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Versi di Carlo Antonio fra le foto di Carmen
In copertina e all’interno fotografie di: Carmen Bertòlo Caletti
Prefazione
La poesia di Carlo Antonio Bertòlo nasce nella totale armonia di emozioni e sentimenti, che si intersecano in una miscela lirica, diventando vibrante espressione del mondo interiore e limpida fonte d’una visione che scruta nel profondo della trama della vita.
Con un forte e consapevole recupero memoriale, Carlo Antonio Bertòlo riporta in superficie il ricordo dei suoi natali, nella “povertà del borgo natio”, come a rimpiangere il “soffitto con travi mal tagliate” ed il “pavimento umido”, e poi, quel vivere fra “umili campi” e “quattro casolari”, il “ponte rosso” ed il “fiumicello”, quasi a pesar quei ricordi come un “fardello/rimasto testimone d’un passato,/d’un mondo dove nulla era sprecato/e la pietà il più utile gioiello”: ed, infine, ecco emergere il vero motivo di tale rivisitazione, che si incarna in una critica della “civiltà del niente/che tutto getta, annulla e incenerisce,/che svuota la memoria d’ogni mente”, fino a verificare che è questo il vero dramma.
Carlo Antonio Bertòlo ha piena consapevolezza che il tempo scorre inesorabile e non si perde in vane nostalgie del tempo passato perché sa bene che non tornerà, piuttosto, rivolge, liricamente, la sua tensione a ciò che riserverà il futuro e, fortemente, desidera sentire ancora il pensiero “vagare lontano”, oltrepassare le vette d’un “magico arcano”, come a confrontarsi con i riflessi della vita, quasi a perdersi in contemplazione con la volontà di gridare la sua “grande passione/per questa vita che ancora” lo seduce e lo ammalia con le sue meraviglie.
La sua figura di uomo immerso “tra i libri nel suo studio”, solitario ricercatore nel “navigar della vita”, in cerca del mistero che affascina l’anima; poeta che recupera le tessere dei ricordi e, rima su rima, crea la trama della sua poesia per “valicare il confine” d’un oscuro sentiero, dopo il periplo della vita, dopo aver superato il senso di vuoto, i “giorni freddi d’amore”, i tormenti e le inevitabili ferite.
È indubbia la sua volontà di preservare la “meraviglia della poesia”, come a poter scorgere in essa l’infinito, il sogno che pervade il cuore, la fonte luminosa che permette di conservare lo “stupore del fanciullo”.
La versificazione ritma i tempi, curando le ferite, scrutando il mistero rappresentato dalla vita, in un continuo dialogo interiore ammantato e pervaso da forte sensibilità e profondo sentimento religioso.
Carlo Antonio Bertòlo plasma la sua poesia, trama e ordito, del personale universo d’un poeta che vive sulla propria pelle la condizione di limpida anima in ardimentoso cuore: rifuggendo d’immergersi nell’oblio dell’infernale fiume Lete.
“Un cenno di apprezzamento anche per le belle foto di Carmen Bertòlo Caletti, che rappresentano la perfetta comunione tra poesia e immagine in una simbiosi davvero meritevole”.
Massimo Barile
Presentazione
Immagini che raccontano, parole che dipingono.
C’è chi scrive o dipinge a due, quattro o più mani. Noi abbiamo preferito fare qualcosa di diverso: scrivere con una sola penna e dipingere con un solo obiettivo, tenendoci stretti per mano.
Volevamo dimostrare la complementarità nella diversità. Dar prova che nella vita conta più la collaborazione che non la competizione.
Il nostro vuole essere un libro di poesia scritto con gli occhi e dipinto con la penna per giungere anche là dove l’obiettivo della fotocamera non può arrivare e la parola non è capace di mostrare. È nato così un libro scritto con le immagini e dipinto coi versi per diffondere una nuova armonia di sentimenti ed emozioni che diventi musica interiore nel piccolo universo personale immerso nel cosmo di tutti, in cui ogni nostra gioia o dolore, felicità o lutto, come dice il Pascoli, “Sparisce nell’ombra del tutto”.
