Sbughjann nta li paradi (Pascendo tra le parole)

di

Benedetto Di Pietro


Benedetto Di Pietro - Sbughjann nta li paradi (Pascendo tra le parole)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 210 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-5704

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Dizionario dei fitonimi e informazioni sull’agricoltura di San Fratello (ME), con aggiunta di proverbi e detti nel dialetto galloitalico locale.


Libro scritto a quattro mani da Benedetto Di Pietro e Benedetto Iraci




In copertina: diploma del 1108 col quale la contessa Adelaide dona all’Abate Ambrogio di San Bartolomeo le decime degli ebrei di Termini (con sigillo di ceralacca) (Per gentile concessione dell’Arcchivio Capitolare di Patti)


PREFAZIONE

di Giuseppe Foti1

Il pastore che ogni giorno, di buon mattino, fa uscire le proprie pecore o capre, dal recinto dentro il quale hanno trascorso la notte, perché vadano a nutrirsi nel terreno aperto, sbuoghja il suo armento. Sbughjer è appunto il verbo che esprime l’atto di avviare le pecore o le capre al pascolo, nel dialetto settentrionale di San Fratello, una delle cittadine della “Sicilia Lombarda”, secondo una felice definizione del linguista Salvatore C. Trovato. Gli autori, Benedetto Di Pietro e Benedetto Iraci, hanno scelto questa metafora per intitolare efficacemente il loro libro e forse anche per descrivere il cammino che fanno le parole, una volta che abbiano trovato un autore che le raccolga e le faccia “pascolare” presso un pubblico di lettori.
Sbughjann nta li paradi è un libro sulla memoria, un testo composito e ibrido, tripartito nella sua struttura, il cui motivo conduttore è il ricordo attraverso il recupero della parola. Il libro evoca conoscenze, pratiche e tecniche del mondo contadino, ricostruendo una parte importante della cultura materiale sanfratellana. Una civiltà sopravvissuta, sostanzialmente immutata, fatte salve origini più remote, dal secondo secolo del Basso Medioevo, momento presumibile dell’arrivo dei flussi migratori dal Nord Italia, fino agli anni Sessanta del secolo scorso.
Unico quindi il leitmotiv, differenti le prospettive scelte dai due autori. Benedetto Iraci recupera i ricordi di usi popolari antichi con lo scrupolo del ricercatore, donandoci un elenco minuzioso dei nomi locali delle specie vegetali, spontanee o coltivate, di quest’area dei Nebrodi, riferiti al rispettivo nome scientifico. Ad ognuno di essi, l’autore accompagna ricche e particolareggiate digressioni sul ruolo della flora nella cultura locale. Benedetto Di Pietro ricostruisce lo stesso ambiente come in un gioco di specchi, ricordando il padre Salvatore e recuperandone, a sua volta, le memorie, attraverso un lungo racconto in prima persona che ci conduce all’interno dell’antico mondo rurale sanfratellano. Infine, 300 tra proverbi e modi di dire, tratti dal patrimonio della cultura orale popolare locale, concludono il libro, integrando una pubblicazione del 1998, Ghj’antiegh disgiaiu accuscì, dello stesso Di Pietro. L’autore non è infatti nuovo alla scrittura nel galloitalico di San Fratello e il suo nutrito gruppo di libri, pubblicati dal 1995 al 2013, ha avuto un ruolo determinante nel riavviare la produzione scritta in dialetto, ferma ai canti popolari raccolti, tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, da folkloristi e cultori locali, quali Lionardo Vigo, Giuseppe Pitrè, Luigi Vasi e Benedetto Rubino.
Non sono quindi più attuali le parole di quest’ultimo, demologo e farmacista sanfratellano, uomo di ingegno e attento osservatore delle cose paesane, che nel suo “Folklore di San Fratello” del 1914 scriveva: «[…] sono poche le poesie sanfratellane dettate in vernacolo, pur essendo molti i rimatori, non rari i poeti». In questo senso, Sbughjann nta li paradi va letto, soprattutto, come un libro scritto in dialetto, il libro più recente di un corpus non più esiguo di opere in sanfratellano.
La storia di un’istituzione culturale, poniamo la letteratura dialettale sanfratellana, somiglia a quella dell’individuo e, come per questo, se ne potrà parlare compiutamente solo partendo dalla fine della sua parabola. Sbughjann nta li paradi è il momento finale, o meglio più recente, dello sviluppo di questa storia letteraria e mostra gli aspetti di una letteratura non più infante, a cominciare dall’ortografia, ormai sicura, dopo gli studi universitari più recenti. I due autori ci affidano quindi un libro prezioso non solo per i folkloristi, i linguisti o, più in generale, per tutti i lettori in grado di intendere la rappresentazione del mondo che seppero darsi i nostri avi, Sbughjann nta li paradi sarà soprattutto l’ultimo arricchimento di questa letteratura dialettale sanfratellana. Leggendolo, cominciamo a conoscere questa storia dalla fine e realizziamo al contempo che essa è ormai avviata a continuare negli anni a venire.


