Proverbi in dialetto galloitalico tratti dal libro Ghj'antiègh d'sgiàiu accuscì

Proverbi in dialetto galloitalico tratti dal libro Ghj’antiègh d’sgiàiu accuscì

“Ghj’antiègh d’sgiàiu accuscì”
(Gli antichi dicevano così), Proverbi e detti sanfratellani,
Edizioni Akron, aprile 1998, Messina, pp. 111, Lit. 20.000


Prefazione di Giuseppe Cavarra

Nel 1853 apparve, curata da Gino Capponi, la Raccolta di proverbi toscani del Giusti. Con essa l’autore si proponeva di documentare quale tesoro di «lingua viva» e di «purezza morale» il popolo sappia conservare nei suoi proverbi. Nella Raccolta, definita «esemplare» dal Toschi per la sua strutturazione, la materia è raggruppata in 95 categorie che vanno dalle «regole del giudizio» alla «buona e cattiva fama», dalle «regole del trattare e del conversare» alla «fallacia nei giudizi», dall‘«economia domestica» alle «regole varie per la condotta pratica della vita», «dalla meteorologia» ai «motteggi», al «parlare», al «tacere».
Nel nostro Paese non c‘è regione o città che, a partire dalla metà del secolo scorso, non abbia messo insieme la propria raccolta di proverbi sulla scia tracciata dal Giusti. Proverbi, massime e modi di dire se ne raccolgono anche ai nostri tempi. In linea di massima, l’interesse etico e quello estetico-letterario dominano sugli altri aspetti; per lo più mancano i tentativi di contestualizzazione; nessuna considerazione è riservata all’intreccio culturale che c’era (e c‘è) dietro il singolo proverbio; nessuna attenzione per i cambiamenti intervenuti nella realtà sociale di cui il proverbio è proiezione e testimonianza.
Ora Benedetto di Pietro consegna alla nostra attenzione oltre 700 documenti tra proverbi, sentenze, massime e modi di dire, tutti raccolti in loco. A prevalere non è tanto l’ottica affettiva o campanilistica, quanto la volontà del ricercatore di scoprire e di farci scoprire i valori di riferimento che un gruppo umano vissuto come quello di San Fratello, in provincia di Messina, ai margini della storia ha consolidato e tramandato attraverso i tempi a salvaguardia della propria identità.
In Ghj’ antiègh d’sgiàiu accuscì non c‘è parola che non abbia il proprio contesto di riferimento o non rinvii a relazioni connesse con le fondamenta di una cultura la cui perdita condanna sempre ad una Weltanschauung oscura e impenetrabile. Come aveva fatto con i 122 «proverbi e detti sanfratellani» posti in appendice ad Ami d carättar (1997), Di Pietro ci dice quali connotazioni specifiche la piccola comunità nebroidea abbia perduto passando da un aggregato umano composto da gruppi differenziati ad un insieme umano informe, sempre meno identificabile. Il panorama che ne risulta è vasto e vario. Numerosi sono i detti e i modi di dire chiamati a segnare lo spazio-tempo di un mondo fortemente condizionato da ritmi delle stagioni. Ci riferiamo in particolare alla sezione intitolata Il tempo delle credenze, un vero e proprio calendario contadino, dove l’andamento delle stagioni è legato alle condizioni climatiche locali, mentre i comportamenti dell’uomo sono dettati dalle esperienze accumulate e tramandate nei secoli: Tucc-sänt la nav a chiènt chiènt: i mart la nav a-I parti (Ognissanti la neve canti canti, i morti la neve alle porte); La Nunzièra ghj dèa ‘n chièuzz a-la nv’rnära (L’Annunziata dà un calcio all’inverno); Anära d pari, anära d suspir (Annata di pere, annata di sospiri); Anära d erba, anära d merda (Annata di erba, annata di merda).
numerose sono le metafore nate dall’humus di una cultura che era prima di tutto l’espressione di un difficile rapporto con una natura poco generosa con l’uomo: Scurcèr u p’uògg p fers d‘àutr (Scuoiare il pidocchio per farsi l’otre); La p’rnis chiènta càuntra d’i suoi nt’rèsc (La pernice canta contro i suoi interessi); D’erba tinta n’assocca mei (L’erba cattiva non secca mai); U mär è sanza fàun (Il mare è senza fondo).
Un microcosmo – quello che viene fuori da questi proverbi – chiuso alle novità, diffidente verso il futuro. La paura delle novità è una paura frequente più fra i contadini che fra gli altri ceti popolari. È propria degli uomini ai quali l’esperienza ha insegnato che bisogna aspettarsi il peggio e che l’unica vera saggezza consiste nel mantenere in vita le vecchie abitudini. Il primo dovere dell’uomo è quello di non sottrarsi alla battaglia quotidiana per assicurarsi un minimo di sopravvivenza di fronte ad una storia che presenta il volto della gelida staticità: Säcch vachiènt n’ stèa a-la dritta (Sacco vuoto non sta in piedi); Chi vàu rraba s’màna dìan (Chi vuole tela semini lino); Mièghj na tinta pezza ca ‘n ban p’rtus (Meglio una brutta toppa che un bel buco); Mott grasciùra e n’apr ghèr sänt (Metti letame e non pregare santi).