Gli autori
Dietro l’ultimo sole
A mia sorella Carmen.
A te che, pargoletta, alquanto
nutrito ho con pensieri e con parole,
da cigno modulo il mio canto;
dedico tutte quelle fole
che son d’un vecchio l’ultimo suo vanto:
questa silloge che saluta il sole.
…piangendo, sì, forse, ma piano:
piangendo quando copriva il turbine
con il suo pianto grande il mio piccolo
e quando il mio lutto
spariva nell’ombra del Tutto.
G. Pascoli da “Odi e Inni”
Granelli di niente
Non imponente e marmorea reggia,
non la culla con trine decorata
né nobili ed illustri ebbi i natali.
In un tugurio visse il mio casato.
Nel corbello di vimini intrecciati
sul “paiòn” di cartocci crepitanti
fra umili campi m’ha posto il Fato,
e pargoletto ancor presi ad amare
le messi biondeggianti e i campi arati,
la povertà del borgo, il ponte rosso,
il fiumicello, i quattro casolari:
ricordi che ora sono il mio fardello
rimasto testimone d’un passato,
d’un mondo dove nulla era sprecato
e la pietà il più utile gioiello.
S’oggi rimpiango quel soffitto assente
sotto tegole e travi mal tagliate,
quel pavimento umido e indecente
d’argille malamente compattate,
non è in dispregio agli agi del presente,
non è per ritornare al tetto avito:
è lo schifar la civiltà del niente
che tutto getta, annulla e incenerisce,
che svuota la memoria d’ogni mente
rubandone la traccia al sepolcreto.
Perfin l’amor di chi t’ha generato,
polvere in urna dentro ad una cella,
dopo trent’anni avranno anche sottratto
se al Comun non paghi la parcella.
Sono scomparsi già quei cipresseti
con sotto le ossa di chi hai amato
ch’evocavano al Foscolo i segreti
d’amor perduto e mai dimenticato.
Già si profilan favi di cemento
tutti anonimi, identici, lineari
dei moderni, angusti cinerari
dietro l’arrugginita e sgangherata,
ma nobile ed antica cancellata.
23 gennaio 1012
Polvere di Luce
Guardo Bissone e Melìde. Campione,
che oltre quel ponte scorgo lontano
specchiarsi nel lago come visione
d’in sul terrazzo del verde Serpiano.
Entro i riflessi del lago e l’alone
dell’agostana, assolata calura
sempre mi perdo in contemplazione.
Vorrei tentare la folle avventura:
volare là sopra come un airone
tra un cielo di nubi e squarci di luce,
cantare al sole l’eterna canzone
sull’ali del vento che mi conduce;
gridar la mia gioia, la grande passione
per questa vita che ancor mi seduce.
25 gennaio 2012
Chi vedo?
Tempo che passa. Quel vecchio barbone
di sotto il naso mi sfila sornione.
Allegro viandante, a volte noioso,
a volte violento, altezzoso o galante,
brandendo sempre il suo lungo bastone
stronca ogni tanto un fiore, un passante.
Il Tempo, sì, sto parlando del Tempo…
Da raccontare di storie ne ha tante:
storie di genti, di bestie, di umani
che avvolge e sconvolge con le sue mani.
Storie che un giorno poi, stanco, disperde,
getta nel vento con gesto solenne.
Lette e rilette, le ha incise a memoria
’ché di ciascuna conosce la boria
per destinarle alla gogna o alla gloria.
Lui mai non si siede per riposare,
per meditare sui nostri lamenti.
Striscia non visto come i serpenti
e te lo trovi di fronte un bel giorno
quando ti dice: “Non hai più ritorno.
Guardati bene, amico, allo specchio,
sei alla fine, non vedi? Sei vecchio!
Non t’arrabbiare, è il tuo destino,
ognuno giunge alla fin del cammino”.