Giuseppe Foti


1 Dottore di Ricerca in Filologia moderna e docente di Lettere nella scuola secondaria di I grado.



INTRODUZIONE

di Benedetto Iraci

L’universo vegetale ha sempre suscitato in me un sublime incanto e uno smisurato interesse. Sin da piccolo, frequentando la campagna, sono stato attratto da questo mondo fantastico, fonte inesauribile di notizie, cultura e tradizioni, ambiente intriso di profumi, colori, essenze e usi che hanno lasciato in me tracce profonde e indelebili. Nel corso degli ultimi lustri ho affinato la mia ricerca con l’obiettivo di raccogliere un patrimonio linguistico e culturale destinato in buona parte a disperdersi nel tempo sotto gli strali martellanti della globalizzazione. Quindi questa ricerca, che non ha le pretese di essere un trattato di botanica, si inserisce adeguatamente in un completo recupero, un’audace conservazione e un’indispensabile valorizzazione della cultura popolare e del dialetto galloitalico di San Fratello. La tenacia di descrivere, attestare e trasmettere le conoscenze etnobotaniche di un luogo e di un territorio mi ha permesso di tramandare il ricco patrimonio culturale locale, legato alle tradizioni sull’uso delle piante, proiettato anche verso la riscoperta di profondi tratti identitari di una comunità nel variegato microcosmo siciliano.
Alla disamina dei nomi dialettali di fitonimi e più in generale delle modalità in cui una lingua vernacolare designa il paesaggio nel suo complesso, si è riconosciuta, da sempre, una rilevanza notevole. Uno degli essenziali interessi dei termini dialettali relativi alle piante sta nel fatto che grazie ad esse è possibile ricomporre frammenti non secondari della storia di un territorio, nella fattispecie quello nebroideo, e, in alcuni casi, rintracciare modi di vita e credenze che attengono, spesso, a un passato più o meno lontano.
Le piante sono divenute ormai una parte preponderante della vita abituale dell’uomo e sono entrate nei più svariati modi nelle sue azioni e attività quotidiane ed anche nell’alimentazione, nella cura delle malattie e nella cosmesi. Cogliere quindi i tratti salienti ed efficaci di un luogo e del suo comprensorio significa anche conoscere le tradizioni e gli usi della popolazione che da sempre vi dimora, che ne discerne le fragranze, i colori e i segreti delle erbe e degli alberi. Questa raccolta, ricca di informazioni di diversa natura, si può considerare perciò come una guida per la lettura di un’area ancora piena di tradizioni uniche, tipicità particolari, valori esemplari che tendono purtroppo a dissolversi.
Per la raccolta dei fitonimi sanfratellani mi sono avvalso, oltre che della mia personale conoscenza, del contributo di alcuni miei concittadini, i quali si sono dimostrati sensibili e disponibili nel dare tutte le informazioni di cui sono detentori. Colgo l’occasione per ringraziare coloro che ho interpellato per la redazione del presente lavoro. Si tratta dei Signori: Lo Paro Filadelfio, Lorello Giuseppe, Regalbuto Francesco, Tommasi Antonino. Ho attinto altresì alle ricerche precedentemente realizzate, in campo botanico, da Carroccio Anna e Lo Casto Antonella nonché ai termini inseriti da Salvatore Riolo nel Lessico del dialetto di San Fratello, I, A-L e da Benedetto Rotelli nel Dizionario del Dialetto Gallo-Italico di San Fratello (Messina). Un ringraziamento particolare va all’amico Benedetto Di Pietro il quale mi ha sostenuto in questo certosino lavoro dandomi dei preziosi suggerimenti e dettagliate informazioni su diversi fitonimi, ad Alfredo Iraci che si è prodigato di rivedere tutto il lavoro e all’amico Pino Foti per aver accettato di scrivere la prefazione.
Per i termini relativi alla medicina, veterinaria, farmacopea ho fatto uso di alcuni siti Internet specifici nell’ambito delle erbe e piante officinali.
I fitonimi sono indicati in ordine alfabetico e di ciascuno di essi viene indicato il nome dialettale, il corrispondente nome scientifico, il nome italiano, la famiglia di appartenenza, brevi caratteristiche tecniche della pianta, usi diversi con particolare riferimento alle proprietà medicinali, all’alimentazione e altre caratteristiche di varia natura. Di alcuni fitonimi non sono riuscito a individuare il nome scientifico esatto per cui dò soltanto il nome dialettale con pochissime informazioni.
Una tale raccolta non ha pretese di completezza ed esaustività poiché altri fitonimi, che meriterebbero di essere inseriti in una simile raccolta, sono andati irrevocabilmente perduti, mentre altri si possono ancora salvare ad opera di quanti, consultando il presente lavoro, vorranno segnalare, oltre le imprecisioni ed inesattezze che riscontreranno, tutti quei nomi dialettali delle piante che recupereranno dalla loro memoria e dalla loro pratica.
Questo mio lavoro è suddiviso in due parti: nella prima ho raccolto tutta la fitonimia, mentre nella seconda ho raggruppato il lessico relativo ai vegetali e oggetti connessi con i fitonimi.



