I Primi Canti Lombardi di San Fratello

di

Benedetto Di Pietro


Benedetto Di Pietro - I Primi Canti Lombardi di San Fratello
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 124 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6037-349-2

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Collana Apollonia
Isole e minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura.

Collana diretta da Benedetto Di Pietro


In copertina: diploma del 1108 col quale la contessa Adelaide dona all’Abate Ambrogio di San Bartolomeo le decime degli ebrei di Termini (con sigillo di ceralacca).
(Per gentile concessione dell’Archivio Capitolare di Patti).


Presentazione della Collana Apollonia

Il simbolo del sole e il toponimo Apollonia, abbinati nel logo, raffigurano e compendiano gli obiettivi e le linee guida della collana: dare visibilità e importanza a chi (isole, minoranze, città, personaggi) e a “cosa” (fatti e situazioni, temi e problemi, testi e ambiti di studio, tradizioni e costumi) che, essendo ignorati o snobbati, restano nell’ombra, a bacìo, e vivono da emarginati.
Apollonia è un nome che, al di là dei limiti di spazio e di tempo, accomuna diverse città mediterranee, alcune antiche e ormai scomparse (Apollonia di Illiria, Apollonia di Tracia e Apollonia di Sicilia, quest’ultima sita in prossimità di San Fratello, un centro galloitalico messinese della cui lingua, storia e letteratura si parla nei primi libri della collana), altre ancora esistenti (Apollonia di Libia). Il toponimo Apollonia viene, pertanto, assunto come simbolo e metafora delle rotte e dei percorsi editoriali che la collana intende seguire senza vincoli di spazio e di tempo, mettendo in relazione passato e presente, vicino e lontano.
Lingua, storia e letteratura, che figurano nel sottotitolo, costituiscono un trinomio inscindibile che definisce l’identità socioculturale sia di una comunità minoritaria sia della nazione ed anche di un insieme di nazioni come l’Unione Europea. Lo studio e la rivalutazione di isole e minoranze, di persone e di cose, neglette ed emarginate vuole essere, per l’appunto, il modesto contributo della collana al processo d’integrazione e compattazione interna di una U.E. che, giunta già a 27 stati membri, è un prezioso scrigno che contiene un grandissimo numero di piccole e grandi patrie, di isole e minoranze, etniche e linguistiche, e una ricca varietà di usi, costumi e tradizioni.
Scopo di questo libro è un’analisi della poesia galloitalica sanfratellana dell’Ottocento e primo Novecento attraverso i “Canti lombardi di San Fratello” di Lionardo Vigo, le “Poesie sanfratellane” di Luigi Vasi e la “Poesia vernacola” di Benedetto Rubino, al fine di una maggiore comprensione e per fornire ulteriore apporto alla letteratura galloitalica di Sicilia.
La Parte Prima è dedicata al confronto sinottico dei testi, mentre nella Parte Seconda vengono riproposte le varie poesie riscritte secondo la parlata sanfratellana corrente.

BDP


I Primi Canti Lombardi di San Fratello

PARTE PRIMA


0. Introduzione.

Luigi Vasi era nato a San Fratello nel 1829 e ivi morì nel 1902. Nel centenario della morte sono apparse diverse pubblicazioni relative allo studioso sanfratellano, tra le quali la ristampa delle sue Memorie, in anastatica, e un saggio di Salvatore Riolo incluso congiuntamente a quello del curatore Salvatore Di Fazio, in Personaggi storici di San Fratello, pubblicato nel 2006 dall’amministrazione comunale di San Fratello.
Ovviamente, la figura del Vasi è stata doverosamente ricordata, e molto si è detto e si è organizzato in proposito. Ritengo però che si renda necessario riprendere il discorso sul piano pratico proprio da dove fu lasciato dallo studioso e cercare di dare un ordine al coacervo d’informazioni sulle sue poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello. La mia non vuole essere una voce contro, anzi mi sembra che con quest’operazione la memoria dello studioso sanfratellano possa emergere in una dimensione più completa sotto il profilo linguistico e sempre più vicina al popolo di cui egli si sentì figlio fino alla fine.


