L’oro di Ity

di

Calogero Galletta


Calogero Galletta - L’oro di Ity
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 274 - Euro 15,00
ISBN 978-8831336048

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In copertina: «Foresta equatoriale» fotografia dell’autore


I fatti e i personaggi di questo racconto sono immaginari, ogni riscontro con la realtà è puramente casuale e involontario


L’oro di Ity è il secondo libro scritto da Calogero Galletta dove il protagonista principale è Carlo Agnetta.
Sebbene il racconto sia un’opera di fantasia, esso è liberamente ispirato alla prima esperienza lavorativa dell’autore, che ripercorre le contraddizioni, le differenze ma soprattutto la bellezza di un intero continente utilizzando la geologia come filo conduttore narrativo.


L’oro di Ity


A Pietro, mio padre, che ha saputo farci
diventare quello che siamo;
a Giuseppina e a Pietro, i miei figli,
a cui spero di dare altrettanto.


I

L’autostrada che da Parigi porta all’aeroporto internazionale di Roissy è una delle più trafficate di Francia, gente che arriva da ogni parte del mondo o che parte per una qualche destinazione si ritrova su quel lembo di autostrada ogni giorno; il secondo aeroporto per numero di viaggiatori d’Europa è un immenso complesso di cemento armato voluto dal generale De Gaule per mostrare a tutto il mondo cosa significasse la “Grandeur” francese, ossia quello stato d’animo che ha fatto della Francia una punta del mondo occidentale. Il taxi procedeva lento dietro la coda di automobili che cercava di entrare e trovare posteggio nell’aereoporto.
– Mi può ripetere la sua destinazione?
– Abidjan, Costa d’Avorio.
– Allora entrata 3, da lì si va per tutto il continente Africano… e si può sapere cosa va a fare in Costa d’Avorio?
Carlo fece un lungo sospiro e disse:
– Se glielo dico non mi crederà.
– Provi lo stesso.
– Vado a lavorare in una miniera d’oro.
Il tassista lo guardò dallo specchietto retrovisore e vedendolo sorridere credette ad uno scherzo, accennò ad una specie di smorfia che doveva coincidere ad un sorriso e riprese a concentrarsi sulla strada.

– Monsieur Agnetta, potrebbe venire nel mio ufficio, devo parlarle.
Chiudendo la porta del suo ufficio Bonval indicò la poltrona di pelle che stava di fronte alla sua scrivania, invitando il suo ospite a sedersi.
Mentre Carlo si accomodava, vide Jean Claude Bonval dirigersi verso lo scaffale della biblioteca, ne prese un fascicolo e andò a sedersi al suo posto.
Carlo riconobbe la sua tesi di specializzazione ed ebbe come un fremito nella schiena.
Con grande sforzo aprì bocca e chiese:
– C’è qualcosa che non va in quello che ho scritto?
Bonval capì la sua agitazione e con un sorriso iniziò col dire:
– Non si preoccupi, dopodomani farà il suo esame, l’ho fatta venire perché avevo qualche domanda da farle…, dopo la specializzazione ha già idea di dove andrà a lavorare?
– Ancora no, ho preso gli indirizzi che si trovavano in segreteria e sto preparando un curriculum vitae da spedire, poi vedrò.
– C’è una cosa che non le ho ancora detto, a parte il mio lavoro qui all’università, ho un ufficio di consulenza geologica dove lavorano tre geologi, un chimico e un ingegnere civile.

