Ô frosch (Al fresco)

di

Benedetto Di Pietro


Benedetto Di Pietro - Ô frosch (Al fresco)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 90 - Euro 9,50
ISBN 978-88-6587-8989

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In copertina, foto di Pippo Maggiore: “Cavallo sanfratellano saluta il sole al tramonto”.


INTRODUZIONE

Nel cercare un titolo per questo libro, mi è sembrato naturale intitolarlo “Ô frosch”, espressione con la quale si indica lo stare seduti all’ombra, ma in modo particolare indica il momento di quiete, dopo una giornata di lavoro, da condividere con gli amici.
Alcune poesie qui incluse sono apparse nell’agosto del 2012, in occasione della mostra dal titolo “Immagini e parole”, che ha avuto luogo nel suggestivo centro storico di San Fratello. L’esposizione curata dal fotografo Pippo Maggiore includeva fotografie di Benedetto Rubino, della prima metà del Novecento, e dello stesso Maggiore.
In prima battuta pensai che scrivere testi a commento di fotografie, sarebbe stato un lavoro poco utile. Infatti, le foto contengono elementi sufficienti per poter essere apprezzate nella loro interezza, anche se prive di commenti. Poi realizzai che in fondo quegli scatti erano documenti rivelatori per chi non conosceva la vita del paese degli anni passati, ma erano anche un riconoscimento insufficiente nei confronti di chi era vissuto in quel periodo storico. Quelle foto, infatti, oltre a contenere quanto è visibile, contengono elementi che difficilmente si riescono a vedere, come ad esempio lo stato d’animo delle persone, e che pertanto un’integrazione seppure con testi poetici poteva rivelare un allargamento della visuale.
Non potevo pensare solo ai ricordi dei tempi passati, ai gesti ripetuti all’infinito di chi esegue certi lavori. Mi sembrava fare un torto alla memoria di chi aveva attraversato quei tempi non privi di sofferenze, ma volevo che fosse un messaggio anche all’intelligenza di chi oggi esegue quegli stessi lavori con mezzi moderni. Quella civiltà contadina è scomparsa per fare luogo a quella tecnologica dei nostri giorni, che certamente richiede meno fatica fisica, però ha perduto molte cose legate al comportamento delle persone. E tra queste, e forse non meno importante, la ritualità di sedersi, le sere d’estate, davanti al proprio uscio e confabulare con i vicini di casa o con qualche avventore.
Anche le altre poesie, ad eccezione di un paio già apparse in altre raccolte, sono state scritte in tempi diversi ed hanno origine dai ricordi e dalla realtà di un territorio che ha riversato di continuo la sua precarietà geologica sui suoi abitanti, dando origine a convinzioni di ingiustificata predestinazione nei tempi passati e di giustificato corruccio nella nostra epoca.
Ho voluto includere in questa raccolta anche la traduzione di alcune nugae del Libro di Catullo. Oltre al testo latino, messo a fronte, è proposta la traduzione nel dialetto di San Fratello e l’equivalente nel dialetto siciliano. Come si potrà notare le due traduzioni si somigliano, fatta eccezione per la sintassi, e questo porta a considerare che:
a) il dialetto siciliano, parlato come seconda lingua locale dagli abitanti di San Fratello, nel secolo scorso aveva una costruzione basata sulla predominante parlata galloitalica;
b) per tradurre in siciliano il dialetto galloitalico, occorre fare uso della lingua siciliana in essere nel Settecento, per intenderci la stessa che avrebbe usato l’abate Giovanni Meli e che, fino alla prima metà del Novecento, nel paese nebroideo ha subito poche modificazioni, dovuto al secolare isolamento di San Fratello e alla mancanza di interazioni con i paesi vicini;
c) la parlata sanfratellana è costituita in massima parte di termini della lingua siciliana antica.

In conclusione, questa breve raccolta di testi sanfratellani, unitamente a tutti gli altri inclusi nella Collana “Apollonia”, e a quelli pubblicati non facendo parte di detta collana, vogliono essere memoria e sprone affinché si conservi la lingua, pure con le inevitabili modificazioni, come veicolo di informazioni sul passato di San Fratello, non più ripetibile. È pertanto necessario che le giovani generazioni ne raccolgano il testimone, con la consapevolezza che il raffronto con le tradizioni e le culture di altre realtà sociali e la loro reciproca accettazione sono gli elementi su cui si fonda la pacifica convivenza.

Benedetto Di Pietro


Ô frosch (Al fresco)


La cautra sfilucchiera

Mieuma u tuler u avaia antra.
Tisciaia la tala dû dìan
e chi passäva pulaia santir
u rrimaur dû piecciu chi battaia
ô passegg di la navotta.
Quänn era giauna tisciaia
li cautri sfilucchieri
chi eru assei cumplichieri.
Quänn passäva la navotta
bisugnieva tirer u fieu dû dìan
cû manicheddu paunc a paunc
cam ghj’era ntô dissign
e mean a mean chi la tala avanzäva
si viraia u rrisultea.
A la fini spuntävu iengiu e sciaur
ch’avaiu aner a fer vista
saura dî diet di ghj’Amirchiei.
Era u traveghj di na giauna
chi sciuriva cuntanta
e la spiränza chi chercun
ghji pulaia der leus
valaia cchjussei dî siei masg
ch’avaia travaghjiea pi pach sard.