1. La valenza scientifica.

È fuori discussione la valenza scientifica degli scritti del Vasi relativi agli studi filologici e sul dialetto galloitalico di San Fratello. Conosciamo anche le difficoltà di poter rendere in grafemi i fonemi del dialetto sanfratellano, proprio per la mancanza di strumenti idonei basati su precedenti esperienze di scrittura. L’uomo che ne viene fuori dalle sue Memorie e dai suoi Studi Storici e Filologici è, come si suol dire, “tutto d’un pezzo”, che si preoccupa di controbattere la censura degli avversari, o che egli considera tali, piuttosto che correggere i suoi stessi errori e proporsi e imporsi correttamente. In altre parole, il Vasi – anche se egli ha sempre asserito di non voler essere dialettologo – avrebbe avuto tutte le carte in regola del glottologo per mettere dei pilastri molto più consistenti a supporto del dialetto di San Fratello e, invece, buona parte di quelle cose che ci ha lasciato sembrano un corredo a difesa, con l’intenzione di voler escludere per incompetenza altri studiosi del suo tempo che si avvicinavano a questo dialetto. Sarebbe stato sicuramente più utile per noi posteri, che siamo impegnati alla ricerca di un salvataggio in extremis, uno studio sulla morfologia di una parlata che ormai rientra nel regno fossile della parola e tante sono le tessere mancanti per riuscire a ricomporre un mosaico che forse nell’Ottocento avrebbe potuto disporre di maggiori elementi per una sua più completa ricostruzione. Però bisogna anche dire che, per converso, il dialetto sanfratellano ha destato e desta ancora tanto interesse proprio per il fatto che una sua normalizzazione completa e uno studio definitivo sulle sue origini non sono stati ancora completamente effettuati.
L’esigua letteratura del passato pubblicata in Italia nel dialetto sanfratellano è limitata, per quanto io sappia, proprio alla sezione Canti lombardi – San Fratello (1857) di Lionardo Vigo, inclusa successivamente nella sua Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (1870-1874), ai saggi Del dialetto sanfratellano e Delle origini e vicende di San Fratello, riuniti poi in Studi storici e filologici (1889) di Luigi Vasi ed alle poche cose in dialetto che si trovano in Folklore di S. Fratello (1914) di Benedetto Rubino. Se ne sono occupati buona parte degli studiosi dei dialetti galloitalici di Sicilia, ma uno studio comparato di quelle poesie, in modo da poter mettere un punto fermo sulla loro correttezza formale, non mi risulta essere ancora stato fatto. Pertanto questo lavoro vuole rendere anche giustizia sia alla poesia popolare sanfratellana, cercando di riportarla nel suo alveo logico di giustezza lessicale, sia ai poeti sanfratellani dell’Ottocento, i cui nomi il Vigo ha posto in calce alle poche poesie di loro appartenenza, Serafina Di Paola e Salvatore Scaglione, in rappresentanza di tutti gli altri ancora rimasti a noi sconosciuti.


2. La situazione linguistica di fine Ottocento in Italia.

Pensare che Lionardo Vigo e Luigi Vasi, spinti da semplice curiosità, un bel giorno decidessero di mettersi a raccogliere poesie popolari oppure occuparsi di questioni relative ai propri dialetti, mi sembra improbabile o quantomeno avrebbe più il sapore di un’attività ludica che non giustificherebbe l’animosità con la quale i due si sono scontrati dialetticamente. Ma se diamo un’occhiata alla data delle loro pubblicazioni e di altre sull’argomento in tutta Italia, rileviamo che una buona parte sono successive al 1860, ossia all’Unità d’Italia.
Imposta per legge una lingua nazionale da usare come espressione ufficiale del Regno, tutte le lingue dei singoli stati dell’Italia pre-unitaria dovranno essere abbandonate. Ovviamente non sarà soltanto la lingua italiana ad essere imposta alle singole regioni, ma si instaurerà tutta una serie di altri cambiamenti, come l’introduzione della nuova moneta e del sistema metrico decimale, che si sostituiranno ai vari sistemi fino allora vigenti in Italia e nelle sue isole. Ne emerge, così, da una parte l’esigenza di dover redigere un vocabolario italiano il più completo possibile, ma anche la necessità da parte di tutti gli intellettuali di adoperarsi affinchè la cultura delle singole regioni non venga perduta, in particolare i loro dialetti perché ad essi, nella loro unicità di lingue delle madri, è legata quella cultura.

