Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010
Questa la motivazione della Giuria:Il racconto di Antonio Viciani segue il sottile filo che accomuna il travaglio interiore e la visione onirica come a districarsi tra recupero memoriale e sofferta condizione nel presente. Le sue parole lasciano presagire l’irreparabile e, al contempo, catturano tra due mondi, al culmine del respiro, nel parossismo della vita.
«All’ombra del vecchio gelso»
Amavo ascoltare i suoni delle more del grande gelso cresciuto accanto alla casa. Mentre camminavo scricchiolavano sotto i miei piedi e potevo vederle oltre il velluto dei miei pantaloncini ridursi morbidamente a una poltiglia colorata. La nonna avrebbe ritrovato presto sul pavimento di cucina i segni inconfondibili del mio passaggio ma in qualche angolo della mia infanzia anche il venire rimproverato da lei rappresentava un sottile piacere. Una piccola prova d’amore.
Se stavi in silenzio sotto il gelso, chiudevi gli occhi e scioglievi i rumori del trattore nel campo e degli uccelli sui fili della luce in un neutro sottofondo, potevi sentire le more cadere. Quel caratteristico suono prendeva vita così, dal nulla, senza alcun apparente motivo.
Era il lievissimo stormire di due o tre foglie che, subito sotto il punto da cui si era staccato il frutto, vibravano lievemente ma percettibilmente al suo passaggio. Dopo qualche frazione di secondo che sembrava un secolo ecco il “tump frrrrr!” risuonare nell’aria di primavera. Perché quando la mora raggiungeva terra, se era abbastanza matura e succosa, si depositava con forza sui piccoli ciottoli chiari spostandone qualcuno e producendo un caratteristico rumore. Se invece, cosa non così infrequente, cadeva su un’altra mora già finita a terra il rumore era più lieve, impalpabile e ti lasciava lì, ad aspettare, come un viaggiatore che ha perso l’ultimo treno.
La cosa che ricordo meglio, è strano, era l’odore, quel forte e pungente odore, che portava la fresca aria della campagna dopo ogni pioggia e non si trattava di un odore comune. Anzi, mai sentito altrove. Voglio dire che mai, davvero mai, mi è capitato di sentirlo come lo sentivo in quel caro fazzoletto di toscana. Non so se davvero non lo si possa udire altrove oppure se semplicemente i nostri ricettori olfattivi, invecchiando, non siano più in grado di percepire allo stesso modo gli odori. Altre volte, in altre vite, dopo una pioggia, una sola nota olfattiva ha riportato la mia mente sotto il gelso e l’ha sfidata senza successo a ritrovare le altre note di una sinfonia ormai scomparsa per sempre ma vivida come un arcobaleno dentro di me. Era molto riconoscibile, era l’odore di casa mia. Ma sull’ascia sporca che avevo in mano non sentivo l’odore del mio sangue.
Quegli anni sono così lontani per me che questa sferragliante metropolitana in cui mi siedo stanco potrebbe essere quella vecchia panchina di pietra ed i cartoncini pubblicitari che oscillano dai sostegni di metallo le foglie del mio caro gelso. Mancano solo le more, che non colorano più le mie scarpe.
Le stazioni scorrono sotto i miei occhi una dopo l’altra. Le osservo distante, inesorabili e giudicanti come i grani di un rosario senza crociera, mai dedicato ad alcun santo, mai sfregato da mani supplici.
Anche oggi scendo sulla quinta e percorrendola verso nord mi volto ad ogni incrocio cercando con lo sguardo sulla sinistra, qualche isolato più in là, i primi alberi di Central Park. Lui è sempre dietro di me, lo so. Non è che mi faccia troppe illusioni, so che c’è. Non serve che mi volti.
Il venditore millanta come sempre la migliore qualità di hot dog di tutta New York e questa volta voglio far fìnta di crederci. Uno amico, grazie. Mi da il resto, lo controllo. Perchè controllo sempre i resti con minuzia, è un vecchio vizio ormai. Mi fermo ad osservare i quarti di dollaro cercando qualcosa in un lato della moneta che talvolta trovo e in quel caso la lascio scivolare nel secondo portamonete, quello per la mia collezione.
