Con questo racconto è risultata 6^ classificata – Sezione narrativa alla XIV edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2009
Questa la motivazione della Giuria: «Passione e ragione convivono in un vortice di emozioni nell’ardente sangue messicano di Teresa, che pur di essere amata accetta passivamente la violenza fisica e verbale del suo uomo, inconsapevole di ripetere le stesse modalità esistenziali della madre. L’amore deve sconvolgerla, appassionarla, ucciderla: ed è in una trance onirica provocata da un incidente, che i suoi ricordi tornano addirittura ad una vita precedente, nella quale Teresa si rivede vittima sacrificale dei maya. La violenza terrificante del suo uomo che può portarla a morte sicura le appare allora vile, assurda, e in un miracolo sfolgorante Teresa sfugge alla sua terribile morsa e riacquista d’improvviso la dignità di donna intelligente che le spetta. Nel caos dei sentimenti più contrastanti, nei temi della metempsicosi e nella forza narrativa colma di colpi di scena, si assiste alla rinascita di una donna vera, ardente, e libera, una nuova Teresa». Alessandra Crabbia
Teresa & Teresa
L’ultima sera della sua vita Teresa Gutierrez si preparò con particolare cura e come sempre, guardandosi davanti allo specchio, si perse dietro a pensieri che avevano la proprietà misteriosa di dividersi e ramificarsi all’infinito. Sarà perché sono un misto razza – si diceva indossando in modo frenetico uno dopo l’altro tutti i vestiti di cui disponeva per poi buttarli sul letto – che non riesco proprio ad avere un solo punto di vista, vado avanti a zig zag come i nomadi, un’idea poi un’altra, sì, no, andare, tornare, perdermi, ritrovarmi, insistere, smettere…e se mi mettessi un semplice paio di jeans? Metà romana e metà messicana, Teresa conosceva l’arte di vivere in bilico: l’aveva esercitata a lungo barcamenandosi tra i palazzi senza ascensore di Centocelle ed i vicoli aristocratici del centro di Roma. Si lasciava alle spalle una madre intenta ad accendere candele e pregare la Madonna di Guadalupe in strettissimo spagnolo; si trovava davanti un fast food che odorava di patatine fritte, ragazze in pantaloncini corti che parlavano altre lingue e giovani con la chitarra e i capelli rasati a zero. E lei, che aveva il trucco pesante ed il sorriso stanco, nel porgere il vassoio, a volte, sognava di essere come loro, leggera come un alito di vento, altre invece, specie quando aveva bisogno di coraggio, imitava con convinzione la mamma recitando un rosario. Rigorosamente in italiano. Allora i suoi occhi scuri si facevano più intensi, rinvigoriti da una luce ribelle, la stessa che le brillava ora sul viso, mentre allontanava i riccioli neri dalla fronte e si ammirava allo specchio, in lungo, in corto, in pantaloni e si sentiva sospesa, una ballerina persa in un tango appassionato, in equilibrio disordinato tra la vita e la morte.
La vita erano le mani possenti del suo uomo, tenere nella follia dell’amore, carezzevoli e supplici nell’estasi dell’abbandono, la morte erano quelle stesse mani quando diventavano altre e tiravano fuori la rabbia e la gelosia. Allora lui la colpiva sul volto, sul corpo, sulle cosce e lei piangeva e supplicava e cercava di fuggire. Fosse stata un maschio, avesse avuto in corpo quella stessa forza bruta, avrebbe accettato la sfida e si sarebbe gettata nel duello, avrebbe ribattuto e picchiato il mostro come faceva sua madre con i tappeti, nei giorni di primavera. Invece no, era solo una donna innamorata e si difendeva con i dinieghi, le assenze, le lacrime, gli addii, tanto veniva sempre il giorno del ritorno, le scuse, l’invito a cena, i baci appassionati.
