concede mai il piacere della sua compagnia!». Stefano il tipico dirigente cinquant’anni-ma-ancora-rampante, riportone biondo a coprire malamente una calvizie frontale che però non dà scampo, perennemente abbronzato. Non è dato di sapere come faccia a mantenere la sua abbronzatura perfetta tutto l’anno. Qualcuno addirittura pensa che sia, in realtà, mulatto. A memoria d’uomo, nessuno l’hai mai visto senza il suo doppiopetto blu camicia bianca­cravatta blu a pallini bianchi. Insiste: «Così, non le piace pranzare assieme a noi, non vuole fraternizzare? Guardi che questa compagnia è una grande famiglia, lei dovrebbe aprirsi un po’ di più, fidarsi un po’ di più, farsi degli amici qui dentro».
Proprio da ‘sta storia della grande famiglia nasce l’idea di chiamarsi tutti per nome, dal direttore generale, appunto, all’ultimo fattorino. Però, proprio lui, poi, dà del lei a tutti. Mah! Secondo “75 modi per fare carriera”, che ho religiosamente letto e assimilato, dovrei controbattere deciso, magari inventarmi che ho approfittato della pausa pranzo per visitare quel cliente che altrimenti non è mai disponibile, giurare di andare insieme a pranzo per il resto dei nostri giorni.
Perché è un rischio grosso essere bollato come uno che non lega, che non vuole fare team, uno fuori dalla famiglia. Nelle multinazionali di oggi è come essere appestato. Invece, niente: balbetto, mi imbarazzo, metto giù un’emicrania che non convince già nell’istante in cui mi esce dalle labbra, un sorrisetto di circostanza, due colpetti di tosse. Mi sento molto Fracchia. Fortuna che interviene Vanessa, la segretaria minigonnizzata, una tipa ho-quarant’anni­ ma­-ne-dimostro-venti-infatti-vesto come-mia-figlia che con quattro mossette e due urletti se lo porta via: il sorcio appresso al pifferaio magico. E noi dovremmo star tranquilli affidando la strategia della nostra compagnia, e perciò il nostro futuro, a un tipo così? Mah! Ritiro il caffè e ritorno al mio cubicolo. Si dice che gli americani siano dei geni nella disposizione degli uffici. E si sono inventati ‘st’open space qui, che praticamente abolisce le pareti in muratura e le porte. L’ufficio di ognuno così non è nemmeno più un ufficio: un cubicle, un cubicolo detto all’italiana. Termine orribile, tra l’altro. Due sole pareti, legno rivestito, basse diciamo un metro e cinquanta: praticamente un angolo con una scrivania e una mensola, in uno spazio condiviso con altri tre angoli simili. Così: privacy zero, chiacchiericcio continuo, tutto aperto a tutti. E ‘fanculo a chi invece avrebbe bisogno di tranquillità e concentrazione per lavorare. Si dice che favorisca il teamwork: abolendo la barriera-porta si faciliterebbero le comunicazioni. Mah! Penso alle galline dell’Agriturismo della Piana. Una volta sono andato a ‘sto sedicente agriturismo: tanta pubblicità di sol prodotti­ cento per cento naturali e così via. Molto bello, solo che hanno fatto l’errore di far visitare l’azienda agricola e gli allevamenti. E così ho visto come tengono le galline: gabbie strettissime, una per ciascuna di loro, giusta giusta e con due sole aperture: una in corrispondenza della testa, e le galline ci allungano il collo per mangiare. L’altra in corrispondenza del culo, e loro ci depositano le uova. Una vita passata solo a ingrassare e a cagare uova, fino a quando schiatti per essere infornata, magari. Va da sé che non ho voluto più mangiare in quel posto: già sentivo in bocca lo stress e il malanimo di quelle povere bestie. Ecco, quando penso a noialtri nei cubicoli non posso fare a meno di rivedere le galline dell’Agriturismo della Piana.