Il copriletto

Mia madre il telaio lo aveva in casa. / Tesseva la tela di lino / e chi passava poteva sentire / il rumore del pettine che batteva / al passaggio della spola. / Quand’era giovane tesseva / i copriletti ad arazzo / che erano assai complicati. / Quando passava la spola / bisognava tirare il filo di lino / con l’uncinetto punto a punto / così com’era nel disegno / e a mano a mano che la tela avanzava / si vedeva il risultato. / Alla fine, spuntavano angeli e fiori / che finivano a fare bella mostra / sui letti degli Americani. / Era il lavoro di una giovane donna / che fioriva felice / e la speranza che qualcuno / potesse darle lode / valeva molto di più dei sei mesi / di lavoro per pochi soldi.


U miscarò

Quänn fasgiaia u chieud
i sanfrardei ni si svuntuglievu.
Eru abituiei: si ncatusgievu
o prifrivu mottirs suota di ngh erbu
ch’arcampäva l’äria.
Ghj’era cherca fomna
ch’avaia u vuntägliu,
ma u tinaia cchjussei pi vista
ca pi ieutr e quänn u arbiva
paraia na rruora di peagh.
Nvec tucc i niscivu fuora a iauri di dusg:
eru i miscaruoi,
eru taunn e avaiu u mänigh;
eru fätt di fuoghji di pärma ntrizzära
e quänn s’adumäva u carban
nta la cunculina o ntô fuàn,
ô past di fers vinir li iergi di fuora,
a furia di sciuscer,
si pighjieva u miscarò
e si svuntuglieva davänt e darrier.
I miscaruoi i purtäva Dan Andria,
ch’anäva giriann pû paies di San Frareu
e ogni tänt n vunaia chercun.
Ma ghj’abastäva pi camper…
mpesg cu la giant.


La ventola

Quando faceva caldo / i sanfratellani non si sventolavano. / Erano abituati: stavano nei locali bui / o preferivano mettersi sotto una pianta / che raccoglieva l’aria. / C’era qualche donna / che aveva il ventaglio, / ma lo teneva più per bellezza / che per altro e quando lo apriva / sembrava una ruota di pavone. / Invece tutti li tiravano fuori quando si trattava di fuoco: / erano le ventole, / erano rotonde e munite di manico; / erano fatte con foglie di palma intrecciata / e quando si accendeva il carbone / nel braciere o nella fornacella, / invece di farsi venire fuori la gola, / a furia di soffiare, / si prendeva la ventola / e si sventolava avanti e indietro. / Le ventole le portava Don Andrea, / che andava girando per il paese di San Fratello / e ogni tanto ne vendeva qualcuna. / Ma gli bastava per vivere… / in pace con la gente.


U Rrusäri

A la tarbunira nta li chiesi
era d’aura dû Rrusäri.
U Zzu Nìan s’avaia fätt na curauna
di chieni e l’anäva scurrann;
cu la mieuzza ntesta fasgiaia di prima.
La Zzi Bitta a uaregn di tamp
ghj’arpunaia e filäva,
filäva u dìan e apprijeva.
Di Nvern u tamp passäva
cui piei ô brasgier.
U dusg di la cunculina si sfardäva
mantr chi saura dû tripuoru
ntô pignattan li fävi bughjivu
e murmurievu acciamann
i rrigard di la giuvuntù,
quänn pi Cardiver s’anäva a baler
ntê rrarutu e ntê catuosg;
ma ni spassäva u tamp di li pisierii
quänn nta li eri s’abbaläva la quadrighja.
U tamp è nganaraur,
pircò da vecchj mi descia li testi bauni
p’apprigher cu li curauni
e puoi mi abbliga a ster assitei
sanza derm ieutri pussibilitei.


Il Rosario

All’imbrunire nelle case / era l’ora del Rosario. / Lo Zzu Nino s’era fatta una corona / di canne e la faceva scorrere (tra le dita); / con la “milza” sul capo recitava la prima parte. / La Zzi Benedetta a guadagno di tempo / gli rispondeva e filava, / filava il lino e pregava. / D’inverno il tempo passava / coi piedi sul supporto del braciere. / Il fuoco del braciere si consumava / mentre sopra al treppiede / nella pentola le fave bollivano / e mormoravano richiamando / i ricordi della giovinezza, / quando a Carnevale si andava a ballare / nelle balere e negli scantinati; / ma non superava il tempo della trebbiatura / quando sulle aie si ballava la quadriglia. / Il tempo è ingannatore, / perché da vecchi ci lascia le teste lucide / per pregare con le corone del rosario / e poi ci obbliga a stare seduti / senza darci altre possibilità.


