Con questo racconto è risultata 4^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010
Questa la motivazione della Giuria: Il racconto di Barbara Salvioli, maledettamente attraente per il perverso fluire d’ogni palpito intimo, nasce da un viaggio-processo interiore e conduce ad una separazione nonostante la presunta vicinanza. Femmineamente ambigua ed enigmatica, nel sottile gioco di un ultimo confronto, tagliente con le sue parole graffiate dai sedimenti della vita, risulta diabolicamente penetrante nella rivelazione finale come ad avvisare dell’esistenza dell’ultimo segreto sigillo: “ogni gesto, per le donne, ha sempre un significato preciso”.
«Vendetta corpo 12»
Trascorro la maggior parte del tempo a scacciarti dalla mente.
È un’occupazione che ho imparato a rendere persino gradevole: mi sveglio la mattina presto al suono necessariamente fastidioso, metallico e ripetitivo di un regalo di compleanno sbagliato, ed entri nel mio caffè. allora penso: “Toh! Eccoti qui, ma adesso io ci metto lo zucchero, anche se detesto il caffè con lo zucchero” e intanto che formulo questo pensiero fastidioso e dolce, ti allontano per una frazione di secondo da me, evitando con cura meticolosa di girare il cucchiaino nella tazzina e mescolare. Lo zucchero nemico si deposita sul fondo ed è la trappola dell’ultimo sorso, lo sanno tutti i bevitori di caffè amaro come me… Ma ogni bevitore di caffè accanito, pur consapevole del rischio che corre, non sa rinunciare all’ultimo sorso, è un devastatore/guastatore: non lecca mai il cucchiaino, ma lo poggia accuratamente sul piattino, che ci deve essere, il piattino, ci deve essere proprio sempre, altrimenti il rito del caffè perde tutta la sua proverbiale ieraticità.
Spesso mi annoio, allora evoco il ricordo del tuo abbandono, per poi lavorare alacremente per dimenticarlo, ancora una volta. Ho trasformato tutti i dettagli del nostro ultimo incontro per renderli ancora più crudeli e darmi così un alibi inattaccabile, una giustificazione assoluta. Sei diventato ancora più magro, con la voce ancora più tremula; mi hai informato che dovevi parlarmi con uno sguardo ancora più “storto” del solito.
E pensare che mi piaceva tanto il tuo occhio distratto e mi piaceva accarezzare solo la sua palpebra, per significarti quanto amassi l’anomalia della sua iride che usciva dallo spazio consentito, per vagare lontano dal resto di te, in un universo siderale a noi ignoto. Mi piaceva osservarlo spostarsi lentamente, lui consapevole e tu in un imbarazzo tutto speciale, nel disagio timido dei tuoi silenzi educati.
Ho riscritto quel nostro ultimo dialogo per milioni di pagine, ora è perfetto.
Tu mi dici: “ Ti dovrei parlare”. Usi il condizionale con la voce allegra e mi fai segno di sedermi di fronte a te, non di fianco, come facevamo invece quando ci piaceva starcene vicini e toccarci di nascosto sotto i tavoli dei ristoranti, coi camerieri ignari che ci servivano il risotto diabolicamente carico di burro fuso sgocciolante. Sedevamo vicinissimi e gli altri avventori, spesso coppie educate quanto silenziose, oppure divertenti e litiganti per episodi da fidanzati-da-una-vita, studiavano le tue espressioni per assicurarsi che ciò che era parso loro di scorgere non poteva assolutamente corrispondere a una realtà tanto peccaminosa, così, in pubblico, ma che vergogna!
“Come stai?” me lo chiedi sempre, ma stavolta non mi guardi dritto negli occhi: osservi il sottobicchiere umido di cartoncino verde della birra scura che hai ordinato, nell’attesa. Io non ti rispondo, perché è una domanda che non attende una risposta, la hai formulata per abitudine, e senza convinzione. Non cerco di alleggerire il tuo imbarazzo perché nemmeno quello è reale: è soltanto una proiezione della mia fantasia, l’ennesima. Hai sempre preso le tue decisioni faticosamente e lentamente, ma poi le hai considerate come definitive, inesorabili e questa non farà eccezione: lo so io, lo sai ancora meglio tu. Aspetto…
Finalmente alzi lo sguardo e mi sorridi. Ho ipotizzato da sempre che mi avresti sorriso, mostrandomi i denti bianchissimi, con il neo sopra l’angolo della bocca che diventa ancora più carino e le rughette sotto gli occhi che risalgono all’insù. Ho sempre immaginato che mi avresti sorriso perché volevi dirmi che era stato bello, tutto, ogni cosa; ho sempre pensato che sarebbe stato un sorriso d’addio.
