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In copertina: «Carro agricolo» – fotografia dell’autore
All’interno illustrazioni dell’autore
Prefazione
Il libro dal titolo “Juvenilia”, di Carlo Antonio Bertolo, è diviso in due parti ben distinte con appendice finale che include alcuni epigrammi.
Nella prima parte troviamo la silloge di poesie che comprende numerose composizioni, reputate tra le migliori, che l’Autore ha scritto a partire dal 1955, ed ora ha raccolto in questa antologia dopo aver selezionato ciò che rappresentava, nel miglior modo possibile, il suo sentire lirico e la sua visione esistenziale, nonché la sua percezione della realtà odierna.
La raccolta poetica, intitolata “Fin dove la vita è silenzio”, presenta, quindi, componimenti che tracciano diverse linee, che si diramano in varie direzioni, prendendo l’abbrivio da situazioni vissute, emozioni fortemente sentite ed inquietudini che hanno contrassegnato il suo lungo cammino.
La silloge di Carlo Antonio Bertolo è la sintesi di una vita intera, che viene riportata in versi, seguendo il proprio pensiero poetico, ed ogni parola nasce dal cuore, tremendamente avvertita nel profondo del proprio essere: la vita interiore del poeta si alimenta delle voci sommesse del tempo andato, della silenziosa notte, del “contemplar solitario” che riporta alla mente le illusioni fuggevoli, la fredda realtà ed il fatidico soffio del destino.
Nella continua meditazione riemergono le “immagini fatate” dei luoghi della tenera infanzia, la “parva terra” natia del Varesotto (con l’aggettivo “parva” di dantesca memoria), la “fervida terra” che pareva contenere dentro sé “ogni piccolo sogno segreto” del poeta e, nella memoria, deflagrano i ricordi della vita quando era “dolce contemplare la sera” e le suggestioni si perdevano nei “cieli tersi” d’incanti.
Nelle “brume del ricordo”, lo spirito si libra, vagando tra sogni, speranze ed illusioni: un semplice sussurro dispiega le “ali del sogno”, la “beata solitudine” diventa “lido dell’infinita immensità” ma la mano è già protesa al destino che condurrà nel luogo adottivo, amato ed odiato, la Confederazione Elvetica, come a scrutare, ancor più, il tempo che fugge e dissolve la “limpida sorgiva” dell’insaziabile desiderio.
E poi, la “pensosa tristezza” avvolge il cuore quando il pensiero ritorna alle difficoltà della vita, alle amarezze e alle contraddizioni del vivere, quasi a voler indagare l’umano mistero nel “rifugio solingo terreno”, reinterpretando i ricordi dispersi nel tempo: talvolta “solitario e triste/errando” come “spirito vagabondo/ libero nel mondo”, osservando le “miserie umane”; ricercando un “silenzio d’oro/ verso una libertà senza confini”: e tutto si stempera “nel chiarore vago della sera”, in ascolto dei palpiti del cuore quando gli occhi “cercano l’orizzonte/ velato dei ricordi”.
Ed infine, nell’oceano dell’essere, emerge la consapevolezza d’una sorta di missione religiosa del poeta come a voler “vergar eterne sillabe feconde”, e la Fede si fa “candida vela sovrumana”: in questo stato d’animo il poeta constata che la vita dell’uomo è un viaggio senza ritorno e “noi siamo polvere di stelle” che naviga nel breve tempo concesso all’umano vivere.
Il “sottile filo d’Arianna”, tra sentimenti e memoria, a cui fa riferimento Carlo Antonio Bertolo, conduce l’anima ad immergersi alla fonte dei desideri e dei dolci ricordi che sono custoditi nelle zone più segrete come a cercar, lungo l’argine del simbolico fiume della vita, i propri sogni, estraendo dai “sedimenti” ciò che merita di essere salvato: frammenti di uno scavo memoriale nella propria vita, sicuramente sofferto e contrastato; “brandelli d’anima” lungo il cammino, strappati alla consuetudine del quotidiano, vivendo l’ansia struggente d’amore e, nella poesia, inseguire l’esplosione di vita e libertà: ne è un esempio il ricordo di Carlo Antonio Bertolo per la figura della poetessa Alda Merini, identificata come un “travolgente fiume lirico”, la cui poesia si è elevata ad “urlo d’amore” di una donna con lo “sguardo fisso/ sulla soglia del delirio”.