A tal proposito ricordo la dedica di Gaetano Frisoni, inserita nel suo Dizionario Genovese-Italiano (Genova, 1910) che recita:

“A S.E. Paolo Boselli,
Deputato al Parlamento Nazionale
che
Ministro della Pubblica Istruzione
ad agevolare nel popolo la conoscenza della Lingua Italiana
indiva PUBBLICO CONCORSO PER LA COMPILAZIONE
DI DIZIONARI DIALETTALI”

In effetti il Boselli seguiva la scia di altri ministri del Regno che a partire dall’Unità d’Italia si erano preoccupati di salvaguardare le lingue appartenenti a tutti gli stati d’Italia precedenti all’Unità. Ciò avveniva bandendo concorsi per la compilazione di dizionari, come è detto nella Prefazione del citato Dizionario del Frisoni, “che oltre ai vocaboli, registrassero anche le frasi, i proverbi ed i relativi corrispondenti nella lingua Italiana.”
Ma già prima, Giovanni Pasquali nella nota introduttiva del suo Nuovo Dizionario Piemontese-Italiano (Moreno, Torino 1870, ripubblicato in anastatica da Forni Editore, 1997) scrive che il “dotto quanto giudizioso Gherardini caldeggiava non meno, e vivamente invocava dal patriottismo degli Italiani la sollecita compilazione dei rispettivi dizionarii vernacoli in correlazione coll’universalità della lingua [nazionale]”. Nella stessa nota il Pasquali riporta la lettera datata Torino 22 marzo 1868, indirizzatagli dal senatore conte Federico Sclopis al quale aveva inviato una copia del suo dizionario:

“Questo suo scritto acquista maggiore opportunità in questi giorni in cui si pubblicò la sentenza della Commissione istituita per diffondere la cognizione e l’uso della buona lingua [l’Italiano] e della retta pronunzia.
Non so se tale sentenza si avrà per inappellabile, ma so che vi ha gran bisogno di cercare di avere una lingua che ci serva per le nostre relazioni ufficiali e sociali.
bq.Lo studio dei dialetti è un valido mezzo per compiere il disegno di una lingua comune e generale. L’uso rettificato dalla logica e dalla legge di precisione debb’essere la sorgente di una lingua. In Italia s‘è andato dietro all’idea di una lingua letteraria, e s‘è raggiunto da un lato la pedanteria, dall’altro la scorrezione” (G. Pasquali: Nuovo Dizionario Piemontese-Italiano, pag. X)

Quindi, l’Italia dopo la sua unificazione si trova a dover affrontare il problema della lingua nazionale che si impone, ma ogni sua regione, che si avvale anche di una parlata diversa, in qualche maniera non intende rinunciarvi e per paura di perderla si dota di dizionari, raccolte di proverbi, di canti popolari e via di seguito. Il Pasquali, riferendosi alla lingua nazionale, nella nota citata, fa la seguente affermazione:

“non s’insegna una lingua a dovere, se questa non si possiede a fondo: ora partendosi dalla erronea opinione, fin qui prevalsa, che per parlare in buon italiano, bisogna scostarsi quanto più possibile dai dialetti, come si può egli saperlo a fondo? Se si sapesse a fondo, si saprebbero pure le relazioni strettissime che passano tra esso e i varii dialetti” (ibidem, pag. XII)

A scuola s’insegna la lingua nazionale e si usa il dialetto. Gli studiosi si tengono in contatto tra di loro per scambiarsi informazioni di ogni tipo e in tutte le regioni d’Italia nascono pubblicazioni linguistiche di ogni genere.
Questo stesso problema mi sembra attuale per noi che stiamo vivendo gli anni della costituzione dell’Europa Unita. La necessaria evenienza dell’utilizzo di una lingua soprannazionale ci porta a ritornare ai dialetti, alle lingue delle madri, diversi dalla lingua nazionale che come abbiamo visto è stata imposta. È nei dialetti, infatti, che ritroviamo l’antica cultura e con essa il richiamo al nostro passato locale, e alle nostre vere radici. Non è cosa da poco, è la certezza di un’identità.