MEMORIE AGRICOLE

di Benedetto Di Pietro

Le informazioni che riporto qui seguito sono tratte da alcuni quaderni che mio padre Salvatore Di Pietro (1909-1999) volle scrivere, allora quasi novantenne, a memoria della sua giovinezza e del mondo contadino e pastorale di San Fratello, suo paese d’origine in cui ha vissuto fino al 1960, anno del suo trasferimento con la famiglia a Melegnano (Milano).
Dai suoi racconti, nella loro semplicità discorsiva, emergono elementi della sua lunga esperienza lavorativa, ma anche di storia minima che riguarda l’ambiente di San Fratello e di Acquedolci, nonché informazioni che in qualche maniera portano a giustificare la diaspora dei Sanfratellani, negli anni Sessanta del secolo scorso.
I vari argomenti, nei limiti di chi non ha avuto modo di studiare, sono frutto di vita vissuta e sono narrati con sicura lucidità mentale spaziando largamente all’interno di una civiltà contadina non più riproponibile.
La narrazione progredisce con vivacità, filtrata dalla maturità dei lunghi anni vissuti, e con una sorvegliata auto-ironia, virtù questa che ha sempre caratterizzato il carattere di mio padre, ma che in generale è stata sempre presente nella gente di San Fratello.
Al fine di facilitarne la comprensione riporto la scrittura galloitalica e, a fronte, la traduzione letterale in lingua, con l’avviso che i verbi al passato stanno ad indicare che l’autore parla degli anni della sua giovinezza, ma anche perché difficilmente oggi sarebbe riscontrabile in Italia un così particolare tipo di lavorazione agricola.



Sbughjann nta li paradi (Pascendo tra le parole)


Dizionario dei fitonimi e informazioni sull’agricoltura di San Fratello (ME), con aggiunta di proverbi e detti nel dialetto galloitalico locale.


FITONIMI SANFRATELLANI2

di Benedetto Iraci

Aacìna pianticella erbacea con foglie larghe e fiori gialli.
Abìt (pè d’) nome di diverse specie appartenenti al genere Abies L., abete. Vanno ricordate Picea abies L., abete rosso e Abies nebrodensis (Lojac.) Mattei, abete dei Nebrodi. Famiglia Pinaceae. Il legno dell’abete è spesso usato nel settore edilizio, per la fabbricazione di porte, strumenti musicali e oggetti vari: madie (maidi). Nel periodo natalizio la pianta è impiegata per rappresentare i tipici alberi di Natale. In medicina ha proprietà balsamiche, espettoranti, antisettiche e rubefacenti.
Adäntr Nerium oleander L., oleandro. Famiglia Apocynaceae. Si tratta di una pianta fortemente velenosa. Contiene, nel fogliame, nei fusti e nelle radici, un alcaloide fortemente tossico, che agisce per ingestione. Per questo motivo ha un uso esclusivamente ornamentale. Anticamente, nell’ambiente pastorale il decotto di foglie era usato per lavare il vello degli armenti onde allontanarne pidocchi e zecche. Inoltre, in alcune zone della Sicilia, la tintura, ottenuta dalla macerazione delle foglie in aceto, veniva utilizzata come rimedio antireumatico. Il legno si utilizzava per realizzare manici dei ventagli (miscaruoi) e per fare le rocche (rruocchi) per filare.
Adar (pè d’) Laurus nobilis L., alloro. Famiglia Lauraceae. Le foglie sono ampiamente usate in cucina per aromatizzare alcuni cibi, essenzialmente piatti di carne e pesce. Servono anche per insaporire verdure e funghi sott’olio o sott’aceto. Esse, ricche di oli essenziali, poste in infusione, costituiscono un’ottima bevanda digestiva; in passato esse erano bruciate per togliere il cattivo odore dalle case. Presenta anche proprietà aromatiche, digestive, stimolanti, antisettiche e tossifughe. Il decotto di foglie d’alloro si utilizza per i mal di pancia e altri lievi disturbi gastrointestinali.
Adiebr Helleborus niger L., elleboro. Famiglia Ranuncolaceae. La pianta si è dimostrata utile in patologie molto gravi come meningiti ed epilessie. Può essere anche utilizzata nei casi di postumi di anestesie e traumi cranici in cui il paziente stenta a riprendersi o anche nelle sindromi depressive in cui il paziente appare totalmente indifferente agli stimoli esterni e a ciò che lo circonda.
Affàua cavei Bromus sterilis L., forasacco rosso. Famiglia Poaceae.
Aghiestr (pè d’) Olea europaea L. var. silvestris Miller, olivastro, olivo selvatico. Famiglia Oleaceae. Con i rametti di olivastro si confezionano ceste di diverse dimensioni e di uso, per lo più, agricolo. Vanno ricordate il cufian, senza manici, che serve per il trasporto di sassi, terra o altro materiale e le caffi utilizzate per il trasporto del carbone. Ed inoltre il canostr, il cavegn, il cuverc, la gistra, il cirnocc e il curbìan. Polloni di olivastro erano utilizzati per fabbricare manici di attrezzi che servivano nei lavori in campagna. […]


