Racconto premiato di Bruno Longanesi

Con questo racconto ha vinto il decimo premio all’edizione 2008 del Premio Il Club dei Poeti


«Il compagno di viaggio»

Vivo in una dimensione che non ha spazio né tempo… Ogni tanto mi e concesso un piccolo “ricordo” terreno: ho approfittato per parlarvi di chi mi ha guidato e protetto su quel minuscolo granello di pulviscolo universale che viene definito Terra Quella mattina mi sentivo stranamente stanco.
Stavo passeggiando leggendo il giornale, soffermandomi dopo pochissimi e brevissimi passi per trovare un giovamento alla mia inusuale stanchezza, mascherando le mie ripetute soste come concentrazione alla lettura delle notizie riportate.
Vidi una panchina libera: era situata all’ombra di un enorme platano, quello che ci voleva. Mi sedetti e ricominciai la lettura, svogliatamente.
Ero da poco in quella comoda posizione quando, improvvisamente, mi assalì una strana sensazione. Qualcuno era seduto vicino a me senza che lo avessi visto e udito arrivare… Non volli puntare subito lo sguardo verso quella “persona” che si era avvicinata in quel modo assolutamente strano, ma “sentii” i suoi occhi fissi su di me.
Mi decisi, con voluta lentezza, a indirizzare lo sguardo verso lo “sconosciuto”.
Aveva un libro posato sulle ginocchia, una specie di “diario”. Continuò a fissarmi, sorridendo. Era un sorriso a fior di labbra, dolce, amabile, affettuoso.
Avvertii un insolito impulso: il desiderio di parlare con lui, uno stimolo in netta contraddizione con il mio temperamento schivo e introverso.
In altre occasioni il mio carattere avrebbe fatto sì che, con naturalezza, mi fossi alzato e allontanato per evitare una impicciante conversazione.
Quella volta no!... Anzi, contraccambiai il sorriso in maniera che ritenni accattivante. Notai subito che il volto di quell’uomo non mi appariva nuovo: Aveva dei lineamenti inconfondibili, strani, delicati, gentili, quasi familiari. Ebbi la certezza che l’avevo visto ancora. Ma dove?... Quando?... Cosa mi stava succedendo?.... Riposi il giornale senza rincrescimento e sentii, di nuovo, l’impulso di “parlare” con quell’uomo, ma fu lui a dirmi per primo: «Buon giorno…».
Che modo strano aveva di parlare (...Sembrava che le sue labbra non si muovessero, come se quelle parole fossero uscite dalla bocca di un ventriloquo.
Il fatto ancor più curioso fu che quelle parole non le percepii per mezzo dell’orecchio, ma nella sfera interiore, cioè con la stessa sensazione di quando una persona “ragiona” con se stesso.
«Buon giorno…» risposi io.
Capii subito che la conversazione nonsi sarebbe esaurita con quei convenevoli e non sarebbe stata una di quelle banali “chiacchierate” che si scambiano due sconosciuti in un occasionale incontro.
«Finalmente… finalmente anche tu mi conosci di persona…» disse lui, sorridendo e con quel suo stranissimo modo di parlare senza far udire le sue parole…
Questa frase la considerai curiosa.
Cosa intendeva dire questo ignoto personaggio con quel «finalmente ci conosciamo di persona?»...
Mi sembrò una espressione eccessivamente confidenziale!... Lui si accorse di questa mia contrarietà e cercò subito di porre rimedio:
«Non ti impressionare…» e mi chiamò per nome!... “Mi da del “tu” e sa il mio nome?... – pensai istintivamente – ma chi è questo individuo?”.
Lo guardai meravigliato. In quel momento non seppi trovare la giusta risposta. Fu ancora “lui” a parlarmi, sempre in quel modo surreale, quasi onirico. «Io ti conosco bene… ti conosco da tanto tempo… so tutto di te… tutto… tutto è segnato in questo libro» e mi mostrò quella specie di “brogliaccio” che teneva sulle ginocchia.