Sono tentata di interromperlo questo tuo sorriso d’addio, iniziare una conversazione-monologo che ti impedisca di proseguirlo e renderlo eterno, come i ricordi. Sto considerando seriamente l’idea di elaborare una furbesca strategia di attacco, oppure di improvvisarne una diabolica di difesa strenua, mi accingo a innalzare una bandiera bianca patetica che ti induca a riconsiderare la mia situazione di donna che si appresta a essere definitivamente abbandonata. Non dirò nulla invece e ti chiederò soltanto di non dire nulla nemmeno tu, senza chiedertelo.
Me lo avevi promesso: basta solo quella parola, ti ricordi? Non hai preparato delle spiegazioni, delle giustificazioni, non hai portato con te una fotografia di lei da mostrarmi, non ne hai bisogno perché io la conosco, e tu lo sai.
Non parleremo di lei, né di noi, sarà l’ultima cena, e basta.
Conosco quel maglione grigio con la riga orizzontale, gratta un po’, ma non abbastanza da tenermi lontana, in altri tempi. Mi strofinerei contro quel maglione ancora, se potessi… Quasi quasi ci provo: tento di appoggiare il mento che si arrosserà e ti farà un po’ di tenerezza (spero), mi allungo per avvicinare il mio naso lentigginoso il più possibile al bordo della scollatura del maglione grigio di tanti incontri, al tuo collo pallido… Proverò a intrufolare la mano, infreddolita per convenienza, sotto il profilo stretto della manica, sotto il polsino non abbottonato della camicia azzurra, fino a trovare il braccialetto messicano di cuoio colorato di blu. Un bracciale indistruttibile, un portafortuna, come i viaggi avventurosi e liberatori che hai imparato a programmare tutto da solo, ripromettendoti di tornare dove non sei stato poi così felice magari, ma ti sei scoperto tanto adulto ed indipendente sì. Ma avevo detto che non lo avrei mai fatto e perciò non lo farò: non cercherò di slacciare il maglione grigio con la riga orizzontale che non si slaccia, non cercherò di deformare i suoi profili per toccare una qualsiasi parte di te: per la pietà ho ancora lo spazio di questa cena, almeno fino al saluto fuori dal locale.
Dopo questa sera, ti penserò ogni sera. Dopo questa sera, ti cercherò ogni sera, senza che tu possa saperlo mai, e tutto questo ha il sapore del riscatto dalla banalità, appare così drammatico e finalmente molto “reale”, secondo me.
È una strana occasione che sto dando a noi due, sai tesoro… Vedi le cose così: ti sto per regalare una meravigliosa quota di eternità, il senso del passato che rende grandi gli eroi, che li trasborda nell’Olimpo dei Giovani-Per-Sempre, come Tarzan (che non credo sia mai invecchiato, a parte nelle sigle spassosissime di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini).
La birra non mi è mai piaciuta, ma stasera l’ho ordinata anch’io, in tuo onore, sotto i tuoi occhi sorpresi che osservavano il cameriere scarabocchiare velocemente un “II” un “due”. Due birre, di quelle particolari che si trovano soltanto in pochi locali, hai sottolineato compiaciuto nello scorrere la lista interminabile quanto improbabile delle birre, prima di compiere la tua scelta definitiva, ma non hai commentato questo insolito “due”, forse hai capito che è una cena iconografica questa, che ogni mio gesto vuole avere un significato preciso stasera… Oppure non hai pensato niente di particolare, soltanto che sto cercando di abituarmi a quella bevanda amara che a te piace tanto magari, che sto cercando di abituarmici troppo tardi, però.
E’ particolarmente amara stasera, vero? Non sembra anche a te?
Questo delle birre speciali non è un locale “nostro”, non abbiamo mai avuto un locale “nostro”, ora che ci penso… Ci siamo dati appuntamento qui, chissà perché, o perché no, in fondo un posto vale l’altro, quando si è certi di non ritornarvi mai più.
Vorrei farti dire qualcosa di memorabile, vorrei darti l’occasione per pronunciare una frase mitica, di quelle che si usano poi da citazione nei film, o che si evocano e diventano stilemi distintivi di appartenenza ad un gruppo… Sai, quelle cose adolescenziali che ti piacevano tanto, come il continuo rimando al Vitellozzo del film di Troisi e Benigni, “Non ci resta che piangere”, appunto.