Bonval fece una pausa di qualche secondo dove sprofondò nella poltrona e, con la tesi di Carlo in mano, iniziò a sfogliarla. Dopo essersi soffermato sulle immagini dei granuli di oro prese con il microscopio a scansione, riprese il suo discorso dicendo:
– È molto interessante quello che lei ha scoperto, e vorrei proporle di recarsi sul sito a verificare di persona; cosa ne dice?
Carlo non credeva alle sue orecchie, Bonval che gli proponeva di andare in Africa… l’Africa, il sogno di ogni geologo, dove avrebbe messo in pratica le sue ricerche.
Con un grande sorriso e con l’espressione del viso raggiante rispose:
– Dico che la proposta è molto interessante, ma prima di rispondere posso farle una domanda?
– Tutte le domande che vuole…
– Cosa si aspetta da me?
– Sarò diretto, – iniziò col dire Bonval, – ho notato che lei ha una predisposizione per la petrografia, me ne sono reso conto durante il corso e volevo sapere se è disposto a continuare a lavorare con me. Vorrei mandarla in Africa con un piccolo contratto, diciamo che sarà il suo periodo di prova, dopo, al suo ritorno, deciderà se voler continuare con me oppure no.
– Quanto tempo ho per riflettere?
– Ora e subito, prendere o lasciare, sul sito hanno bisogno di qualcuno… se lei non vuole andare, chiederò a qualcun altro…
In quel momento si sentì il cuore battere all’impazzata, era così agitato che dovette alzarsi dalla poltrona, iniziò a guardarsi tutt’attorno, fissava i minerali posti sui ripiani della grande libreria quasi a cercare una risposta in quelle forme e in quei colori che lo affascinavano; sentiva su di sé gli occhi del vecchio professore che aspettava una risposta che tardava ad arrivare. Voleva dire di sì, ma una quantità enorme di pensieri lo assillava stressandolo ancor di più… prima di dare la sua risposta avrebbe voluto parlare con suo padre, per sapere cosa ne pensava e magari condividere con lui la bella notizia…
Aveva seguito con lo sguardo i vari ripiani della biblioteca e i suoi occhi avevano fissato ogni cristallo presente nella grande stanza, ma nessuno lo aiutò a dare una risposta, quella risposta doveva venire soltanto da lui, e quando finalmente il suo sguardo incrociò quello di Bonval che non lo perdeva di vista, rispose:
– Accetto…, quando dovrei partire?
Bonval si alzò dalla scrivania, si diresse verso un armadio e tirò fuori un fascicolo da dove prelevò un modulo.
– La partenza è fissata per il 15, così avrà il tempo di finire l’esame e andare a casa sua se vuole, questo è il contratto, se lo legga e mi dica cosa ne pensa.

Carlo iniziò a leggere il foglio con le mani tremanti, era il suo primo contratto di lavoro, il primo documento che provava che una ditta aveva bisogno di lui, delle sue conoscenze, della sua laurea e della sua specializzazione. Percorse quelle righe con una certa attenzione, dai dati anagrafici fino alle clausole, dove si precisava che il vecchio Bonval si aggiudicava tutti i diritti sulle scoperte del suo dipendente. Nessuna pubblicazione poteva essere fatta senza la sua autorizzazione e senza il suo nome. Il contratto stipulava anche lo stipendio e le spese che la ditta Geoconcept, studio geologico di proprietà di Jean Claude Bonval, doveva versare al neodipendente.
Dopo avere letto tutto il documento e con la mano tremante, prese la penna che stava sul porta penne della scrivania del professore e firmò in basso a destra…