La càpula

I sanfrardei avaiu dì causi
chi nin pulaiu fer a men:
u scapucc e la càpula.
Pi li festi di Nvern
cû scapucc dû diräpp,
nar cam San Mniritu,
s’acquatilävu
e fasgiaiu na bedda vista.
Passann ntra mieuzzi e scurzotti
capiei e cupuluoi,
arrivea la càpula pi tucc i giuorn,
Nvern e Stasgian.
Ghj’era la càpula pî giuorn d’ubrì
e ghj’era quodda di la festa.
La pampiera era giusta,
a la sanfrardeuna,
diffirant di quodda di ghj’ieucc paisg.
I frustier si canusciaiu
di la pampiera,
accuscì quänn nta d’urtima uerra
a na pach di tedesch,
pi ni si fer arcanuoscir di ghj’Amirchiei,
ghji vonn n mant di mottirs li càpuli
chi s’avaiu purtea d’ancasaua,
cun tänt di pampieri
quänt l’arogi di ghj’elefänt,
fu cam derghj a la giant
u sa bigliott di vissita
ana ghj’era scritt:
«pighjam prigiunier chi suoma tedesch».


La coppola

I sanfratellani avevano due cose / delle quali non potevano farne a meno: / il mantello e la coppola. / Per le feste d’Inverno / col mantello di feltro / nero come San Benedetto, / si coprivano / e facevano bella vista. / Passando tra milze e mozzette / cappelli e cuffie, / arrivò la coppola per tutti i giorni, / inverno ed estate. / C’era la coppola per i giorni lavorativi / e quella per i giorni di festa. / La visiera era precisa, / alla sanfratellana, / diversa da quella degli altri paesi. / I forestieri si riconoscevano / dalla visiera, / così quando nell’ultima guerra / ad un gruppo di tedeschi, / per non farsi riconoscere dagli americani, / gli venne in mente d’indossare le coppole / che si erano portate da casa loro, / con tanto di visiere / quanto le orecchie degli elefanti, / fu come dare alla gente / il loro biglietto da visita / dove c’era scritto: / «fateci prigionieri che siamo tedeschi».


D’uoli è binirat

D’uoli è binirat
pircò binirat è u traveghj ch’u accumpegna.
D’uoli è nicissärij a la vita:
pi pular ster a la dritta,
na vauta puru pi fer alustr nta li dumieri
e puru cam dissinfittänt nta li caschieri.
Ma quänt traveghj pi n rratu di uoli!
Prima abisugnieva truver d’aghjiestr e nziterlu,
puoi accianter l’alivarata
e quänn era pè d’oliva
cumunzävu li curi ch’eru piei dî malät:
prima u rrimunaraur, apuoi u rruncaraur,
la uerdia pî rrapucciaraur,
chi nvec di rrapucer si scippävu l’olivi dû pè,
e finalmant accumunzäva la rricauta.
U scutularaur li fasgiaia cascher nterra
e na manära di fomni,
chi ncucculäri e chi ndinugieri,
arricampävu l’olivi e cantävu;
una a una, sanza tradascernu nudd cacc,
cantävu e cuntävu cuntanti.
Puru i cacc chi caschievu nta li scieri
anävu accampei pircò d’uoli è binirat
nta li ninfi di li criesgi
e nta li gierri di li chiesi.
I trappai e i trappirer a San Frareu n’amanchievu
e se si purtävu l’olivi ô trappai di Rricca,
ddea u mestr di cienca era Nicuscia
ch’a tucc quoi chi ghji dumanävu
se i pulaia fer passer prima,
rau i paieva disgiannighj
«Anai abbiav a mär ntô scapucc».


L’olio è benedetto

L’olio è benedetto / perché benedetto è il lavoro che lo accompagna. / L’olio è necessario alla vita: / per poter vivere, / una volta anche per fare luce nelle lucerne / e anche come disinfettante nelle cadute. / Ma quanto lavoro per un rottolo1 di olio! / Prima bisognava trovare l’olivastro e innestarlo, / poi trapiantare la pianticella dell’ulivo / e quando era pianta grande / cominciavano le cure che erano superiori di quelle degli ammalati: / prima il potatore, poi il pulitore dei ceppi, / la sorveglianza per i racimolatori, / che invece di racimolare raccoglievano le ulive dalla pianta, / e finalmente cominciava la raccolta. / Il bacchiatore le faceva cadere per terra / e un manipolo di donne, / chi accoccolate e chi inginocchiate, / raccoglievano le olive e cantavano; / una ad una, senza tralasciarne nessun chicco, / cantavano e raccontavano felici. / Pure i chicchi caduti tra i rovi andavano raccolti perché l’olio è benedetto / nelle lampade delle chiese / e nelle giare delle case. / I frantoi e i lavoranti a San Fratello non mancavano / e se si portavano le olive al frantoio di Ricca, / lì il sovraintendente era Nicosia / che a tutti quelli che gli chiedevano / se poteva farli anticipare, / lui li tacitava dicendo / «Andate a gettarvi a mare dentro al mantello».


1 Misura per olio equivalente a cinque litri.


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