Era una di quelle sere e Teresa si sentiva di nuovo legata ad un filo, con i suoi vent’anni passati da un pezzo, il lavoro precario a due passi dal Pantheon ed il sogno nel cassetto di un futuro da interprete, lei che conosceva due lingue e ne usava una sola, più male che bene. Il bivio era sempre in agguato: doveva andare avanti, incontrare il suo uomo di nuovo, perdersi in un amore impossibile o non sarebbe stato meglio girargli definitivamente le spalle, smetterla di pregare per il miracolo, prendere coscienza del fatto che nulla sarebbe cambiato e scrivere la parola fine? Teresa, quale Teresa avrebbe vinto questa volta: la passionale o la razionale, l’adolescente invaghita o la coscienziosa signorina per bene? Decise alla fine di uscire, dopo un ultimo sguardo allo specchio per sentirsi sicura: abito di lino color del cielo, trucco discreto, capelli raccolti come piaceva a lui.
Faceva caldo quella sera a Roma, erano già passate le undici ma si sentiva ancora sul corpo e sull’asfalto il calore del isole di mezzogiorno. Al telegiornale avevano annunciato che erano stati superati i 45 gradi, la temperatura più alta degli ultimi tre secoli e il sangue messicano di Teresa ribolliva e godeva di un languore atavico. Aveva voglia di fare l’amore, di perdersi tra le braccia del suo uomo, di sentirsi desiderata.
Era come se avesse perso il contatto con la realtà, il corpo volava, sospeso in un’atmosfera irreale che la rendeva diversa. Nel cielo la luna piena circondava di una luce azzurrognola i palazzi ed i marciapiedi. Non c’era nessuno in strada, non un rumore, non una nota stonata. Improvvisamente avvertì come una specie di terremoto, un rotolare di oggetti deciso come un rullo compressore e fu proprio in quel momento che nell’aria si diffuse una musica che ben conosceva, il ritornello di “Jingle bell” e le sembrava, sì, poteva essere, la suoneria di un telefonino. Si girò di scatto e lo vide. Prima solo una sagoma indistinta vestita di una tuta abbagliante arancione, alla fine un uomo dalla struttura tozza ed al tempo stesso vigorosa: un marsigliese pensò d’istinto.
Il netturbino viaggiava in piedi, con disinvoltura, tenendosi con la mano destra alla parte posteriore di un mezzo di servizio dell’Ama, dal quale scendeva per attaccare i cassonetti alla pala meccanica che li avrebbe alzati, rigirati e svuotati dei rifiuti. «Buon Natale» le urlò l’uomo passandole vicino e mandandole un bacio. D’un tratto, non si spiegò nemmeno come, se lo ritrovò accanto. Sentiva il sudore sulla sua pelle. C’era qualcosa in lui, nello sguardo complice, nel sorriso disarmante, qualcosa che andava al di là del presente e del conosciuto ma fu solo quando gettò per terra con un movimento istintivo il sigaro che teneva in bocca, come se fosse stato un ostacolo tra di loro, che un brivido le accarezzò la schiena
«Che ci fai qui, tutta sola, con questo caldo?» sussurrò alla fine il vagabondo eroe metropolitano guardandola negli occhi. Con intensità. Aveva una voce forte e melodiosa. Carezzevole. Ora che lo vedeva meglio, Teresa ne valutava la statura ed il torace da uomo abituato alle palestre, avvertiva il suo sguardo spregiudicato scivolarle addosso mentre si lisciava i baffi sorridendo e lo immaginava incline ad avventure notturne e misteriose, come un gatto che scivola silenzioso sui marciapiedi a caccia di topi. Forse trent’anni o giù di lì, occhi decisi che avevano conosciuto il bene ed il male scegliendo d’impeto da che parte stare, senza concedersi il lusso di esitare. Ne sentì la forza. Non riusciva ad emettere sillaba ma era travolta dall’emozione che le saliva in gola, pronta ad esplodere. Era presa dalle spalle forti del suo interlocutore, dalla sensazione che sentiva filtrare tra le loro pelli. «Ho un appuntamento» bisbigliò alla fine e mentre parlava arrossiva e si sentiva sciocca, ma continuava a guardarlo come ipnotizzata.