Un colpo di clacson delle auto in fila lo riportarono alla realtà.
Dopo circa mezz’ora di coda il tassista si fermò davanti all’entrata dell’imbarco numero 3 e scendendo dall’auto aiutò il suo giovane cliente con le valigie.
Carlo pagò la corsa e si diresse verso il check-in. L’aereoporto era immenso, tanto grande che bisognava seguire le indicazioni con una certa attenzione per non perdersi e dopo alcuni colpi d’occhio si diresse verso l’imbarco.
Porse il biglietto, il passaporto fatto in fretta e furia al consolato italiano, il certificato delle vaccinazioni fatto al presidio medico militare di Nancy, consegnò le valigie e si diresse verso l’entrata dell’imbarco.
Carlo sedette in una delle poltrone ad aspettare la partenza, l’imbarco era pieno di africani, i bianchi erano pochi e si guardavano l’un l’altro.
Le donne africane erano vestite con gli abiti tradizionali dai colori vivaci e bellissimi, erano alte, slanciate e con un corpo felino che veniva modellato dalle stoffe dei loro abiti multicolorati!
Tutti aspettavano il momento della partenza con una certa impazienza, chi cercava di leggere le riviste messe a disposizione, chi correva dietro ai bambini che scalciavano in tutte le direzioni, chi invece seduto al bar beveva e chiaccherava con qualcuno.
L’attesa durò quasi un’ora, poi l’altoparlante annunciò la partenza del volo Air France Parigi-Abidjan e una marea nera cosparsa da qualche punto bianco si avviò verso la passerella d’imbarco; un enorme Boeing 747 iniziò a riempirsi di quella fiumara multicolore.
Carlo si diresse verso il suo posto, aveva chiesto un posto vicino al finestrino, ma l’unico che riuscì a trovare fu nel corridoio centrale in mezzo ai neri visto che il suo era un biglietto economico, quasi tutti i bianchi erano invece in prima classe e così si ritrovò seduto in centro vicino ad un vecchio africano vestito con una lunga tunica marrone con in testa un copricapo fatto di perline colorate e una bibbia in mano.
Le porte dell’aereo vennero chiuse e iniziò la procedura di decollo.
Nel preciso istante in cui il velivolo iniziò a muoversi, il suo vicino aprì la bibbia e iniziò una cantilena in un linguaggio incomprensibile, aveva lo sguardo impaurito e tremava come una foglia. Ad ogni sbalzo dell’aereo la sua voce si alzava di un tono, tanto che quando l’aereoplano si trovò sulla pista con i reattori al massimo, l’uomo chiuse gli occhi e lanciò un grido quando il decollo avvenne.
Le assistenti di volo che lavoravano sugli aerei diretti per l’Africa erano oramai abituate alle strane reazioni dei passeggeri africani, tanto che nessuna venne a controllare chi o perché avesse fatto quel grido.
La litania recitata da quel povero vecchio durava già da un bel pezzo ed era così straziante e costante che Carlo con il capo basso e le mani sulle orecchie si fece coraggio e cercò di parlargli:
– Non abbiate paura… tutto andrà bene… questi sono aerei solidi…
– Ma io avere paura!!! paura di cadere… paura di morire…
– Ma no! Non muori…
Non riuscì a finire la sua frase che un vuoto d’aria diede uno scossone tanto violento all’aereo che l’uomo riprese la litania ancora più forte, con lo sguardo ancora più perso e tremando sempre di più; vedendo che niente o nulla lo avrebbe convinto a smettere, Carlo si alzò.
Muovendosi con una certa difficoltà nel corridoio per non calpestare gli innumerevoli pacchi, pacchetti, sacchetti ammucchiati qua e là riuscì ad avvicinarsi verso una delle hostess che stava servendo del caffè.
– Mi scusi, ma avrei una preghiera da farle…
La donna lo guardò con un sorriso, finì di servire un viaggiatore e rispose:
– Mi dica, c’è qualcosa che non va?
– Mi potete cambiare di posto? Non ce la faccio più a restare lì dove mi avete messo.
– Qual è il vostro posto?
Carlo con l’indice indicò il vecchio che si contorceva nella poltrona recitando chissà quale salmo o preghiera accompagnandosi con dei movimenti della testa; la donna si sforzò per non scoppiare a ridere e disse:
– Mi lasci controllare, e così dicendo si allontanò verso la cabina di pilotaggio.