Giuseppe Cavarra


Fuss ban u vìan , n’auòghja se u att è d carn «Sia buono il vino, poco importa se il bicchiere è di corno».
Il detto vuole ricordare che nelle valutazioni occorre fare le giuste distinzioni. Il contadino ha sempre utilizzato le risorse che la natura gli offre: le corna del bue, essendo vuote, venivano tagliate a tronco di cono. Previo inserimento di un tappo di sughero nella base più piccola, si otteneva un bicchiere… infrangibile. Estetica a parte, quello che conta è la sostanza, il vino nel nostro caso.


Pèan d balanza n’ anc pänza
«Pane di bilancia non riempie pancia».
Esiste una variante di questo proverbio in cui pèan è sostituito con rràba «roba». Si tratta di una enfatizzazione del fatto che ci si può sentire sazi solo quando si è nella condizione di mangiare del proprio. Chi è costretto a comperare gli alimenti deve necessariamente limitarsi. La sacralità della ‘roba’ viene continuamente proposta.


Fièji sòcchi e fighji fòmni, u prim prièzz è ièngiu
«Fichi secchi e figlie femmine, il primo prezzo è angelo».
La coltivazione del fico ha occupato una parte dell’attività lavorativa di S. Fratello. I fichi venivano raccolti, tagliati e messi ad asciugare al sole su canìzzi (stuoie di canna). Dopo venivano mpanutari (riaccostando le due metà) e ncucchièri, infilzati in appositi tulèr, supporti di ferla e canna. Il risultato era la cùcchja: un gradevole ‘patchwork’ fatto di fichi secchi. Il prodotto veniva immesso sul mercato che spesso era in rialzo; ma non sono mancati gli anni in cui la concorrenza di altri mercati ha fatto sì che i fichi sanfratellani, in attesa che spuntasse un buon prezzo, siano rimasti invenduti. La sorte dei fichi è stata riservata anche alle figlie femmine.
La campagna ha dato sempre lavoro a tutti; ma la nascita di un maschio è stata salutata sempre come certezza di incremento della produzione della terra e di benessere. Un po’ meno entusiasta è stata accettata la nascita di una femmina se, come vuole un altro detto, il tempo speso per assistere alla sua nascita è stato considerato tamp pers e figghja fòmna («tempo perso e figlia femmina»).
Ma quando una ragazza era da marito, la famiglia doveva prestare attenzione a non tergiversare molto in attesa del partito migliore, perché la ragazza poteva trovare un fidanzato segreto e anèr a dann, compiendo l’irreparabile. Il che voleva dire coprire di disonore tutta la famiglia. Accettare il primo pretendente era la soluzione ottimale: il primo prezzo, appunto, come un angelo mandato dal cielo.



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