«Claudio» disse lui e allungò la mano.
«Teresa» rispose lei porgendo di rimando la sua. Rimasero a guardarsi senza parlare. Fu un lampo. L’uomo la attirò a sé come era scritto e la baciò con trasporto. Teresa non oppose alcuna resistenza. Lo lasciò fare chiudendo gli occhi ed assaporando quelle mani forti che avevano preso a trovarsi ovunque sul suo corpo. L’incontro imprevisto la eccitava come non le era mai successo prima o forse era solo il caldo o la luna piena. Poi improvvisamente ricordò chi era. La Teresa adulta tornò in sé e lo scansò con forza, quasi con rabbia.
«Devo andare» disse con un filo di voce. Colpevole.
L’uomo fece un passo indietro come punto da un insetto e se ne andò penzoloni dietro il mezzo dell’Ama. «Domani sarò qui, alla stessa ora» le gridò ritrovando quell’aria spavalda che l’aveva conquistata. Teresa ci mise un minuto per tornare con i piedi per terra, liberarsi dall’emozione, permettere al cuore che batteva fuori sincrono di ritrovare il ritmo, giusto il tempo per sentire una mano callosa sbattere con violenza sul suo viso. Non un colpo solo, ma botte che arrivavano da tutte le parti.
«Zoccola, sei una zoccola, lo sapevo. Te la fai con gli spazzini. Stavolta t’ammazzo. T’ammazzo».
Teresa cercò di scappare, ma non riusciva a stare in piedi. Ad ogni colpo sentiva la testa che andava per conto suo con un ronzio disperato, un dolore acuto, come se il cervello e tutto il resto si spostassero da una parte all’altra del cranio, spinti da una forza inarrestabile.
«Michele calmati. È stato solo un bacio. Non volevo. Non ho fatto nulla» gridava disperata, ma le parole le uscivano sempre con meno forza. Cadde a terra, cercò di spostarsi carponi, ma non riusciva a combattere contro quella furia. L’uomo che aveva amato prese a darle calci, violenti, al ventre ed anche alle spalle. Appena si spostava le arrivava un colpo, davanti, di dietro, sulla nuca, sul volto.
“«Dicevi di amarmi, dicevi che ero pazzo ad essere geloso, invece avevo ragione, sei solo una troia. Una messicana troia. Guarda come sei conciata per incontrare quello».
Se la prese con il vestito, glielo strappò di dosso. Teresa adesso era quasi nuda, sdraiata per terra, con solo la biancheria intima. Lui le girava e le rigirava il corpo con le pedate e lei piangeva, sentiva male dappertutto. Cominciava ad uscirle sangue dal naso.
«Ti prego, smettila», bisbigliò in un lamento.
«Dillo, dillo che sei una grandissima troia. Dillo, chiedimi perdono. Se non lo fai t’ammazzo».
Teresa gemeva ed era tutta bagnata di lacrime, sangue ed urina. Non aveva via d’uscita.
«So..no una gran…dissi…ma tro…ia- ripeteva piangendo-, una gran…dissi……» ma non riuscì a finire la frase, improvvisamente tutto era diventato nero intorno a lei ed anche il frastuono delle percosse sembrava lontano. Chiuse gli occhi. Le sembrò di vederlo mentre le sputava addosso con rabbia e si allontanava. Poi lo sentì ritornare e piangere disperato, sdraiato a terra accanto a lei.
«Teresa, Teresa, perdonami. Amore, non mi lasciare, non morire».