Carlo rimase in piedi nel corridoio con il capo basso fino al ritorno della donna. Questa non si fece attendere più di cinque minuti e riapparve da dietro la tenda che separava la zona economica dalla prima classe. Con un gesto della mano gli fece segno di avvicinarsi:
– Ci sono alcuni posti liberi in prima classe, se vuole può sedersi lì per tutto il viaggio, ma prima di atterrare deve ritornare al suo posto.
– Va bene accetto.
La poltrona della prima classe gli sembrò più comoda, più grande e soprattutto meno rumorosa di quella economica. Sembrava che la tenda separasse due mondi distinti e distanti migliaia di anni luce l’uno dall’altro.
Carlo cercò di trarre profitto dalla nuova situazione, chiuse gli occhi e cercò di dormire, il viaggio sarebbe durato quasi sette ore e volle riposarsi un po’ prima dell’arrivo.
Il boeing aveva appena lasciato le zone desertiche sahariane e stava sorvolando la savana quando un sussulto provocato da un vuoto d’aria lo fece svegliare di soprassalto. Alzò lo sguardo verso il pannello che indicava la posizione geografica dell’aereo e si accorse di avere dormito per almeno tre ore, quando si addormentò era ancora in Francia e si era perso il salto del Mediterraneo e tutta la zona sahel algerino. Il pannello stava indicando una zona di confine tra il Mali e l’Algeria e mostrava la direzione che l’aereo doveva prendere per continuare il viaggio, dal Mali scendere verso il Burkina Faso e infine la Costa d’Avorio.
Si riprese dal sonno dopo qualche stiramento e vedendo una delle assistenti di volo chiese qualcosa da bere.
Il volo stava giungendo al termine quando la hostess che lo aveva fatto cambiare di posto gli chiese di ritornare nella zona economica. Carlo si alzò e ritornò verso i suoi passi cercando un’altra volta di farsi strada in mezzo ai bagagli disseminati lungo il corridoio; man mano che si avvicinava vide che l’uomo della cantilena non si muoveva più, aveva il capo poggiato sulla spalla destra e sembrava che dormisse. Con molta attenzione cercò di non svegliarlo e alzando le sue gambe il più possibile riuscì a sedersi e ad allacciarsi la cintura.
L’atterraggio venne eseguito con grande maestria del pilota, tanto che il vecchio rimase addormentato per tutto il tempo e stranamente non si svegliò nemmeno quando la hostess passandogli vicino rialzò lo schienale del sedile prima della discesa.
Carlo iniziò a dargli dei colpetti sulla spalla per svegliarlo ma non ebbe nessuna risposta, tanto che si preoccupò e cercò di chiamare l’assistente di volo.
La donna attese che il corridoio si fosse svuotato e si avvicinò.
– Dorme ancora?
– Non riesco a svegliarlo.
– Ah! Credo di aver sbagliato la dose, – disse la donna, – dopo il suo cambio di posto aveva iniziato a piangere e disturbava tutti gli altri, così con la scusa di un bicchiere d’acqua gli ho dato 30 gocce di Valium… certe volte siamo costretti a calmare i passeggeri come lui…