Quando ti ho trovato, ho pensato istantaneamente che avevo ultimato una ricerca, una ricerca che era durata tutta la mia vita, ed è per questa ragione che avevo deciso di condividere con te l’idea di un’isola. Le idee non si possono condividere, di solito, e nemmeno i sogni, perché altrimenti poi non ci appartengono più, non sono più del tutto segreti e nostri, ma diventano “esperienze”, non fanno più paura.
Ho sempre creduto nell’isola, ti ricordi? Ti ho nominato Guardiano della mia isola tanto tempo fa, ma tu non hai capito bene cosa intendessi, e lo hai scambiato per un regalo: una dimostrazione inspiegabilmente prematura di amore. Non ti è venuto in mente che il Guardiano dell’isola deve viverci, sull’isola… per poterla sorvegliare, altrimenti che Guardiano sarebbe?
Ecco la mia isola, come te l’avevo descritta allora, ti ricordi?
L’isola (era il titolo, il titolo serve sempre)
(qui c’era lo spazio sotto il titolo, per far capire che quello sopra era il titolo, e finalmente iniziava la descrizione del mio regalo per te).
Questa è la mia isola deserta, ci abito soltanto io, coi miei sogni e i miei ricordi più belli.
Ci sono i sentieri di tutti gli amici che ho soltanto salutato e che ora riposano su questa spiaggia, della nonna che vive sempre con me, dei miei maestri, dei bambini che ho perduto, di mio fratello, che è cresciuto qui solo e che ora mi riconosce e mi vuole bene. Qui ho ritrovato tutti gli oggetti insostituibili che si erano soltanto smarriti per un po’: il braccialetto con le iniziali, il mio primo astuccio, la spazzola blu con i denti corti, la mollettina verde con le perline.
In questa isola c’è il sole più splendente che tu abbia mai visto e il mare è azzurro anche se è profondo. Il cielo è sempre sereno e le notti piene di stelle, la luna magnifica e lucente. Ci sono prati immensi dove si può stare sdraiati a guardare il futuro, se guardi bene davanti a te ci sono colline che assomigliano a dei gelati, e montagne altissime che sfiorano le nuvole. In questa isola si può stare in silenzio ad ascoltare la musica del mare, oppure sedersi sugli scogli ad aspettare i pirati e le sirene, che ogni tanto si avvicinano e mi tengono compagnia. Io qui posso essere chiunque e so fare ogni cosa, so andare in motocicletta, so perfino guidare un trattore, non ho paura dei cavalli e dei ragni e dei serpenti. Mi arrampico sulle cime più impervie senza cadere mai. Conosco tutte le lingue del mondo, oppure sono silenziosa e piena di fascino e di mistero.
Su questa isola tutto quello che cresce è buonissimo, perciò non è importante saper cucinare, e le pulizie non si fanno perché c’è il vento che ti aiuta e porta ogni cosa che tu non vuoi via con s….
Descritta così capisco che magari la mia isola non ti piaccia poi così tanto, non abbastanza comunque per venirci a trascorrere almeno una breve vacanza, ma devi sapere che forse può valere la pena pensarci un po’ su… Sai, sull’altro lato dell’isola, quello dove non vivo io, non ti ho detto che c’è anche un grande campo per giocare a calcio tutte le volte che vuoi, e c’è spazio per invitare tutti i tuoi amici e per divertirti insieme a loro, non mi vedrete mai. Lì ci sono i concerti di musica rock, la birra e tutte le persone che desideri incontrare, si possono portare anche gli animali domestici, sono a casa loro sulla mia isola. E’ il luogo perfetto per gli incontri speciali, quelli che ti cambiano la vita: un migliore amico che capisce tutto di te e col quale potresti ridere di niente senza nemmeno parlarvi, una ragazza che ti faccia sognare di stare sempre con lei, la carpenteria più grande del mondo tutta per te per quando ti viene una voglia irrefrenabile di lavorare… L’ultima cosa che ti posso dire per convincerti è che qui è tutto gratis, perché i regali non si pagano, e io ti voglio regalare questa isola. Sarà sempre tua, anche quando io non ci abiterò più. Io ti nomino erede della mia isola.
Finito, senza firma: questa era la mia isola, per te.