3. La scarsa produzione della ‘canzone’ sanfratellana.

Il Vasi, replicando al Vigo, sostiene che questi non è stato in grado di scrivere nella maniera corretta i canti pubblicati a causa della mancanza di conoscenza del dialetto sanfratellano. Pertanto alcune poesie apparse nella raccolta del Vigo sono state riscritte dal Vasi nel suo libro Delle origini e vicende di San Fratello (Palermo 1882), poi ripubblicate in Studi storici e filologici (Palermo, 1889). Ad onor del vero, occorre dire che la difficoltà della scrittura del dialetto sanfratellano, il Vigo l’aveva ben compresa e per scrupolo l’aveva scritto in nota al titolo della Sezione LVIII – Canti Lombardi. Ma già in una lettera del settembre 1870 a Giovenale Vegezzi Ruscalla lo studioso acese giustifica la sua reazione all’attacco da parte del De Gubernatis

“A me dopo la leale dichiarazione del Sig. Ruggieri [N.d.r.: suo referente sanfratellano che gli aveva confermato la scrittura “quasi a volontà” del dialetto per la mancanza di una grammatica, essendo il suo uso limitato alla sola parlata “tra le famiglie nelle confidenze domestiche soltanto”], non restava altra scelta, se non quella di bruciare o stampare quei canti dettati in quell’inamabile gergo”

Dalla comparazione dei canti del Vigo con le poesie del Vasi, rilevo quanto segue:

  • 3.1 Il Vasi non ha riscritto tutte le poesie sanfratellane del Vigo, bensì alcune contrassegnandole con un asterisco. Infatti, fanno anche parte della sezione LVIII. Canti lombardi, dedicati a San Fratello: “5309. Preghiera” e “5311. La sfida”. Alla fine della sezione LIX. Miscellanea, e vario argomento, è riportato il Canto sanfratellano “5556. [Quant bizzacchi gh san a S. Frareu!]”, che il Vigo ci fa sapere essergli pervenuto, da parte del suo corrispondente Ignazio Di Giorgio Collura, quando il libro era in fase di stampa e quindi è stato inserito alla fine.
  • 3.2 Alcune poesie del Vasi, non indicate con asterisco, risultano incluse nella raccolta del Vigo. Tali sono: “22. I Ricchi” (Vigo 5314) e “31. Il Giorno Natalizio del Poeta” (Vigo 5304-5305).
  • 3.3 Il Vigo riporta altri due canti in siciliano, provenienti da San Fratello. Sono il “2979. Amuri, morta li me carni ceju…” e il “2980. Ti persi amuri, e la mia vita ceju…”. Se è corretta l’indicazione della provenienza, è pensabile che siano state composte da qualche sanfratellano di lingua siciliana, generalmente parlata dalle famiglie ricche per distinguersi dal volgo, oppure che provengano da possedimenti signorili situati nelle campagne di San Fratello in cui si è sempre parlato il siciliano da parte dei mezzadri provenienti dai paesi vicini, poiché i sanfratellani in passato malvolentieri hanno accettato il lavoro di mezzadria, ritenendolo sconveniente in quanto si faceva obbligo di portare i prodotti della campagna nelle case dei padroni in paese. Ritengo derivi da ciò, ma potrebbe esserne la causa e non l’effetto, l’alone di orgoglio che ha circondato da sempre l’individuo sanfratellano. A tal proposito Vincenzo Consolo (Il sorriso dell’ignoto marinaio, Oscar Mondadori, 1987), interpretando questa convinzione ben radicata negli abitanti dei paesi vicini, descrive la figura di un sanfratellano rinchiuso nelle prigioni del castello di Sant’Agata per aver rubato un agnello che egli dichiara di considerare “roba senza padrone”, un’espressione di anarchia assimilata difficilmente dai sanfratellani proprio per non rompere quell’orgoglio di cui sono capaci. Un fuorilegge massacrato di botte, che ha il coraggio in maniera sprezzante di mandare al diavolo il Barone di Mandralisca che gli ha chiesto chi l’abbia ridotto in quello stato. Consolo qui attinge a larghe mani proprio dalle poesie del Vasi, e compone le frasi messe in bocca al sanfratellano:

« – Chi è stato?...
- U principeu di mad, curnui vecch! Chi si pigghiessu i dijievu di Vurchien, tucc i ricch, e a carpa di maza i mazzirran!” [...]
Il Mandralisca allora, per togliersi d’impaccio, tirò dal taschino tre pezzi d’argento e gli si accostò per darglieli. E il carcerato, come morso da vipera, – Va’, va’, pri sant’Arfian! – gridò scalciando, dimenandosi – Firrijia, vaa, curnui cam tucc! Jiea suogn zappuner, sanfrarideu, ni bahiescia au dimousinant! [...]
- Di dov‘è? – chiese a Matafù il Mandralisca [...]
- Chi, eccellenza?
- Il carcerato.
- Ah. Sanfratellano, Dio ne scansi! Gente selvaggia, diversa, curiosa. E parlano ‘na lingua stramba, forestiera…»