Carlo si alzò dal suo posto lasciando il vecchio addormentato, si girò un paio di volte nel corridoio e scoppiò in una risata quando incrociò lo sguardo della hostess che gli sorrideva in modo colpevole, alzò la mano per salutarla e si diresse verso l’uscita.
Mise un piede sulla passerella e credette di svenire, gli mancò l’aria tanto non riusciva a respirare, dovette rimanere per qualche istante tenendosi alla ringhiera, ebbe l’impressione che un peso di svariate centinaia di chili gli fosse caduto addosso. Con grande sforzo iniziò a scendere la scala e arrivò a toccare il suolo con il fiatone, l’atmosfera era così strana e l’umidità così opprimente che rallentava ogni suo passo, era come se le molecole di aria fossero più grandi delle narici e non riuscissero ad entrare nei polmoni.
Iniziò a camminare in direzione dell’aeroporto con un passo estremamente lento, ad ogni passo sembrava che lo stabile si fosse allontanato piuttosto che avvicinarsi; non era il solo in quello stato, gli altri europei che erano scesi prima di lui erano solo a qualche metro e stentavano anche loro a camminare.
Dopo una breve pausa e facendosi coraggio strinse la cinghia dello zaino che aveva in spalle e riprese il cammino fino alla zona internazionale dell’aereoporto.
Riuscì ad aprire la porta con una certa difficoltà, entrando si accorse che non c’era l’aria condizionata.
Si mise in fila con gli altri viaggiatori e attese il suo turno alla dogana.
Le pratiche doganali venivano eseguite rapidamente per i bianchi, arrivati davanti all’addetto bastava mostrare il passaporto con il visto e il libretto sanitario con le vaccinazioni, poi un rapido controllo dei bagagli che si limitava ad aprirli e richiuderli quasi subito; tutt’altra cosa era invece per gli africani; i loro bagagli venivano svuotati e controllati uno per uno e quando il doganiere capiva che il connazionale che rientrava aveva con sé diversi oggetti di valore cercava una scusa per trattenerlo:
– Queste cose sono proibite… devi andare in ufficio…
Il malcapitato prendeva il suo sacco e le sue cianfrusaglie e si dirigeva verso l’ufficio del superiore; ne usciva qualche tempo dopo, lasciando metà della sua roba oppure semplicemente pagando la tassa, soldi che finivano nelle tasche degli addetti ai lavori del giorno.
Carlo osservava con attenzione il via vai delle persone mentre era in fila, per lui la dogana fu una semplice formalità, il doganiere quando vide il suo nome fece un gran sorriso mostrando tutti i suoi denti bianchi e ben curati, era stato avvertito che un giovane europeo dal nome Agnetta sarebbe arrivato quel giorno e se lo lasciava tranquillo c’era una busta che lo aspettava al punto informazioni.
Il funzionario si alzò dalla cabina e disse:
– Venite con me, – portandosi dietro il suo passaporto.
Carlo rimase un po’ perplesso dal suo atteggiamento e disse:
– Ehi un momento, dove dobbiamo andare? Ehi? il mio passaporto!
L’uomo gli indicò lo stand informazioni dicendo:
– Un uomo ti aspetta.
Là un uomo alto e magro era in attesa appoggiato al bancone, e quando vide Carlo con il doganiere alzò la mano per farsi vedere.
Carlo e il doganiere si avvicinarono a quell’uomo che li accolse con un sorriso:
– Benvenuto in Africa ragazzo, disse porgendo una busta al doganiere.
L’africano aprì la busta e contò i biglietti, dopo essersi reso conto che i patti erano stati rispettati restituì il passaporto e si allontanò.
La scena si svolse davanti a tutti, i bianchi pagavano, i neri intascavano e tutti erano contenti.
Carlo guardava l’uomo con una certa apprensione, dopo qualche secondo di silenzio disse:
– Lei è Henry Leroux?
– No.
– Michel Palavas?
– No, né l’uno né l’altro, io mi chiamo Joël e mi hanno chiesto di venirti a prendere e di accompagnarti in albergo, Palavas e Leroux non sono potuti venire, loro sono a Ity…
– Mi scusi, ma non era più facile farsi trovare davanti l’uscita con un cartello, piuttosto che pagare quell’uomo?
– Senti ragazzo, cerca di capire una cosa, qui non siamo in Europa, e se c’è una categoria di persone da cui ti consiglio di stare alla larga sono tutti quelli che indossano una divisa, se non avessi pagato quell’uomo, tu in questo momento saresti dentro a quell’ufficio e saresti uscito solo dopo aver pagato quello che ti chiedevano… ma adesso andiamo, la strada per Abidjan non è delle migliori e preferisco farla di giorno.
Dopo avere recuperato i bagagli i due lasciarono l’aeroporto e si diressero verso la città.
– Il viaggio è andato bene?
– Sì, tranquillo.
– Per quanto tempo rimarrai?
– Dipende dalle ricerche, ma se tutto va bene almeno un anno.