Io incominciai a sentirmi a disagio. Ebbi l’immediata sensazione di avere fatto male a non ubbidire al mio istinto: non dovevo accettare quella conversazione!... Perdio!... Per tutta la vita avevo cercato di evitare contatti con sconosciuti!... Come avevo ceduto così facilmente in quell’occasione?
Ma mi bastò guardarlo fisso con la decisione di troncare quell’incontro, che trovai i suoi occhi fissi nei miei e sentii svanire ogni velleitaria reazione.
Quegli occhi, di un colore indefinito, ma di eterea bellezza, trasfondevano la propria volontà di rendermi partecipe al suo spirito e al suo fervore.
La loro lucentezza sembrava invitare ad aderire al suo grande desiderio di confessare qualcosa che mi riguardava da vicino…
Occhi espressivi, innaturali ad essere umano, profondi, entusiasti ma anche imperiosi e irresistibili.
«Chi sei?...» gli chiesi con un tono di voce quasi impercettibile. Non rispose subito alla mia domanda.
Fece una pausa, mentre scrutava il mio comportamento.
Solo quando si rese conto che il mio sbigottimento stava trovando un certo equilibrio, incominciò a «parlarmi… nell’intimo».
«Sei stato difficile… molto difficile… mi hai fatto lavorare tanto… sai!...».
Qui, il suo sorriso dimostrò molta benevolenza: si atteggiò ad amorevole umanità, affettuosa indulgenza, ad affabile amicizia, quasi ad attenuare la frase appena detta.
Io ero in uno stato confusionale. Non riuscii a comprendere bene il significato di quelle parole strane dette da uno sconosciuto, ma sentii il bisogno di approfondire le cose.
«In che modo ho reso gravoso il tuo… lavoro, come dici tu?...» chiesi timidamente, accorgendomi che il “tu” rivolto a questo personaggio mi era sgorgato spontaneo.
«Fin da bambino… quando stavi per morire… a tre mesi di età... ma già!...
Tu non puoi ricordare.!... Non fu facile salvarti in quell’occasione… anch’ io, nei limiti della mia responsabilità e competenza, collaborai a questo…».
«Quest’uomo non è nelle piene facoltà mentali!... Fa dei discorsi da pazzo!...» pensai a quel punto, anche perché notai che, come età, poteva essere mio coetaneo e, quindi, non poteva ricordare fatti della mia prima infanzia.
Ma bastò un suo sguardo e, improvvisamente, ricordai che mia mamma mi aveva sempre detto che, a pochi mesi, ero tanto gracile da temere per la mia vita….
“Ma come fa a saperlo?... – pensai «da chi può averlo appreso?... – lui sorrise ancora una volta e mi “comunicò nel subcosciente”:
«Ho letto il tuo pensiero e… non sei carino nei miei confronti, anche se hai ragione di pensare certe cose… ma se continuo a parlare sentirai quanti avvenimenti conosco sul tuo conto… Vuoi che continui?...».
Inconsciamente la mia testa ebbe un movimento involontario e impercettibile di assenso.
«Meglio così...» disse l’uomo «anche perché non ci sarà permessa una ulteriore occasione!...» e qui il mio interlocutore, per la prima volta, sembrò rattristarsi…
Aprì il libro che aveva a portata di mano e incominciò a sfogliarlo.
Riuscii a intravedere nell’espressione del suo viso, sorrisi alternati a più cupe espressioni. Poi, chiuse risoluto quel voluminoso documento. «Sì... mi hai fatto faticare tanto per il tuo temperamento esuberante… Quella tua sfrenata passione per la montagna, ad esempio, mi ha messo in serie difficoltà... io, che avrei avuto la mentalità del “bancario”, avrei desiderato la tua sedentarietà, invece sono stato costretto a seguirti in difficili e pericolose scalate oltre i quattromila metri.