  • 3.4 Altre poesie popolari sanfratellane dalla fine dell’Ottocento, per quanto io sappia, non ne sono state pubblicate, se si escludono le quattro che Benedetto Rubino ha incluso nel suo Folklore di San Fratello (Reber, Palermo 1914) – e che riporto in questo libro -, una delle quali era già stata pubblicata dal Vasi con lo stesso titolo L’Amata ma con qualche variante ortografica.

Esiste qualche rara eccezione, come ad esempio un frammento di un canto carnevalesco della prima metà del Novecento che ironizza su due giovani donne che avevano litigato per amore dello stesso uomo, un benestante di nome Salvatore, del quale si sapeva che avendo ereditato molti beni, riuscì a sperperarli dandosi alla bella vita. Voce di popolo diceva che fosse riuscito a firmare ben cento contratti di vendita.
Questo è il frammento:

“La Bronti e la Cazzina s’affirrean,
d’eutr giuorn nta la vaneda dû Cugiuntìan,
u cippan e la unieda si strazzean,
u bust e li muräni si scianchìan.
Ulai savar pircò ss bauni fomni u fean?
P’amaur dû partafuoghj di Dan Turìan.”

La Bronti e la Cazzina si sono accapigliate,
l’altro giorno nella strada del Cogiuntino,
il corpetto e la gonna si sono stracciati,
il busto e gli indumenti intimi si sono strappati.
Volete sapere perché queste buone donne lo fanno?
Per amore del portafogli di Don Salvatorino.

[La traduzione è mia]

Mi piace sperare che ancora esista tanta poesia popolare inedita e tratti proprio delle vicende salienti della gente sanfratellana come matrimoni, azioni insolite, stranezze. Tali poesie venivano recitate o cantate in occasione delle ricorrenze religiose oppure del Carnevale e, in questo secondo caso, il loro occultamento potrebbe trovare giustificazione nella possibilità di ritorsioni da parte dei derisi. Per quest’aspetto, dobbiamo ritenere che il Vasi sia stato un coraggioso, poiché alcune poesie fanno riferimento a persone che potevano essere ancora in vita al momento della pubblicazione.


4. Problematiche della ‘canzone’ sanfratellana.

Spesso mi sono chiesto come mai la ‘canzone’ in dialetto sanfratellano abbia avuto poco sviluppo. Ho cercato qualche giustificazione plausibile e non l’ho trovata; però a volere ben considerare, se il Vigo e il Vasi ce ne hanno tramandate, significa che se ne componevano; dunque potrebbe esservi stata una carenza di poeti. Ma credo che questa sia una affermazione impossibile, perché i poeti sono esistiti da sempre. Una causa plausibile potrebbe essere cercata nel fatto che i poeti popolari erano per lo più contadini o pastori, molto spesso analfabeti e quindi incapaci di scrivere e così la possibilità di tramandarci le loro composizioni era affidata a chi fosse in grado di mandarle a memoria. E poiché la cultura ufficiale a San Fratello era esercitata da chi aveva studiato, che per distinguersi proprio dal volgo non scriveva in dialetto sanfratellano, a noi poco è pervenuto di quanto il popolo componeva.
In genere, parlare di canti popolari equivale a parlare di poesia popolare. Ma occorre dire che molte poesie sono state scritte per essere cantate. La musica veniva composta per un determinato testo, oppure diversi testi utilizzavano la stessa musica; una sorta di palinsesto musicale a fronte del quale, di volta in volta, si componevano dei versi; si tratta di un metodo del quale si sono sempre avvalsi i cantastorie a partire dai trovadori. Credo però che canzoni sanfratellane vere e proprie, nell’accezione corrente, sia nel passato come nel presente, ne siano state composte ben poche, a prescindere dal livello di alfabetizzazione dei poeti. Sappiamo che la musica si avvale di schemi ritmici in base ai quali, nelle parole da cantare, dovranno corrispondere delle vocali munite di accenti tonici, mentre le altre vocali saranno pronunciate in maniera più lieve. Ora, nelle parole sanfratellane diventa tutto più difficile, perché pur facendo appoggiare le vocali accentate in corrispondenza del tempo “in battere”, per quello “in levare” si dovrebbero pronunciare molto spesso solo dei suoni corrispondenti alle consonanti seguite dalla vocale muta; quindi tenere una nota musicale lunga su sillabe fatte di sole consonanti diventa molto difficile: ne verrebbero fuori dei mugugni. Si può spiegare così perché, per il passato, i versi sanfratellani destinati alla musica fossero scritti in siciliano.