La strada era disseminata di buche, tanto che l’autista doveva fare molta attenzione mentre guidava; dopo qualche minuto la città di Abidjan apparve e una cosa saltò subito all’occhio del giovane geologo, era una metropoli sproporzionata con un centro composto da grattacieli e man mano che lo sguardo si spostava verso la periferia, le case lasciavano il posto alle baracche della “bidonville”.
La macchina iniziò a farsi largo nella città, strade piccole e grandi si avvicendavano le une con le altre e tutte erano piene di persone che camminavano con un’aria strana sul viso, come se andassero in giro senza una meta precisa, come se si fossero perse e malgrado ciò continuassero il loro cammino.
I due si fermarono davanti l’entrata dell’albergo, Joel accompagnò Carlo alla reception e chiamò l’impiegato.
– Salut Serigne.
– Salut Joël, come mai da queste parti?
– Mi hanno chiesto di accompagnare questo giovane, ci deve essere una prenotazione a nome suo oppure a nome della miniera di Ity, potresti controllare?
– Certo, mi dica il suo nome.
– Carlo Agnetta.
L’impiegato iniziò a sfogliare il registro delle prenotazioni e dopo qualche giro di pagina fermò il suo dito su di una linea.
– Agnetta ha detto? Sì, c’è una prenotazione a nome suo, e girando il registro verso il nuovo ospite dell’albergo disse: “firmi qui”.
– Bene, io ho finito il mio lavoro, te lo affido Serigne, domani in mattinata dovrebbe arrivare qualcuno a cercarlo.
Così dicendo tese la mano all’impiegato che si affrettò a stringerla, non certo per cortesia ma per recuperare i biglietti che Joël vi aveva nascosto nel palmo della mano.