Credo che ormai siano più di dieci anni che conservo i “quartini”, come li chiamo io, alla toscana, forse perché mi ricordano le piccole bottiglie di vetro caratteristiche delle osterie di paese. Il “quartino” ospitava appunto il quarto di litro di vino della casa, spesso recuperato da bottiglie lasciate a metà dai clienti e quindi mescolato, operazione che gli conferiva la caratteristiche di essere sempre diverso ma in fondo sempre uguale ovunque vi capitasse di berlo. Aveva quindi un sapore variegato dalle tonalità spesso acidule ma affascinante proprio per la sua dubbia origine. E’ ormai raro trovarne anche in Toscana, soppiantato un po’ ovunque da più eleganti e remunerative etichette, di cui non sanno evitare di fregiarsi nemmeno le più dozzinali produzioni.
Il resto ricevuto dal venditore di hot dog sarebbe finito in cucina, sulla parete davanti alla finestra, all’angolo sopra il frigorifero, perché la fila sottostante l’ho completata proprio ieri. In principio volevo mettere là il Montana ma poi trovai che il Wyoming fosse più adatto e il Montana finì nel corridoio di ingresso, insieme al Delaware, Utah e altri tre stati.
Mi appassionai alla collezione dei quarti appena arrivato in America e in vent’anni credo di averne collezionati svariate migliaia. Ero ancora all’aeroporto, quando ricevetti i miei primi quarti di resto e li voltai. Vi era una figura sul verso della moneta che rappresentava uno stato dell’unione: decisi di tenerli. Iniziai a cercare l’effige nascosta dietro ogni quarto e in breve divenne una abitudine automatica riporli nel secondo portamonete, quello della collezione. Quando non seppi più dove metterli iniziai ad attaccarli alle pareti. Oggi vivo in una casa luccicante d’argento, che mi fa dimenticare la quasi completa assenza di finestre, e mi permette di viaggiare da uno stato all’altro in un momento.
Scusi ha da accendere? Alta, mora, sui trenta a occhio e croce, nel complesso una bella ragazza.
No, dico, mi dispiace, non fumo. Si allontana come una nuvola, portandosi dietro un paio di cagnolini pechinesi. Non ho mai sopportato i pechinesi. Non è che odi i cani, affatto, ma non sopporto i pechinesi, forse per quella loro inconsistenza, quell’abbaiare petulante e querulo. O forse c’è qualche altro motivo, non so, ma ho una forte avversione. Comunque la ragazza se ne è andata, camminando spedita verso Central Park. La seguo. Ogni tanto chiudo gli occhi e provo a capire la direzione sentendo il suo odore. Non il profumo, l’odore. Ho sempre avuto uno speciale sentire per gli odori, gli aromi.
Lui invece sa di tabacco, abita probabilmente a Ellis Island, la suola delle sue scarpe tocca spesso moli bagnati e vive solo. Mentre prendevo l’hot dog ho sentito chiaramente l’odore di un resto di sugo sulla sua cravatta. Italiano. Mi volto un momento, quasi casualmente perché lui non sa che ne ho coscienza e di sfuggita trovo la ragione della mia convinzione, ma erravo. Era sulla manica la macchia di sugo, non sulla cravatta. Il taglio dell’abito è dozzinale, come le scarpe del resto. Forse davvero l’origine italiana.
Ecco, adesso il profumo degli alberi mi assale, è come un viaggio, ne sono inebriato.
Ma la ragazza prosegue spedita verso il diamante al centro del parco, i cagnolini affrettano il passo per starle accanto, un ciclista la sfiora. Si volta e il suo sguardo balena un momento verso di me, quindi rallenta il passo.