Il giorno dopo, lo sapeva, il suo sorriso incerto sarebbe apparso sulle prime pagine dei quotidiani, accanto all’espressione rude e disfatta di Michele. Sua madre avrebbe acceso disperata centinaia di candele alla Madonna di Guadalupe e l’uomo arancione l’avrebbe attesa invano. Ora Teresa aveva freddo e voglia di piangere, tremava come se stesse per arrivarle un febbrone da cavallo. Eppure, ne era certa, tra un istante avrebbe incontrato gli angeli e sentito i violini, ci sarebbe stata la processione dei santi e le anime dei suoi avi sarebbero arrivate a prenderla per mano e condurla, con delicatezza, verso il Paradiso. Così le aveva spiegato la madre era l’Aldilà, niente altro che una vita dopo la vita, un susseguirsi di vite, allietate dalle meraviglie della pace, in una beatitudine di incontri e di misteri svelati. Intorno a lei invece solo silenzio. Nel dubbio mosse una mano, ma cadde nel vuoto e scivolò, scivolò, scivolò in una specie di vortice buio.
Quando riaprì gli occhi non era più lei: era prigioniera di un altro corpo, quello di un’adolescente, quindici anni o giù di lì. Una sensazione allucinante. Sentiva come Teresa Gutierrez, era Teresa Gutierrez ed allo stesso tempo era una giovane sconosciuta immersa in un bagno aromatico, all’interno di una grotta, con una scia di donne intorno che le spalmavano unguenti profumati sulla pelle, mentre una voce in lontananza cantava una specie di ninna nanna lamentosa. Non conosceva quella lingua ma la capiva.
«Sei bellissima. Che onore ti è stato riservato» ripetevano le ancelle. Una fila di candele colorate illuminava l’ambiente. L’adolescente Teresa era in balia di queste persone e sorseggiava una bevanda rossa dal profumo forte contenuta in un vaso di terracotta, sul quale era inciso il disegno di un serpente piumato con in bocca un sole capovolto. Ad ogni sorso che mandava giù il suo sorriso si faceva più trasognato. La lasciarono avvolta in una tunica bianca.
«È il simbolo della tua purezza- spiegava la più decisa delle ancelle – stanotte darai la vita per far tornare la pioggia».
Sorrideva la bambina martire, inebetita, convinta di essere l’ irripetibile eroina di un popolo che aveva bisogno della sua vita per regolare le stranezze della natura. La prendevano per mano, la conducevano sulla soglia della grotta, davanti ad una distesa d’acqua limpida, profonda come la notte. Migliaia di occhi la osservavano in silenzio, protetti dalla vegetazione, fissi su di lei, immobili. Una fortissima energia di vita e di morte era concentrata in quello spazio protetto dalla natura. L’aria vibrava. La Teresa adulta si sentiva mancare.
Il Cenote, ecco dove si trovava -le venne in mente all’improvviso – era davanti all’acquedotto dei Maya. Ricordò di essere stata lì, qualche anno prima con i suoi genitori quando era tornata a rivedere il Messico. Ricordò anche che proprio in quel punto era svenuta e tutti avevano dato la colpa al caldo. Una vita dopo l’altra, ora lo sapeva, lo sentiva. Qualche secolo prima era già morta lì, sacrificata dalla follia dell’uomo che si accaniva contro le vergini. Ed adesso le toccava di nuovo chiudere gli occhi ed andare. Una vita dopo la vita, un susseguirsi di vite, in cui lei sarebbe stata sempre uccisa per amore o per dovere. Complice. Silenziosa. Tornò in sé e cominciò a guardarsi intorno nella luce argentata di una notte di luna piena, i Maya erano schierati. Uomini, donne, bambini, in piedi, immobili, disposti come in un anfiteatro, davanti alla grande pozza, a godersi lo spettacolo di un’adolescente che muore. Tra pochi minuti, lo sentiva, avrebbero urlato, applaudito, cantato al cielo, mentre lei andava giù incosciente e beata in quella cavità profonda. Il suo destino era arrivato.