Ricordo un frammento di una canzone tramandata nel siciliano di San Fratello che recita:

Avantarsìra succirìu na sciàrria
La pùlici si sciarriàu cu lu piròcchju,
Lu piròcchju ci niscìu la carrubìna
E la pùlici nun si pòti arriminàri.

La scansione metrica dei versi qui sopra, in sanfratellano sarebbe la seguente (nella scrittura indico la mutola con l’apicetto):

Aväntarsàra succ’rì na scièrria_
La pùl’sg s’ sciarr’ièa cû p’uògg,
U p’uògg ghj niscì la carrubìna
E la pùl’sg n’ s’ pàt arm’nèr.

Come si può notare, la scansione sillabica (le vocali accentate indicano la nota su cui il tempo è “in battere”, mentre le altre indicano il tempo “in levare”) è molto differente nei versi sanfratellani. Infatti, volendo far rientrare le vocali toniche, in corrispondenza della battuta forte, come avviene correttamente con il testo siciliano, all’interno di alcuni versi e il finale di altri essendo privi di vocale, avrebbe comportato che gli autori delle parole possedessero un vocabolario personale piuttosto nutrito per sostituire o integrare molte parole, al fine di rispettare il ritmo della musica; cosa piuttosto difficile, tenendo conto della cultura assai limitata dei versificatori. Mi si può obiettare che anche alcune lingue straniere possiedono al loro interno vocali mute e finali prive di vocali, eppure vengono cantate. La risposta è ovvia: hanno pronuncia diversa dalla scrittura (come l’inglese) ma il “peso” delle sillabe è pressoché costante, ossia il suono dei gruppi consonantici è unico e non ha al suo interno interruzioni di pronuncia; quindi il gruppo sillabico si considera come composto sempre da una consonante più la vocale, oppure da consonante più un gruppo vocalico in cui una vocale porta l’accento tonico.


5. Avvertenze.

Lionardo Vigo, nella sua Raccolta amplissima, dedica a San Fratello 19 canti, in dialetto galloitalico, inclusi nella sezione LVIII Canti Lombardi, con relativa traduzione italiana, e due in siciliano nella sezione XXXVII Lamenti. Presumo che i suoi referenti di San Fratello, molto probabilmente gli inviassero i testi manoscritti. Quindi, un’errata interpretazione di segni calligrafici è possibile.
Luigi Vasi, in Delle origini e vicende di San Fratello, pubblica 39 poesie, 17 delle quali sono una riscrittura corretta di quelle pubblicate dal Vigo.
Nella Parte Prima di questo libro, ho cercato di seguire una via sinottica, mettendo a fronte le poesie comuni, seguendo la progressione numerica del Vigo, e facendo seguire tutte le altre del Vasi e del Rubino.
Nella Parte Seconda ho riscritto nel dialetto corrente tutte le poesie con traduzione mia. Ove necessario ho apportato le variazioni che mi sono sembrate necessarie. Per completezza, ho riportato in Appendice un canto tratto dalla raccolta Canti popolari monferrini di Giuseppe Ferraro (Loescher, Torino 1870), che il Vasi riporta, con traduzione in dialetto sanfratellano, nel suo Del Dialetto Sanfratellano. Si tratta della poesia che una delle passate amministrazioni comunali di San Fratello ha fatto scolpire su una lapide, fatta affiggere sul muro del vecchio municipio, e sulla quale sarebbe stato opportuno riportare anche qualche informazione sulla sua provenienza.
Il presente lavoro mi sembra pertanto utile, ovviamente nella misura in cui potrà esserlo, avendo lo scopo di fornire ulteriori materiali a chi abbia in animo di approfondire la materia.

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