Un pugno di… sabbia – Pochi racconti brevi

di

Bruno Amore


Bruno Amore - Un pugno di… sabbia – Pochi racconti brevi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 70 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-7791

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In copertina: «Playing with the sand» © Stefan Ataman – Fotolia.com


Un pugno di… sabbia – Pochi racconti brevi


Quando il sangue è salmastro

A Livorno, nel quartiere più vecchio della città portuale, “la Venezia”, viveva una popolazione di facchini di porto e piccoli privati pescatori dilettanti, che della navigazione marittima avevano, al massimo, qualche nozione tramandata oralmente dai comandanti di piccolo cabotaggio che conoscevano il Portolano Ministeriale, ma aveva nelle vene sangue salmastro.
I più sapevano prendere il largo nel chiarore metallico prima dell’alba, per calare le reti o recuperarle quanto per anticipare i crostacei, attirati dai pesci rimasti imprigionati e morti tra le maglie che per cibarsene.
A Livorno chiamano “scali”, i piccoli moli sul livello dell’acqua dei “fossi”, ai quali si accede da rampe che partono dal piano stradale vari metri più su. I fossi, sono canali che insinuano l’acqua salmastra sin dentro l’abitato, antiche comode vie per trasbordare le merci, coi capienti navicelli, dai bastimenti alla fonda ai magazzini a terra: erano stati la brillante idea degli ingegnosi architetti dei mercanti medicei, che li vollero. Al tempo, ci faceva capo gente di mare e di traffici esotici, da e per il mondo allora noto, in affari con la Firenze pingue di fiorini e di bellezze.
Lungo i fossi, hanno resistito alle distruzioni dell’ultima guerra, alcuni bei palazzi che si affacciano sull’acqua, quasi un lungarno di fiorentina e pisana memoria, meno nobile, non meno bello e lunghe teorie di abitazioni popolari, pregne ancora della umanità che ci viveva. E dal Porto Mediceo, la Fortezza Vecchia t’avvia col fosso principale al Porto Vecchio e alla Fortezza Nuova, nello slargo d’acqua del Pontino. Ora ci attraccano effimere barche da diporto, in materiali leggeri, trasparenti con motorizzazioni degne d’altro più utile impiego. Ma è questo il tempo della tecnologia imperante, del divertimento consumistico, ad ogni costo.
L’acqua è sempre stata maleodorante, un tempo di sentori umani, eppure i ragazzi ci si bagnavano, ora puzza di nafta e sulla superficie, arabeschi cangianti tentano forme che nessuno riconosce. I gabbiani spazzini, ci planano, si posano per cibarsi, non di pesci ancorché morti, che gli è naturale, ma di strani rifiuti, spesso ancora incartati, che malcreati gettano incuranti.
Il vecchio Suardi, che aveva la rimessa degli attrezzi nella “cantina” di uno scalo: un grande vano buio, antico magazzino merci, sottostante la strada carrabile; da tanti anni, col viso grinzo cotto dal sole e dal salmastro, con le dita rattrappite a pochi movimenti, non faceva altro che pescare. Era stato anche facchino portuale, per breve tempo, ma non aveva la salute e la forza per continuare. Così, sbarcava il lunario con piccole pesche nel bacino S. Stefano, l’imboccatura del porto nell’acqua fonda, a ridosso delle dighe: della Meloria e della Curvilinea. Con la bonaccia si spingeva al largo, fino alle secche.
Non si lamentava delle poche catture, né si esaltava quando la pesca era fruttuosa. Metodicamente, col giusto tempo, andava a “bolentino” con poca attrezzatura e tanta pazienza o a stendere i “tramagli”, quando il mare lo consentiva. Le prede migliori andavano alla Trattoria da Rizieri, allora all’angolo di via Delle Acciughe.
Lo chiamavano “Occhiata”, un soprannome crudele eppure intriso di affettuosità popolana, per via di quelle grandi spesse lenti che facevano apparire gli occhi, afflitti da cronico tracoma, piccoli piccoli. Salpava sempre di buonora, chino a poppa, alla barra vicino ai comandi del diesel che borbottando monotono spingeva il gozzo su e giù per le onde, per andare alle tre miglia dalla riva, dove erano stati calati i tramagli per la pesca da postazione, prima di notte. Sempre la bruma, in ogni stagione, gli bagnava il viso, imperlava le ciglia e le rossicce sopracciglia cespugliose, si cristallizzava in minuscoli grumi di sale su quei peli che luccicavano, come cosparsi di polvere di vetro, ai primi raggi tiepidi di sole.
Non amava il mare, nel modo e senso di quelli che lo godono dalla e sulla spiaggia, ma da sempre era la sua vita. Quasi il suo elemento, anche se non ci si immerse mai per capriccio o divertimento. Per bisogno sì e con sicumera, quando c’era da liberar l’elica dalle alghe o qualche rifiuto inciampato durante la navigazione. Era il posto che conosceva meglio di ogni altro al mondo: ci viveva, lavorava e sperava di averne buoni frutti ogni giornata.
Da un bel pezzo oramai, usciva da solo. Il suo ragazzo, il più giovane che l’aiutava: gli altri avevano scelto di sfacchinare ai moli là nel porto; era caduto in mare affogandoci, una sera di burrasca, nel tentativo di salvare le reti che la mareggiata avrebbe portato via, irrimediabilmente. Gli stringeva il cuore ripensarci e in quei momenti di pesca solitaria, ci parlava, come l’avesse lì a prua, a calare o salpare, rassettare reti, aggiuntare sagole, montare galleggianti. Come parlava al mare, alla barca, alle creature che accostavano, per caso o volontariamente, i legni che vanno per mare: gabbiani, procellarie, peschi volanti e quei ladroni birbanti dei delfini, che banchettavano alle sue reti e poi, squittendo, saltavano fuori dall’acqua, davanti alla prua.
“Guarda Nedo… Sì, poeroamme! Magari fosse ‘vi. E c’è rimasta un’aragosta, anche bella, gl’è ito di traverso il pesce che rubbava” oppure: “Facci un segno ‘vi, c’è uno sbrago, va riparato – è troppo grande per lasciallo ‘osì”.
Beccheggiava la barca, tenuta di prua contro le onde, mentre la fiancata di dritta era inclinata fino a sfiorare col bordo il pelo dell’acqua, sotto il peso delle reti salpate intrise di mare.
“Mare cane! Come sei freddo. Almeno dammi un po’ di pesce bono, stamattina, così si fa giornata. Ovvai Gloria – il nome della barca e della moglie – tieni botta; s’è quasi finito, si va a casa a bersi un ber ponce ar mandarino”.
Quando le reti erano a bordo l’alba, da dietro le colline, allungava ormai le dita da terra fino sul mare, che prendeva tutto il colore del cielo copiandolo e come fosse una coperta di seta azzurra.
Il motore s’avviava con sbuffi neri dallo scarico di fianco e spingeva lentamente il gozzo appesantito. La barra a dritta e via tranquillo verso riva. Capitava che a prua solcassero veloci il mare le pinne dei delfini, era buon segno, un’allegria, che non sempre capitava di godere.
Nulla lo distrasse mai da quella sua attività in solitario, a lui piaceva così e ci morì, in solitario, mentre riordinava le reti, nella sua cantina, in Scali del Monte Pio. Su quel breve lembo di molo, i gabbiani avevano preso ad aspettarlo regolarmente quando tornava dalla pesca, perché gli lanciava i pesci di scarto, danneggiati e per molto si posarono ancora sullo scalo ad attendere, inutilmente, il suo arrivo.
Appesi alle muraglie di pietra lungo i fossi, qua e là crescono e pendono ancora ciuffi della pianta di cappero, sembrano cascatelle verdi verso l’acqua scura. Alla stagione giusta, sbocciano piccoli fiori bianchi, che somigliano, nella forma e colore, a quelli della passiflora.