2 Le informazioni sulle proprietà curative di alcune piante non sono consigli medici e potrebbero non essere esatte. Pertanto i contenuti hanno solo fine conoscitivo e non sostituiscono il parere medico.


MEMORIE AGRICOLE

di Benedetto Di Pietro

Le informazioni che riporto qui seguito sono tratte da alcuni quaderni che mio padre Salvatore Di Pietro (1909-1999) volle scrivere, allora quasi novantenne, a memoria della sua giovinezza e del mondo contadino e pastorale di San Fratello, suo paese d’origine in cui ha vissuto fino al 1960, anno del suo trasferimento con la famiglia a Melegnano (Milano).
Dai suoi racconti, nella loro semplicità discorsiva, emergono elementi della sua lunga esperienza lavorativa, ma anche di storia minima che riguarda l’ambiente di San Fratello e di Acquedolci, nonché informazioni che in qualche maniera portano a giustificare la diaspora dei Sanfratellani, negli anni Sessanta del secolo scorso.
I vari argomenti, nei limiti di chi non ha avuto modo di studiare, sono frutto di vita vissuta e sono narrati con sicura lucidità mentale spaziando largamente all’interno di una civiltà contadina non più riproponibile.
La narrazione progredisce con vivacità, filtrata dalla maturità dei lunghi anni vissuti, e con una sorvegliata auto-ironia, virtù questa che ha sempre caratterizzato il carattere di mio padre, ma che in generale è stata sempre presente nella gente di San Fratello.
Al fine di facilitarne la comprensione riporto la scrittura galloitalica e, a fronte, la traduzione letterale in lingua, con l’avviso che i verbi al passato stanno ad indicare che l’autore parla degli anni della sua giovinezza, ma anche perché difficilmente oggi sarebbe riscontrabile in Italia un così particolare tipo di lavorazione agricola.



GHJ’AGRUM

La produzzian di li piantini
Li piantini dî lumoi, cam tutti li pienti di ghj’agrum, vienu fätti pi mezz di la simana dî cacc di li arengi sarveggi, chi s’acciemu “arengi di curauna”. Si pighju i cacc e si simanu nta na mudica di tirrai fìan. Dipuoi di cherch ienn, na pach di piantini si scippu e s’accientu a la distänza di na vintina di centimetri d’una cun d’eutra. Quänn u fust iea la grussozza di n dì si pà fer u nzitt, sampr a pezza pircò ni si pa fer ieutr. Quossa operazzian si fea nta la casedda e apuoi quoss pienti vienu trapiantäri a la distänza di 15-20 metr d’una cun d’eutra.