E tu mi hai detto, imbarazzato più che compiaciuto: “Ma addirittura un’isola…!”, ma non hai detto nemmeno “Grazie”, hai detto soltanto “Addirittura”…
Era ancora il primo periodo e ti esprimevi sempre in questo modo: poche frasi, molti errori ortografici, tanti puntini di sospensione “per andare a capo col pensiero”. Era il periodo in cui ancora non ti fidavi troppo di me e lo stupore che ti sorprendevi di sentire per le mie storie superava di gran lunga la tua capacità di trasformarle.
Ma l’isola esiste davvero, come i pensieri (nessuno è mai riuscito a provare il contrario, che io sappia). Esistono anche degli abitanti in questa mia isola. E tutti gli abitanti della mia isola ti aspettano, necessitano da sempre infatti di un guardiano che li faccia sentire protetti, accuditi, osservati, “contati”. Sono abitanti di età differenti, privi di apparenti somiglianze tra di loro, ma tutti con un’unica caratteristica comune: l’essere arrivati all’improvviso sulla mia isola senza una ragione precisa. Tutti gli abitanti sono approdati lì unicamente per dare un sogno alle mie mancanze, una speranza alle mie visioni infantili, si potrebbe dedurre, o alludere ad “altro”, se qualcuno volesse divertirsi a psicanalizzare le isole.
Tu invece ci andrai per mia volontà e contrariamente alla tua. D’altra parte i Guardiani raramente scelgono il proprio mestiere: vengono “nominati”, come se fosse una sorta di promozione, oppure “condannati” a questo mestiere che può sembrare noioso, dipende dai punti di vista…
Non avresti mai dovuto innamorarti di lei, era solo la ragazza di una puntata, molti capitoli fa. Hai fatto male. Ora sei diventato un innamorato qualsiasi, non ti leggerebbe più nessuno. Io l’avevo lasciata esistere perché era funzionale alla narrazione e a dire la verità era persino un regalo per te, lo ammetto. Ammetto anche che mi aveva spinto la curiosità di scoprire come avresti trattato una compagna di pagina, se ti sarebbe piaciuto vedere le persone scorrere una nuova lettura, se saresti riuscito a divertirti nel dividere la loro immaginazione con lei. Ammetto che mi incuriosiva la mia stessa mano: sarei stata capace di descrivere i suoi capelli, così come tu li desideravi? Oppure di evocare le sue debolezze, che ti avrebbero reso molto virile ai suoi occhi e avrebbero così trasformato lei un dolcissimo cerbiatto cinese spaurito, bisognoso di attenzioni e di cure? Avrei saputo infondere una sicurezza aliena ai tuoi gesti? Sarei stata in grado di raccontare come avresti continuato a seguire con lo sguardo la sua schiena esile che si allontanava, senza confessare nemmeno a te stesso che desideravi rivederla?
Sono stata brava, vero?
Ti ho costruito anche molti nemici in questi due anni, però… Più di due anni, e soltanto ora capisco bene perché l’ho fatto. Non sarà difficile che uno di loro, uno qualsiasi, possa averti messo del veleno subdolo nella birra amara. Alcuni sono stati dei veri “cattivoni”, ma noi li avevamo sempre sconfitti, non è vero tesoro? Io e te… Non ci erano mai sembrati così pericolosi, forse li abbiamo sempre sottovalutati. È stato uno di loro, travestito da cameriere, o da cuoco, o da proprietario del locale anonimo in cui siamo stati condotti da anonimi tassisti e tu non puoi scoprire la sua identità perché è esistito soltanto per pochissime righe, quasi sgrammaticate, dialettali. E poi non ti servirebbe più scoprirlo, ormai.
Mi travesto da “mandante” e ti consegno un gran finale: hai capito tutto ora, mi guardi per l’ultima volta. Anch’io ti guardo per l’ultima volta, ma non mi alzo per andare via, non scappo, non voglio salutarti così, non voglio salutarti in nessun modo. Guardo le tue mani che mi sembra cerchino le mie, osservo i tuoi occhiali dalle lenti diverse, posati sul tavolo, ripiegati ben in ordine e cerco il gesto che compi sempre quando vuoi baciarmi. Mi accendo una sigaretta proibita dentro questo locale così poco affollato. Non cerco un posacenere inesistente con lo sguardo, non mi servirà. Ascolto i tuoi respiri nella bocca socchiusa e indovino una parola, ma non la scrivo, non la scrivo più.
Ti uccido così amore mio.
Barbara Salvioli