Una storia d’amore, drammatica, volendo

Cara…
Quando leggerai questa mia sarò molto lontano, in quel posto meraviglioso che abbiamo anche immaginato per due, ma che sarà solo mio e … dei nativi. Non voglio lasciarti, però, senza un rigo di saluto e di spiegazione, anche se non ce ne sarebbe bisogno.
Mi scuserai se nel conto corrente non avrai trovato un euro. Quel tuo ex della banca mi ha aiutato a prelevare tutto, con una solerzia sospetta, a ripensarci, ma ho mentito un pochino, ne valeva la pena.
L’ho fatto appena in tempo, il giorno stesso che tu sei partita in vacanza a sciare con gli amici, pareva, ed io tornando da quella trasferta all’estero, già in ascensore avevo una strana ansia. Appena entrato in casa ho visto che dalla mensola dell’ingresso mancava quel vaso orientale che ci aveva regalato mio zio quando abbiamo arredato l’appartamento: 5mila euro. Poi anche il piccolo secretaire in ciliegio, intarsiato: undicimila euro, a quell’asta parigina, non c’era più. Dal letto matrimoniale mancava il materasso ad acqua, la tua ideona americana; dall’armadio, il mio e il tuo cappotto di pelo di cammello, fatto su misura: duemila euro ciascuno. Perfino la batteria da cucina in acciaio inox speciale e il servizio R. Ginori da diciotto, sempre esagerata, tanto pagavo io: tremilaseicento euro.
In sala da pranzo sparito il tavolo e sedie in finto cristallo, di un disegnatore cinese, costati uno “stonfo” da quell’arredatore architetto dei miei stivali, così gentile e premuroso con te, da farti acquistare perfino il water closet trasparente, il massimo del trasgressivo igienico erotico, diceva lui; il tutto diecimila, esclusa l’installazione.
Ma più di tutto mi ha ferito quel messaggio che hai lasciato appeso al soffitto. Al gancio per il lampadario: ovviamente di Murano, da seimila euro, che non c’era più.
Quella corda azzurrina, con il cappio scorsoio già fatto, pendeva su tre cassette vuote accatastate, del vino pregiato che facevi venire dal Piemonte. Certo che ho capito, ci ho pensato a lungo. Ci sono anche salito sopra e me lo sono infilato al collo, ho rovesciato le cassette e … sono franato a terra, anche in modo ridicolo, volendo: la corda non ha retto.
Hai risparmiato sull’unica cosa davvero importante, dato il punto a cui eri arrivata. Proprio una derisione.
Ho sofferto molto per il modo e non ho potuto accettare l’ultima cattiveria e…
Ti ho denunciato alla Polizia, spero ci siano gli estremi per arrestarti presto.

[continua]


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