Socchiudo gli occhi un istante e una esplosione mi sfiora la mente, sono nel vecchio cimitero, le ginocchia sbucciate per la salita del muro diroccato. Il cancello ormai invaso dalla vegetazione non cigola più sui cardini arrugginiti.
Dall’alto del muro il campo di grano ondeggia al vento come un mare in tempesta. Lontano nel cielo le rondini giocano fra le nuvole. La mia mano si posa sulle lettere della pietra più vicina, lettere di metallo, nere. Scivolo piano sulle pietre calde, avvicino
l’orecchio alla lapide e ascolto il canto della terra. I vermi, gli insetti, tutte le creature che ci sono compagne nell’eternità, mi adagio e sogno. Non sono mai sogni agitati, sono sempre sogni dolci, questo posto mi da pace, è come una casa, da sempre e per sempre. Allora vedo mia madre che mi bacia in culla, vedo i miei nonni che mi aspettano sulla soglia e vedo me, confuso, perché ho fatto ancora la pipì addosso.
Attento! La voce di un ragazzo mi riporta a Central Park, una palla da baseball mi ha sfiorato la testa, sono entrato nel diamante senza accorgermene. Forse ho camminato con gli occhi chiusi. Si, deve essere stato così. La ragazza non si vede più ma la mia ombra italiana è sempre lì, con la sua macchia sulla manica, aspetta. Lui non ha fretta.
Mi allontano dal campo sportivo e siedo su una panchina. Greg Adman, mio amato per sempre, Karen. Leggo sempre le targhe sulla panchina in cui siedo, le sento mie. Quando il sindaco Giuliani fece aggiungere questa fila di panchine, erano naturalmente prive di targa. Poi, una dopo l’altra, le ho seguite riempirsi di morti e come un mio cimitero personale osservavo, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, Central Park popolarsi di panchine alla memoria. Giocavo ad immaginare se la prossima sarebbe stata un uomo o una donna, un Greg o una Karen, un Jack o una Hellen, uguali e diversi ma stampati per sempre su di una panchina.
Chiudo gli occhi, fiuto l’aria. Un momento… eccola. È incamminata verso il Turtle Pond, sotto il castello. Mi alzo lentamente e riprendo il cammino con la mia ombra mai troppo distante.
Quando mi appoggio alla ringhiera e guardo in basso, migliaia di testoline si alzano e si abbassano sulla superficie del lago. Lei è accanto a me. Sento il suo odore, si volta mi guarda e sorride. Io non sorrido. Accarezzo la lama nella mia mano, ne conosco la lucentezza alla luce della mia cucina, ne conosco la freddezza al tatto, è lei, la mia familiare compagna.
So di essere un bell’uomo, non più un ragazzo. Al primo, vago, accenno di calvizie scelsi di tagliarmi i capelli e da tanti anni ormai li rado appena spuntano. Trovai allora un cappello a tesa larga, un po’ fuori moda, di un colore incerto che però non cambiai più. Oggi sotto quella vecchia tesa trova posto un naso affilato e guance scavate che mettono in risalto i miei occhi scuri, quasi neri, affamati sempre di qualche parola che avrebbero voluto leggere in altri occhi.
I suoi adesso sorridono ma se le parole che ne cadono sono quelle giuste i miei, miopi e daltonici, non sanno leggerle. Uno dei pechinesi mi scambia per un albero. Lei si scusa, la sua voce è argentina, anche troppo, fa eco all’aspetto dei suoi pechinesi e il freddo che ho in tasca torna a tormentarmi. Sembra dire non vorrai tradirmi con lei, vero? E no che non voglio, lo sai.
Tenga questa salvietta, lei si china, mi pulisce con l’acqua e il disinfettante, mi guarda dal basso in alto, troppo vicino al cavallo dei miei pantaloni, della mia fredda compagna. Si accorge del rigonfio nei miei pantaloni, arrossisce, ride. La guardo, serio. Non rido, non sorrido, niente, sento freddo come se la mia schiena poggiasse sulla sabbia fredda di una spiaggia di notte.