***

Sono parecchio fortunato stasera: trovo posto per l’auto a soli tre chilometri da casa. Trotterellando stancamente mi inoltro nel dedalo di vie e vicoletti che circondano la stazione, osservando l’umanità varia che anima questa zona della città. C’è una moltitudine di tratti somatici. E di mestieri. E anche di problemi, a ben guardare. Mi deprimo sempre un po’, sento lo sforzo generalizzato per sopravvivere, difendersi, non farsi sopraffare da questa vita che si è costretti a vivere. Riconosco il suonatore di violino del metrò del mattino, che ormai rincasa: un’altro giorno andato, meglio o peggio di ieri, o di domani, chissà. Riconosco il tizio che ai tavolini del bar distribuisce, a quelli seduti per la colazione o un aperitivo, i bigliettini con scritto in un italiano incerto: «Dissoccupatto tre babini una moneta per cibo prego prego», e poi ripassa a ritirarli senza una parola, sperando di ritirare anche quella moneta, appunto. Riconosco il signore distinto in caccia di avventure proibite da consumare, è soffocato e degradato, nel fetore della toilette, lì in corrispondenza dei binari in fondo. E tra i mille volti e i mille tratti somatici che mi si affollano nella mente riconosco anche Rocco. Una sagoma indistinta mi passa davanti veloce e ricurva su se stessa, sguardo a terra, su solo un attimo per darsi orientamento. Ma proprio in quell’attimo incrocia il mio sguardo. Ed è fatale, perché io non ricordo i nomi, dimentico le date, non tengo a mente gli appuntamenti ma una cosa sola non dimentico e so riconoscere anche da pochi tratti, anche da uno sguardo fugace, anche da una foto sbiadita su un manifesto attaccato malamente al palo della luce: i volti. E quello è Rocco. Istintivamente urlo: «Ehi, Rocco!», ma quello è già lontano, sempre curvo, dileguato tra la folla che si appropinqua all’ingresso della stazione.
Gli corro dietro. Supero di slancio un gruppo di giapponesi, saranno un centinaio, foto/video­camere digitali incluse. Guardo intorno circolarmente, mi sembra di scorgere quella sagoma lì sulla destra, giusto oltre quegli africani, si sta allontanando veloce, corro a perdifiato, urlo di nuovo: «Rocco, fermati, Rocco!» ma quello niente, sempre curvo accelera e si infila in un vicoletto. Non so perché mi ci sto accanendo così tanto, fatto sta che velocissimo infilo anch’io il vicoletto urlando: «Rocc…?». Non faccio in tempo a svoltare che un masso mi si spara sul petto e mi fa sbattere le spalle al muro: «..’zzo sei? ..‘zzo vuoi da me?» mi urla a due centimetri dal naso, gli occhi quasi del tutto fuori dalle orbite, le mani serrate al colletto della camicia, il peso del corpo tutto sul mio. Ma come faccio a ficcarmi sempre in queste situazioni?

***

Insomma, un incontro ravvicinato di un certo tipo. Non so se sia più l’urto con la schiena al muro del vicoletto o il fetore del suo alito, fatto sta che mi manca il fiato. Come se una mano invisibile mi tappasse la bocca e serrasse contemporaneamente le narici. Rocco mi lascia. Sputacchio e tossisco piegato in due in questo vicolo fetido, e maledico il momento in cui ho visto quel fottuto volantino.