Tu non sai, ma io ho sempre sofferto di una forma di vertigine… non ti dico gli stordimenti, i capogiri per starti vicino… eh!... non è stato piacevole, credimi!...
Ma ho ottenuto, con i miei consigli, dei risultati, quelli sì, e sono soddisfatto dopo tutto di questi successi…».
La mia memoria sembrò svanita e la mia capacità di ragionamento quasi nulla; a questo punto riuscii solo a connettere la più elementare considerazione.
«Dunque era un mio compagno di cordata… uno dei tanti dimenticati nel tempo…» pensai rapidamente.
«No!» rispose “lui” deciso, quasi seccato «molto di più di un compagno di cordata!»
Come aveva potuto leggermi nel pensiero?... Riaprì il libro, sfogliò alcune pagine, scosse la testa come se la lettura l’avesse impressionato e, con la sua solita delicatezza, mi pose una domanda:
«Quando eri giovane hai avuto una grave malattia…».
Nella mia mente riaffiorò, immediatamente, il ricordo di “quella” malattia, come se la reminiscenza mi fosse stata infusa dal mio interlocutore. Feci un cenno di sì col capo.
«Quella malattia era terribile, ma furono in molti che contribuirono a salvarti con diagnosi precoci e tempestive, interventi validi e cure adeguate… Anch’io feci la mia parte con consigli e intromissioni nascoste su chi aveva il potere di ridarti la salute…».
A quelle parole, l’unica sensazione che provai fu un senso di abbandono, unito all’incapacità di concatenare pensieri, idee e fatti. Sentii quelle parole come in uno stato di “trance”, di sonno ipnotico, come se la mia sensibilità subisse il dominio della volontà altrui…
«Ti ho fatto veramente soffrire…» sussurrai senza rendermi conto dell’asserzione che feci ignorando ogni circostanza di intervento nei fatti descritti da quell’uomo che mi appariva sempre più strano, indecifrabile, enigmatico, irreale…
«No!... No!... Non ti preoccupare… quando le cose finiscono bene!... E, poi, pensa quanto “mondo” ho visto con te!... Tutti i Continenti, alberghi meravigliosi, luoghi incantevoli, ho conosciuto tante persone… È stato divertente per me, la tua professione…».
Le mie reazioni alle sue parole dimostrarono la mia incapacità di connessione e di coscienza. L’assurda e paradossale circostanza che stavo vivendo paralizzò completamente la mia forza di concentrare la mente su fatti e circostanze veramente vissute
Incominciai ad avvertire anche una specie di lieve dolore al fisico. “Lui” l’intuì, ma continuò: «Sei stato anche un po’ sadico…» riprese, ma la sua espressione e la sua voce erano così affettuose che denotavano un grande desiderio di rialzarmi il morale «Sì... Quando facemmo la “Maratona di New York”... ricordi?... Quegli allenamenti stressanti… e io sempre dietro a te… ti confesso che speravo ci rinunciassi…» e qui fece una bella risata, la prima risata della nostra conversazione. «No!... Non è vero!... Al traguardo ti vidi così felice che anch’ io condivisi la tua felicità!...».
Io non ero più in grado di reagire, di connettere… Rammento solo che pensai: “Non ricordo di averlo visto alla Maratona… ma a una certa età la memoria fa brutti scherzi”.
Lui di rimando: «L’età... l’età... qui non c’ entra l’età... ma hai ragione… è qualcosa che giustifica il tuo sbigottimento, la tua profonda costernazione…».
Ancora una volta aveva letto nel mio pensiero. Da quanto tempo ero seduto su quella panchina?... Da quanto tempo si protraeva la nostra conversazione?... Non riuscii a concretizzarlo. Per la prima volta quell’“uomo” guardò l’orologio, uno strano orologio senza quadrante, senza lancette, senza le ore segnate!... Ma anche questo non mi meravigliò più!... Mi accorsi che, all’improvviso, il mio interlocutore si fece triste, dimostrò una certa fretta.
