Con questo racconto è risultato 4° classificato – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Il Club dei Poeti 2010
Questa la motivazione della Giuria: «Il racconto “Goran il mutevole” è ammantato da atmosfere rarefatte e misteriosamente giocate sul filo di atmosfere tra possibile realtà e visione onirica. La percezione della morte che incombe, il silenzio e la sospensione nel tempo, il freddo intenso che fa ghiacciare la città di San Pietroburgo. Tutto è reso con una scrittura che annichila eppure, a tratti, la parola si fa lirica». Massimo Barile
«Goran il mutevole»
Faceva freddo, troppo freddo. Il ghiaccio aveva invaso la città e tutto era bianco. La nostra resistenza era al limite e la paura si faceva forte. La vita stava per lasciarci nella maniera più stupida possibile, senza scusarsi, come se non ci appartenesse. Eppure il nostro orgoglio ancora ci impediva di accettare che stavamo morendo.
Nevicava fitto, i contorni delle case si perdevano nel biancore di un giorno senza tempo e un sopore dolce e caldo ci stava trascinando via. L’orologio alla parete era fermo, forse da sempre, ci aveva già preceduto, e le mani viola urlavano nel silenzio assoluto di chi si era ormai arreso.
All’improvviso apparve. Goran il mutevole arrivò veloce dopo aver superato con facilità la linea di difesa costruita a nord della città. Trasformò il ghiaccio in acqua, l’acqua in nuvola e la nuvola nel nulla.
Non capivamo perché l’avesse fatto, ma ci aveva salvato. La neve, il gelo, la morte erano scomparsi e al loro posto il nulla. Si poteva ricominciare, da zero è vero, ma si poteva ricominciare. L’unica vera difficoltà era quella di adattarsi al nulla. Non c’era nulla da guardare o da dire. Nulla da mangiare, non si dormiva, nulla a cui pensare. Cercavo di ricordarmi qualcosa, anche di semplice, impossibile. L’angoscia del vuoto, il dolore lacerante di essersi persi da qualche parte, un luogo indefinito e senza un contorno, nessuna scritta, nessuna luce, questo ci stava distruggendo.
All’improvviso apparve. Goran il mutevole arrivò veloce dopo avere superato con facilità la linea di difesa costruita a nord della città. Prese il nulla tra le dita e cominciò a plasmare. Lo osservavo lavorare, la serietà dell’azione, la bravura plastica, la sicurezza di chi sapeva il fatto suo e dal nulla tirò fuori il tutto. L’effetto fu immediato e le sensazioni, quelle, s’accavallavano in forme devastanti. L’orologio alla parete era ripartito. Il sole invase la città, riapparvero gli alberi e i fiori si aprirono ingordi a questa inaspettata primavera. Correvamo tutti come dei pazzi, prede di un delirio collettivo che bruciava quantità spaventose di energia. Fu così che ci riappropriammo della città in un turbinio di felicità. Una città nuova, viva, pulsante di una vita mai vista, ipercinetica. Io mi muovevo rapido, alla ricerca del tutto. Volevo avere il più possibile, strapparlo dalle mani degli altri, dalle loro bocche, sottrarlo agli sguardi famelici, mio, mio, solo mio, per impedire a chiunque di portami via anche la più piccola molecola di mondo. La morte mi aveva sfiorato e adesso dovevo solo riprendermi la mia esistenza, senza guardare in faccia nessuno, senza ritegno, via, scacciare il senso di colpa. Bastò poco. Qualche giorno e la città si trasformò in un enorme incubo a cielo aperto. Non ero il solo a pensarla così e anche se il tutto, vi assicuro, è veramente grande, questo non ci impedì di mutare il nostro unico dolente grido di sofferenza in violenti latrati di egoismo. Il tutto ci aveva cambiati, ci aveva messo dentro una fame immensa, ci aveva regalato un buco incolmabile.
All’improvviso apparve. Goran il mutevole arrivò veloce dopo avere superato con facilità la linea di difesa costruita a nord della città. Allargò le sue braccia e si riprese il tutto. Non si voltò perché aveva molto da fare e lasciò dietro di sé solo il vento.
La neve cadeva copiosa. L’orologio alla parete si era di nuovo fermato, forse non aveva mai ripreso a correre, e il freddo mi era ormai giunto al cervello. In seguito mi dissero che ero morto per assideramento, sebbene non sapessero spiegarsi quella ferita chiusa da un tappo di sangue congelato ben visibile sulla mia fronte. Mi dissero anche che non ero solo, altri sette corpi furono ritrovati nella stanza, tutti nelle medesime condizioni, e mi dissero anche che l’inverno del 1781 a San Pietroburgo fu il più freddo degli ultimi seimila anni, ma di Goran il mutevole nessuno aveva mai sentito parlare.
Beniamino Lanteri