Carlo salì in camera accompagnato dal cameriere, arrivati nella stanza diede una moneta al ragazzo e si lasciò cadere sul letto; da quando era arrivato in albergo aveva l’impressione di sentirsi meglio, l’aria condizionata che sentì al suo arrivo nella hall iniziò pian piano a rimetterlo in sesto; rimase sul letto per quasi mezzora, poi aprì la sua valigia e tirò fuori dei vestiti puliti.
Entrò nella doccia e si lasciò cullare dall’acqua tiepida, questa ebbe l’effetto desiderato, lo rimise di buon umore e tolse la fatica del viaggio.
Dopo essersi vestito stava lasciando la stanza quando ebbe voglia di parlare con Carole, di raccontarle il viaggio, del vecchio che pregava, della dogana, dell’aria pesante e di tutte le sue prime impressioni; prese il telefono che stava sul comodino e chiese la linea.
Il telefono squillò per diversi istanti prima che qualcuno rispondesse.
– Alô!
– Oui Alô, buongiorno signora potrei parlare con Carole?
– Carole non c’è in questo momento…
– Potrebbe dirle che Carlo ha telefonato e che richiamerò più tardi?
– Va bene, arrivederci.
Riattaccò la cornetta e restò ad osservare il telefono, ebbe l’impressione che qualcosa non andasse anche se non capiva cosa, era come se un particolare gli stesse sfuggendo, ma si riprese quasi subito, scacciò il pensiero cupo e si ripromise di ritentare più tardi, Carole era sicuramente uscita e da lì a poco sarebbe rientrata.
La sua partenza per il Venezuela era prevista per il mese di settembre, e dopo l’esame che aveva superato a pieni voti era rientrata a casa sua a Marsiglia.
Uscì dalla sua stanza e si diresse verso la hall dell’albergo, era quasi ora di cena e andò a sedersi a uno dei tavoli del ristorante. Mentre aspettava di essere servito il suo sguardo iniziò a girovagare in tutte le direzioni, dall’arredamento del ristorante ai colori dei vestiti dei camerieri: non si lasciava sfuggire il minimo particolare, il tutto era studiato per dare un certo confort al visitatore di passaggio cercando il più possibile di amalgamare l’Africa con l’Europa. L’arredamento della sala da pranzo era fatto di legni pregiati africani di ebano nero e di iroko rosso sangue; i tavoli erano delle grandi placche di legno a dimostrare che gli alberi da cui provenivano dovevano essere enormi. Il suolo di marmi policromi era ricoperto da tappeti multicolori e da pelli di animali selvatici, tra cui Carlo riconobbe il pelo di un paio di gazzelle e di un leone; appese sui muri tra le tele di juta con disegni di donne e guerrieri africani si trovavano delle zanne d’elefante.
Mentre era occupato nelle sue osservazioni un cameriere gli porse la lista dei piatti che l’albergo proponeva ai suoi ospiti, dalle ricette tipiche della cucina francese si andava ai piatti africani oppure alla semplice pizza. Carlo aveva una certa curiosità naturale che lo spingeva ad andare oltre le semplici apparenze dei luoghi che visitava, per questo si lasciò tentare da uno dei piatti locali, scelse il pesce alla manioca con salsa di arachidi e una bottiglia d’acqua.
L’attesa durò giusto il tempo di aprire la bottiglia e di berne un bicchiere, che il cameriere gli porse un piatto con un pesce enorme cotto alla griglia accompagnato da una specie di purea colore avorio, il tutto sommerso da una salsa colore marrone scuro.
Osservò divertito quella pietanza che sprigionava un odore forte e acre al tempo stesso.
Volle iniziare con la purea di manioca, prese la forchetta e cercò di prelevarne un boccone ma questa era così appiccicosa che bisognava tagliarla con il coltello, dopo diversi tentativi riuscì a liberarne una forchettata e se la mise in bocca.
Sarà stata una dimenticanza dello chef oppure un attentato al palato dei poveri malcapitati, ma la salsa di arachidi era così piccante che dovette sputare il boccone nel tovagliolo per non soffocare.
Ritentò dopo essersi ripreso dal primo attacco con un pezzo di manioca senza salsa, il sapore era tanto insignificante quanto disgustoso e aveva una strana consistenza, sembrava avesse in bocca un batuffolo di cotone che si agglomerava sempre più con la saliva tanto da non riuscire a deglutire.
Alla fine si consolò con il pesce, lui almeno aveva le carni bianche e ricche di sapore, aveva un gusto particolare che non aveva mai provato prima. Lo divorò e questo gli fece dimenticare l’orribile inizio del suo primo pasto nel continente Africano.
Finita la cena fece un giro al bar, chiese un’acqua tonica e andò a sedersi nella terrazza, la serata era calma e l’aria sembrava meno umida; rimase lì seduto a osservare le persone che andavano e venivano per un tempo indefinito, poi finito il bicchiere decise di andare a riposarsi e ritornò sui suoi passi verso la sua stanza.
Si tolse i vestiti e si lasciò cadere sul letto, guardò l’orologio, erano quasi le undici di sera, a Marsiglia erano quasi le otto di sera viste le tre ore di differenza, il suo pensiero volò nuovamente verso l’unica donna che era riuscita ad entrare nella sua vita e in quel momento fu preso da una strana sensazione di malinconia; scacciò di nuovo quel pensiero e riprese la cornetta del telefono.
La stessa voce di prima rispose dopo qualche squillo:
– Alô?
– Buonasera signora, sono Carlo, ho telefonato qualche ora fa, potrei parlare con Carole?
– E… Carole… non è qui…
Carlo si alzò di scatto dalla posizione supina e si sedette sul bordo del letto, ancora una volta ebbe la stesse impressione di prima ma questa volta riuscì a focalizzare quale fosse il problema, il tono della voce era incerto, tremante, come quando si cerca una scusa all’ultimo momento ma l’emozione tradisce. Rimase con il telefono attaccato all’orecchio per qualche secondo e disse:
– Mi potrebbe dire quando posso richiamare? Avrei qualcosa da dirle.
– Ma… non so… riprova domani.
Carlo non diede nessuna risposta, chiuse il telefono e si lasciò ricadere, chiuse gli occhi e cercò in fondo alla sua memoria gli ultimi momenti trascorsi con Carole, ebbe l’impressione che la ragazza fosse in casa ma si facesse negare e volle ripercorrere quegli istanti uno per uno quasi fossero i fotogrammi di un film, finché una vocina dall’interno del suo cranio iniziò con il dirgli: “ma che vai a pensare?… stai diventando paranoico… non c’è… punto e basta, …è uscita e magari farà tardi e sua madre non voleva fartelo capire… lei si immagina che sei un siculo geloso e possessivo… che l’avresti presa male… non te la prendere”.

Riuscì ad addormentarsi solo quando quella vocina si spense dopo una serie di spiegazioni, le une più fantasiose e improbabili delle altre, e cadde in un sonno profondo, un po’ per la fatica del viaggio, un po’ per gli ultimi pensieri che ebbero come effetto di spossarlo ancor di più.

[continua]


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