Dico a quel vecchio: “Aspetta lontano,
non me la sento di darti la mano,
mille le cose che ho in mente di fare,
scusami tanto, ma devi aspettare:
vorrei ancora poter ascoltare
lo sciabordare dell’acqua del mare,
fischiare il vento tra gole e montagne,
lo scroscio dell’acqua sopra il fogliame
ed ho paura di quello ch’è arcano.
Spero che un poco tu sappia aspettare,
vorrei ancora dormire e sognare,
mimetizzarmi in una foresta,
libero essere con un domani,
cantare a gara coi neri tucani
e col quetzal che regala le piume
al gran serpente, creando pei Maia
l’atavico nume. Sentire ancora
il mio pensiero vagare lontano
volare su oceani, acque di fiume,
scavalcar vette d’un magico arcano,
scivolar via da questo pattume,
gustar serafico senza padrone
miele selvatico del Lacandone”.
“Vedi? – mi dice – sei pien di malanni,
la tua missione è avanti con gli anni.
Guarda le foto e scopri che il vuoto
tra prima e dopo di ruderi è pieno,
nulla che hai fatto potrà venir meno.
L’uomo è un lombrico che sfiora il terreno,
è poi crisalide e serra all’interno
l’alma farfalla legata a un inferno.
Ch’esca dal guscio lo vuole la legge
divina dall’uscio posto alla vita.
Valica il soma e sìati gradito
qualcosa di nuovo giammai esperito”.
Aprendo il varco a nuovi cammini
verso chissà quali altri confini,
varco la soglia con passo spedito.
Forse davvero non tutto è finito.
Penso e ripenso se mai è cominciato
quest’Universo che m’hanno insegnato.
Dove s’affondan le nostre radici
se l’infinito non può aver inizi?
La nostra storia non è che una fola
per occupare i banchi di scuola,
mentre la scienza è solo follia:
fronda salvata da un bosco bruciato
che il giorno appresso diventa bugia
quando t’accorgi che tutto è inventato
da questa mente che chiamasi Io,
cui manca la D per essere Dio.
Forse non siamo i soli avventori
di questo bar di droghe e liquori.
Forse in passato chi ci ha preceduto
era un umano assai più evoluto;
forse un gigante ben più sapiente,
ma per orgoglio pur sempre perdente.
Forse l’Eterno rifece l’evento
più mingherlino, ma sempre scontento,
sempre ambizioso, sempre cocciuto
se non ricorda quel che ha perduto.
Dentro a quel pozzo che fu di Pandora
un giorno affogato ha l’antica memoria.
Quel che sapeva non ha mantenuto,
se oggi riscopre con sauri strani
i resti fossili d’esseri umani,
di civiltà a noi sconosciute,
che in te, vecchio Tempo, si sono perdute.
27 gennaio 2012
Binario 21
Trine e merletti d’un mondo lontano.
Vaghi ricordi. Quand’ero bambino:
una candela sul gran canterano,
tende che spiovono dal baldacchino,
sguardo severo d’arcigna matrona,
una Madonna sul comodino.
Seduta sul letto come in poltrona,
l’unghie laccate parevano artigli.
Mentre pensavo che a quella persona
mancassero solo un becco e i bargigli,
vidi una lacrima gonfiarsi piano,
uscir dagli occhi, staccarsi dai cigli …
Piangeva il figlio caduto lontano.
So ch’ebbi allora una gran compassione,
pur se dell’O.V.R.A., era un Italiano …
Un’altra madre andò alla stazione:
guardava gli uomini uno per uno
salire sui carri in processione.
Pregava Dio che salvasse qualcuno,
ma vide ansimare la vaporiera,
pronta, sbuffante al binario ventuno …
Stesso dolore, diversa bandiera;
ahimè la morte non piace a nessuno
neanche se giunge suadente, di sera.
7 febbraio 2012
Via Lattea
V’è fra le stelle un biancore diffuso,
come un tratturo, una traccia di via
per greggi d’anime ch’escon dal chiuso,
sterile ovil d’una Terra stantia.