Mi prende per mano, vuole scusarsi, insisto che non importa ma non c’è niente da fare. Passiamo davanti alla Fontana Bethesda e siamo avvolti nelle incredibili bolle di sapone giganti di due gitani che intrattengono i passanti. Molti turisti si soffermano a fare le foto, vedo una coppia, sono italiani, senz’altro, si vede da come vestono e sono innamorati, si sente. Lei è bellissima, i capelli corti lo sguardo acceso prova a fare una bolla. Lui tenta di fotografarla, cerca invano di cogliere un attimo che sarà sempre solo nella loro intimità e che nessun obbiettivo potrà mai fermare.
La donna mi trascina fino all’elegante bar dove si noleggiano le barche per le gite nel parco, ordino un drink, si siede, accosta le sue ginocchia alle mie.
Sediamo fuori perché abbiamo con noi i pechinesi e dobbiamo rinunciare al fresco dell’aria condizionata all’interno. Parla ma non so cosa dice, rispondo ma non so cosa dico. E restiamo così, come due bolle di sapone sospesi fra una frase e l’altra. Lei tocca piano la sua borsetta, io tocco piano la mia compagna. Mi chiama.
La mia ombra è al bancone del bar, finge di bere, male peraltro. Guardo l’acqua, un bambino con un bastone fa dei cerchi concentrici. Il vortice è rapido e trascina pezzi di foglie e rametti. La sua mano è la mia mano e il laghetto è il mio stagno presso al cimitero e alzando lo sguardo vedo i ciliegi nodosi della mia infanzia. Poi vedo quella bambina, le sue grida i suoi richiami. Getto il ramo in acqua e la seguo. Non l’ho mai vista prima, la seguo. Corriamo giù per il prato, nel bosco, la mia piccola amica nella mia tasca, souvenir di una gita a Scarperia, mi chiama. E’ l’ultima volta che vedo la bambina.
Il ramo gettato nell’acqua è travolto dall’onda dell’attracco di una barca, sollevo lo sguardo, lei sta ancora parlando. Mi alzo, vado al bagno, la mia fronte sudata tradisce ogni mia emozione, non lo sopporto. Quando torno lei è lì, le parlo, a chi ci guarda da fuori può sembrare che le faccia la corte.
Adesso la mia ombra è impegnata in una annoiata conversazione, un cellulare di ultima generazione, chiaramente non di sua proprietà, gli brilla in mano. Sento quel che dice anche se parla piano. Si, il tipo è a posto, lo seguo da settimane, la segnalazione era sbagliata, per me va mollato… allora è ok! Mi date un altro incarico… finalmente, non ne potevo più.
Allora? Vuole venire a vedere la vista del parco da casa mia? Abito proprio qui di fronte e potrebbe darsi una lavata come si deve…
Ma si, perché no?
È il momento. Da quanti anni? Trentacinque ? Quaranta? Sempre lei mi chiama dalla tasca e non basta aver lasciato la Toscana, l’Italia, l’Europa… lei mi chiama e mi chiamerà sempre e allora, forse, devo proprio risponderle. Lei vuole brillare, brillare argentea nelle mie mani, come mille monetine sulle pareti che stanno là a riflettere la sua luce impotente ogni sera, ogni mattina in cui la libero finalmente dal suo involucro di osso. Vedrei il sangue scorrere sulla lama, vedrei baluginare finalmente quel rosso che la mia acromatopsia non mi ha mai permesso di vedere, vedrei finalmente e per la prima volta nella mia vita. Il colore.
Ma la coppia della bolla di sapone si è seduta accanto a noi, incontro un attimo lo sguardo della ragazza, vedo l’amore che non ho mai conosciuto e dico no, ancora una volta, riesco a dire no.
Ringrazio la donna per l’invito, la accompagno all’uscita e vado per la mia strada.
È sempre lì, la mia amica, che aspetta nella tasca per scintillare ancora sulle monetine alle pareti, mentre io ogni notte sogno ancora di vedere i colori.
Antonio Viciani