Chiuse gli occhi tremando, era sul bordo del precipizio, sentiva l’energia profonda che emanava quella gente, sentiva i loro occhi, la loro forza disperata, le mani violente che la spingevano nel vuoto. Accadde in un attimo, scivolò, scivolò, scivolò in una specie di vortice buio, e solo poco prima di toccare l’acqua una luce abbagliante le trafisse gli occhi. Ma non era la processione degli avi e dei santi che si aspettava. Era il lampadario di casa acceso come per una festa e lei stava nascosta dietro il divano, attenta a non far rumore. Suo padre urlava come un pazzo e sua madre era distesa a terra. Disperata, piena di lividi su tutto il corpo.
«Basta, ti prego, basta. C’è la bambina di là. Ti prego smettila. Non la svegliare, non la spaventare».
Quanti anni poteva avere allora Teresa? Sei o sette, andava a scuola ed era sempre la diversa in classe, quella con il viso un po’ più scuro e la lingua un po’ più indecisa. Solo lei, però, conosceva un segreto orribile. Aveva scoperto che l’amore può far male e che dietro le candele alla Madonna di Guadalupe si nascondeva una speranza che non riesce ad emergere dalle parole. Quanta strada aveva percorso in silenzio la sua mamma sacrificandosi per non farla soffrire, quanta ne doveva fare ancora lei per non ripetere quel percorso? Chiuse gli occhi di nuovo, per rimandare suo padre nel regno dei ricordi e barcollò nel buio. Poi la luce tornò a sfiorarla con forza. Dietro ad una torcia gigante ora c’era un uomo energico vestito di arancione che la guardava fisso. “Signorina, mi sente? Si è fatta male? ”
«Io… ma… non saprei…»
«Si sente bene ? Non so come sia potuto capitare, mi creda. Il cassonetto s’è staccato dal camion, è precipitato all’indietro, l’ha colpita. Io e il mio collega siamo mortificati. La prego dica qualcosa. Vuole che la portiamo in ospedale?».
Ascoltando queste parole Teresa prese di nuovo a respirare con regolarità, si rianimò e girò lentamente lo sguardo intorno a sé: era a terra, in mezzo a buste di rifiuti maleodoranti e a vecchi giornali, quasi abbracciata ad una valigia rotta, ma a parte un leggero stordimento, stava benissimo. Si rialzò prendendo la mano che le offriva il netturbino e lo guardò con sorpresa : era un signore di mezza età, quasi calvo, con gli occhiali, ispirava sicurezza si disse, mentre constatava con crescente sorpresa che era tutta intera, solo il vestito leggermente macchiato.
«Grazie, mi sento bene, davvero. Posso chiedere una cosa?»
«Dica pure» rispose l’uomo visibilmente sollevato.
«Per quanto tempo sono rimasta svenuta?»
«Non saprei. Un minuto?»
« E lei per caso ha un cellulare con una suoneria natalizia tipo Jingle Bell?»
«No davvero».
«Il suo collega?».
«Armando? Negativo».
«Come immaginavo. Bene, vado a casa».
«Vuole che la accompagniamo?»
«Grazie. Siete troppo gentili, io cammino benissimo da sola».
Si allontanò spavalda, sorridendo alla luna. Fatti pochi passi si fermò, aprì la borsa, prese il cellulare, lo spense e lo buttò nel cestino dei rifiuti insieme a Michele, ai dubbi, alle mille donne che era stata fino a quel giorno. Cadere e rialzarsi doveva questo il trucco si disse. E non era nemmeno troppo vecchia. Poteva iscriversi di nuovo all’università, baciare sua madre e portarla fuori all’aperto, accendere parole e non candele. Poteva cambiare le regole del gioco, anche se non sarebbe stato facile. Riprese a camminare verso casa decisa, leggera. Guarita. Un’altra Teresa.
Carla Cucchiarelli