Il nero asfalto del ciel sullo sfondo
cela nel buio la grande armonia
che il Nume Artefice effuse nel mondo.
La mente umana, curiosa ed ardita,
scrutar vorrebbe, capir nel profondo
cosa l’aspetti, ma niuno l’aita
e il suo cercar sarà sempre infecondo
perché il mistero non è che la vita.__
12 febbraio 2012
Fotografie
Son lacrime di vetro colorato,
gocce brillanti al sole dei sorrisi,
sogni rubati a notti del passato,
fiori di campo da tempo recisi,
timidi cinciottar di ciuffolotti,
tracce d’aratri che solcano i visi,
delicate carezze, aspri rimbrotti,
talami stanchi e amor clandestini,
lunghi sentieri e vicoli interrotti.
Sfogliando l’album i nostri bambini
si chiederanno: “Quando sono morti?..
Chissà se ancora a noi sono vicini!…”.
È bello il volto cereo dei risorti.
Col riso artefatto sembrano vivi
se li evochiamo dagli empirei orti
e non occor ch’essi siano dei divi
per far che sia la morte meno dura.
I posteri li pongon negli archivi,
tolgono lor la polvere con cura
perché l’affetto superi i confini
della soglia che impone la Natura.
21 febbraio 2012
Migrantes
Forse non sai che il passo oltre il confine
pesa assai più che una scalata in vetta.
Forse non sai ch’è addio. Della fine
certo l’inizio…: “Natia terra aspetta!
Vengo da te quando s’è fatto giorno…”
Credi al ritorno, pur se nella fretta
non udrai più che ti svolazzi intorno
il canto della stridula civetta.
“Amata terra mia, stai certa, torno!…”
Ella, paziente, forse un po’ t’aspetta,
non conosce la perfida malia,
tagliente come un’affilata accetta,
capace di troncar la nostalgia.
Con la ricchezza e col tuo successo
reciso ha i ponti lungo la tua via,
a quel convito non sei più ammesso:
sei un estraneo pieno di difetti;
la diffidenza ti cammina appresso.
Sarai meteco fonte di sospetti
perché le tue radici son tagliate,
perché sbiaditi i precedenti affetti.
Non si rinnestan piante abbandonate,
rami staccati all’albero nativo:
le ferite si son cicatrizzate,
e te ne vai dimesso e un po’ furtivo
verso quel camposanto abbandonato,
del tuo ritorno l’ultimo motivo.
22 febbraio 2012
Balcone
Solo nel mio studiolo.
Solo con i miei libri e le mie carte.
Solo con le immagini contorte
d’alberi scheletriti dall’inverno.
La montagna mi chiude l’orizzonte
del domani infinito che m’aspetta.
Come codesta pagina ingiallita
d’un libro aperto: sogna senza fretta
occhi indiscreti.
Parole che racchiudono segreti
d’alberi, monti, fole della vita:
contorta ragnatela!
E le cipolle a far da condimento
con lacrime rubate
a inumidir la tela.
Ma la navetta che intrecciò i contorni,
passata e ripassata nel telaio
da mano ignota che tessé i tuoi giorni,
presto terminerà anche questa vela.
La scioglierai al vento di grecale
tesa al pennon dell’albero maestro
verso occidente ove tramonta il sole.
Soltanto allora gusteranno il sale
del mare aperto sotto il tuo veliero
che t’incrostò la chiglia del pensiero.
Da solitario tu solcasti il mare
come scalasti i monti.
D’albe infuocate e pallidi tramonti
t’inebriasti in cerca del mistero
che affascinato ha l’anima. Del Vero
cercato hai il volto invano, non sapendo
ch’era la polvere del tuo sentiero,
l’erba sul ciglio; ch’era l’orizzonte
svelto a fuggir lo sguardo
al limite del mare
oltre il crinal del monte.
Grava la roccia sopra le tue spalle
del tempo che ricuce ogni ferita:
“Senza dolore, amico, non c’è vita.
Essa rinasce sol se il chicco muore”.
27 febbraio 2012
[continua]
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