«Non mi riconosci proprio?» chiese con aria interrogativa, mentre riaffiorava il suo sorriso sempre più luminoso.
La sua domanda fu posta in modo tale, come se io “dovessi” conoscerlo per forza o, almeno, intuirne il personaggio. No!... Ripeto, non riuscivo a connettere normalmente. La mia mente era inceppata dalle strane e numerose sensazioni violente che si erano verificate in quell’incontro.
«Io posso venirti incontro…» mormorò
«posso dirti che sei il mio “Affidato».
«Affidato?...» mormorai sommessamente
«che vuoi dire?...».
Sembrò improvvisamente sfavillare di gioia, esultare: sul suo viso apparve come un riverbero di luce, raggi sfavillanti che pareva potessero illuminare lo spirito, superare l’ignoranza che mi dominava. Erano raggi di speranza, di fede, di amore.
«Vuoi sapere cosa vuoi dire “Affidato”?: Ricordi una preghiera di quando eri bambino? La recitavi a memoria ma non la capivi nella sua intierezza. Ti parlavano di “Angelo Custode”, ricordi?
Per diversi anni hai creduto al “tuo” Angelo, poi, col tempo, te ne sei dimenticato, hai pensato ad una credenza infantile, ad una convenzione religiosa opinabile. Hai creduto di operare liberamente, nel giudicare il bene e il male, con la tua “coscienza”. Credevi di essere “autonomo” nelle tue decisioni…
Ma una “voce”, la voce della tua coscienza, ero io… io che chi ti ho visto nascere, crescere… ti ho protetto e ti proteggerò fino…» e qui troncò la frase.
Guardò di nuovo l’orologio, nervosamente.
Ebbi l’impressione che avesse fretta. «Sono felice che abbiamo potuto conoscerci sotto le vesti umane…» continuò «Posso confidarti una cosa?...
È un privilegio quello che ti è stato concesso, siamo “noi” che decidiamo di “presentarci” ai nostri “affidati”... Solo noi possiamo decidere e io…» e qui aprì il famoso libro «...io, rileggendo la tua vita, ho deciso di conoscerti personalmente.
Non ti illudere, sai!... Non significa che tu sia meritevole di un premio particolare… Qualcuno, Lassù, deciderà... sì... deciderà anche sulla base di questi appunti…».
E, per la prima volta, allungò una mano sulla mia spalla. Quel gesto mi trasmise una grande serenità, un senso di riconoscenza e di familiarità, come se l’avessi sempre conosciuto e mi venne spontanea una domanda:
«Posso sapere come ti chiami?...».
«Sì... “Giuseppe”... a noi viene assegnato il “secondo nome” del nostro Affidato!... Il tuo secondo nome è Giuseppe, vero?...».
«Sì...» risposi commosso. A questo punto, non guardò l’orologio, ma disse: «È l’ora!... Debbo lasciarti!... Il mio compito è finito… mi capisci, vero?... Capisci quello che voglio dire?... È stato bello vivere con te… mi mancherai!...».
«Vuoi dire che…». Mi fece un cenno affermativo col capo. Lo guardai fisso, ma senza nessun patema d’animo.
Il suo sguardo irradiava fiducia, sembrava che i suoi occhi spandessero raggi luminosi. «Ma tu, starai vicino a me anche in “questo” momento?...».
«Sì... certo… più che mai!...». Udii queste parole come un soffio. La sua figura umana andò sfumando, apparve sempre più sfuocata poi, come in una lenta dissolvenza, sparì nel nulla. Io sentii una grande debolezza, un dolore lancinante al petto e reclinai il capo… Gli occhiali caddero a terra…
Fui ritrovato, quasi subito e con gli occhiali inforcati al posto giusto!... “Giuseppe” si era occupato di me per l’ultima volta!...


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