La curtivazzian dî giardì
I giardì iean bisagn di eua. Na vauta vinivu abbivirei cun d’eua di li uorghi. Si fasgiaia na fassa bedda gräna ô zzucch dû pè dû luman e si anciva di eua. Quoss traveghj viniva fätt fina quänn ni ciuvaia bunänt. Apuoi, a li primi eui, vien a dir ntô mas d’Ottaur, si siminävu li fävi e ntö mas di Mearz s’abbievu nterra e si cumighjievu cun tantìan di terra n muoru chi si purrivu. Quoss traveghj era la cuncimazzian dî giardì.
La stissa causa si fasgiaia puru pî giardì chi eru ntê past ana ghj’era paca eua, sau chi n cchjù di la zzappära, chi si fasgiaia ntô mas di Mearz, nta Giugn s’arripassävu arrier n muoru chi la terra ni si spacchieva e u frutt u fasgiaiu cchjù grass.
I lumuoi iean a essir azzappei tucc ghj’iegn masenanqua assoccu, cam puru li vir: se ni si puru e s’azzäppu assoccu pircò li rräriji li iean pach funuti e n’arrisistu a li stasgiunäri.
La rricauta di lumuoi la fasgiaiu daui-trai vauti a d’änn. Quoi ch’i scipävu avaiu la mizura nta li mei e se ni eru di na zzerta grussozza i dascievu saura la pienta pi n’eutra vauta. (…)


GLI AGRUMI
La produzione delle piantine
Le piantine dei limoni, come tutte le piante degli agrumi, vengono ottenute con l’interramento dei semi di arance selvatiche, chiamate “arance di corona”. I semi vanno seminati in un pezzetto di terra fine. Dopo qualche anno alcune piantine si estraggono e si ripiantano alla distanza di circa 20 cm l’una dall’altra. Quando il fusto sarà grosso come un dito si farà l’innesto, sempre a “pezza” perché non si potrà fare altro. Questa operazione viene fatta nel vivaio e successivamente le piante saranno trapiantate alla distanza di 15-20 metri.


La coltivazione degli agrumeti
Gli agrumeti hanno bisogno di acqua. Una volta venivano irrigati con l’acqua delle vasche. Si scavava una grossa buca vicina al ceppo del limone e si riempiva d’acqua. Questo lavoro veniva fatto finché pioveva in abbondanza. Poi, alle prime acque, cioè nel mese di Ottobre, si seminavano le fave e nel mese di Marzo le piante si coprivano di terra2 in modo che marcivano. Questa era l’operazione di concimazione degli agrumeti.
La stessa cosa veniva fatta per gli agrumeti in luoghi in cui c’era poca acqua, con la differenza che oltre alla zappatura, che veniva fatta nel mese di Marzo, a Giugno veniva rifatta così la terra non si fessurava e il frutto veniva più grosso.
I limoni debbono essere zappati tutti gli anni altrimenti seccano, così pure le viti: se non si putano e si zappano seccano perché hanno le radici poco profonde e non resistono caldo estivo. La raccolta avveniva due-tre volte l’anno. Gli addetti avevano la misura nelle mani e se i frutti non erano di un determinato calibro li lasciavano sull’albero per la raccolta successiva. […]



PROVERBI E DETTI SANFRATELLANI

di Benedetto Di Pietro

Questi proverbi e modi di dire seguono l’impostazione della mia raccolta ‘Ghj’antiegh disgiaiu accuscì’ (Akron, Furci Siculo 1998)

A. L’UOMO E L’AMBIENTE

1. Aner a la manijera ‘Seguire le orme’ di un animale.
2. Ni mottir ciagiar nta la ciugiarära e fävi nta la favära ‘non seminare ceci e fave negli stessi luoghi dell’anno precedente’. Si tratta di istruzioni sulla coltivazione.
3. Apricanter li ciali cam Patr Valenti ‘Esorcizzare le taccole come faceva padre Valenti (prete)’ su richiesta di qualche contadino perché distruggevano il raccolto di fichi o altro. Gli uccelli per incanto si trasferivano nel podere del vicino. Gli esorcisti agivano un po’ su tutto, perfino su infezioni come la rrisipula ‘erisipela’.
4. Cam è pi n spicchj è pi na rrista ‘Com’è per uno spicchio [di aglio] è per una treccia’. Il detto è riferito ai lavori della massaia, quando deve preparare la salsa di pomodoro o altro: per poco o tanto gli utensili si sporcano in uguale maniera.
5. Rraumpir ienga ‘Rompere il dente molare’; è detto di un animale malato che comincia a nutrirsi. È sinonimo di miglioramento.
6. Arrinuver cam d’argi ô frumant ‘Rinnovare come l’orzo al frumento’.
7. Caveu meagr muor a la städda ‘Cavallo magro muore in stalla’, per il fatto che essendo debole non può essere sottoposto a sforzi. Oggi questo proverbio trova poca applicazione: l’animale si manda subito al macello.

[…]


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