***

Prendo due cappuccini e qualche brioche, ci sediamo a quel muretto della piazzetta. Lui ringrazia, si vede che non è violento, è dispiaciuto. È disperato. Poi la fame (evidente che non mangia da qualche tempo) gli fa vincere l’imbarazzo e attacca violentemente la prima brioche, dà una grossa sorsata al cappuccino ed è un miracolo che non si ustioni la cavità orale. Quando finisce la terza brioche e anche il mio, di cappuccino, rallenta un po’ e capisco che possiamo parlare, finalmente. Assumo un’aria benevola e comprensiva. Col tono che si usa coi bambini, gli dico: «senti, tu non ricordi e devi essere abbastanza confuso. È assolutamente normale, non preoccuparti. Ti chiami Rocco, hai perso la memoria, la tua famiglia ti sta cercando, io ti aiuterò a ritornare a casa dai tuoi cari, è tutto a posto». Lui mi guarda stupito, il nasone gli fa risaltare se possibile ancora di più gli occhi a palla dietro gli occhiali, la curva della bocca è in giù, dandogli un’espressione di perenne tristezza. Se ha davvero quarant’anni, se li porta veramente male. Si passa il palmo della mano sulla fronte. «Li ho visti i volantini. Non dar retta. Non sono smemorato. Non sono matto. Esasperato, quello si. E perciò voglio sparire. Morire qui e rinascere altrove. Sto partendo. Per dove, non so. Dove mi porterà il primo treno. Clandestino, ovviamente, perché non sto portando niente con me, neanche soldi». Mi sento fuori luogo. Rocco non mi deve spiegazioni, non vorrei si sentisse in obbligo di darne. Perciò faccio per alzarmi, ma lui mi stringe una mano sul braccio e capisco che ha bisogno che ascolti. «Ho sbagliato tutto nella vita. Colpa mia o degli altri, non so, non mi interessa. Sgobbo come un mulo per tirare avanti due famiglie, la mia e quella di mia sorella. Lei ha sposato un poco di buono, che passa la vita sdraiato sul divano e la costringe ad andare a servizio. Ovvio che quanto guadagna non basti e lei mi chiede soldi per tirare avanti. In pratica metto io lo stipendio che il marito non vuole guadagnarsi. Al lavoro sono squali. Sempre pronti a saltarmi addosso, a tenermi indietro, a sobbarcarmi anche del loro, di lavoro, a darmi responsabilità. Ho già fatto un esaurimento nervoso, sono stato un mese in una clinica a riprendermi, al ritorno è stato anche peggio di prima. Gli amici, quelli veri di cui potersi fidare, anche solo per sfogarmi, non ci sono mai. Sono solo degli approfittatori, tutti, mi vengono a cercare quando hanno bisogno di qualcosa, soldi oppure una mano, non ci sono mai quando dovrebbero ricambiare. Mia moglie non mi ama, mi disprezza, mi deride. È una iena, ma non ha mai cercato di nasconderlo. Infatti so bene come stanno le cose sin dal primo giorno che lei, bellissima ma disperata, con mia grande sorpresa mi disse di si. In me lei ha trovato tranquillità e stabilità economica, io in lei una compagnia, seppur acida, quando torno a casa. Così sopporto, mi accontento. Fino a qualche giorno fa: non mi sentivo bene e sono rincasato prima del solito. L’ho trovata accovacciata a quattro zampe nel soggiorno con uno di dietro». Penso che questo sia ciò a cui il volantino si riferisce quando dice “non è successo niente”. Mi chiedo cos’altro sarebbe dovuto succedere. Mah! Lui continua: «Non sono forte. Non riesco a impormi. Non riesco dire a mia sorella: basta! È ora che il tuo caro maritino alzi il culo e la smetta di farsi mantenere. Non riesco a difendermi dai colleghi, non sono bravo ad andare a lamentarmi coi dirigenti, fare la spia. Non sono capace di mandare mia moglie dove merita. Sai cosa ho fatto quando li ho trovati lì, sul pavimento del soggiorno? Nulla. Sono uscito di nuovo di casa, facendo anche attenzione a non sbattere l’uscio. E allora, via. L’unica cosa che possa fare è lasciare: famiglia, amici, lavoro, ma anche casa, soldi. Così non possono lamentarsi di nulla, gli lascio tutto. Muoio e rinasco da qualche altra parte. Ricomincio da zero, ma sapendo cosa aspettarmi».
Lo guardo, non so che dire. «Stasera sei spuntato tu, e mi hai riconosciuto. Ora, sta a te: chiamare i miei, beccarti la ricompensa e ammazzarmi definitivamente, oppure regalarmi un’altra opportunità di vita. Tocca a te».

***

Glaciale, afferro il cellulare e digito il numero. Una voce squillante mi fa un «sììììì?» dall’altro capo, strascicando troppo le molte ì. Ho sempre odiato quelle che rispondono sì? al telefono. Che ha il buon, vecchio “pronto?” che non va? Rocco mi guarda. Deluso più che sgomento. Io faccio: «Signora, è lei che ha affisso dei volantini per cercare un certo Rocco?». «Sì, certo, sono la moglie. L’ha visto? L’ha bloccato? Mi dica subito dove si trova!», mi urla lei, troppo trafelata, talmente ansiosa e assertiva da procurarmi un senso di fastidio profondo, così, anche solo in remoto. Mi prudono le braccia. Guardo Rocco. Ha gli occhi a palla di fuori. “Forse un po’ matto lo è”, penso. “Anch’io, però”, penso. Gli faccio l’occhiolino, poi prendo fiato e mi produco in un pernacchione esagerato, profondo, lunghissimo. Poi chiudo la comunicazione, sulle bestemmie urlate e vane dell’adorata mogliettina. A questo punto Rocco esplode in una risata liberatoria e contagiosa. Ridiamo insieme, liberi, come bambini, fino alle lacrime, con i passanti che ci guardano perplessi. Poi ci alziamo e ci avviamo alla stazione.
“La fuga invece è l’unica scelta dignitosa quando non puoi cambiare più nulla, e non vuoi neppure lasciarti coinvolgere, diventare complice”. (Pino Cacucci)

Antonio Marinucci



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