La poesia di Carlo Antonio Bertolo è quindi intrisa di una miscela lirica che metabolizza il passato, illumina le visioni che deflagrano dal profondo dell’animo ed innalza la sua esperienza ad emblematica presa d’atto dell’autentica concezione dell’esistere, accompagnando la sua parola con la profonda visione spirituale.
Nella seconda parte, dal titolo “Contropelo”, sono raccolte alcune satire che, in maggior parte, sono state scritte tra il 1993 e il 1998. In questa sezione ritroviamo la volontà di Carlo Antonio Bertolo di esprimere una critica sociale nei confronti della realtà odierna, passando dal divertissement alla satira più dura ed aspra, mantenendo sempre un velo d’ironia anche nelle considerazioni cosparse da vetriolo.
Ecco allora venire alla ribalta le contraddizioni della scienza con riferimento alla clonazione; alla condizione umana messa a confronto con la vita animale, riconducendo ad alcuni lampi favolistici di fedriana memoria; e poi, le riflessioni sul femminismo e sulla parità fra i sessi; ed, infine, lo sguardo critico ai mutamenti della società, al mondo virtuale e alla situazione politica attuale con le sue anomalie, deviazioni e contaminazioni.
Nella parte finale, ritroviamo alcuni epigrammi che chiudono il testo e rappresentano, con fulminee illuminazioni e velenose frecciate, ironiche analisi sulla condizione umana, sulle visioni della vita quotidiana e della società in generale, con rapidi sguardi satirici alla giustizia, alla politica, all’informazione e al lento dissolvimento della morale, cavalcando l’onda dell’attuale critica agli italici vizi e pregiudizi.
Massimo Barile
Premessa
L’abito non fa il monaco
Un vecchio proverbio dice che l’abito non fa il monaco ed è vero. Già si teorizzò in passato con la favola del lupo travestitosi con la pelle d’agnello per potersi meglio mimetizzare agli occhi della preda, ma è altrettanto vero che, fra la folla ignota degli umani che incontro per strada, io distinguo e riconosco il monaco francescano solo se indossa il saio.
Analogamente possiamo asserire che la metrica non fa la poesia, ma che distinguiamo la poesia dalla prosa proprio in virtù della metrica, altrimenti non è più poesia, ma prosa con contenuti lirici.
Nel sistema scolastico del 6 politico e dell’indirizzo utilitaristico, molte materie sono scomparse, espulse anche dal bagaglio delle opzionali, per cui non solo non s’insegna più, ma neppure s’informa l’allievo che esiste un complesso di regole per comporre in forma poetica chiamato: “metrica”.
Ne consegue che l’animo gentile che vuol comunicare un sentimento, un pensiero, una riflessione profonda che gli urge dentro in maniera dirompente da sentire il bisogno di parteciparlo anche agli altri, non sa come orientarsi e dove andare a cercare le regole che governano la composizione poetica. Cosa fa allora?… Fruga nel proprio dizionario mnestico pescando le parole che meglio sappiano esprimere, in maniera chiara e concisa, il concetto che gli preme, partorito dall’affettività; assembla le frasi che l’esprimono, le spezzetta in segmenti più o meno lunghi che scrive incolonnandoli sul foglio uno sotto l’altro, in modo che paiano versi, copiando le mode del sottobosco culturale.
Presenta poi il risultato al lettore chiamandolo poesia.
Questa è solo pseudo poesia, ovvero prosa con contenuti poetici.
Se vogliamo considerarla come una moderna forma di libertà e di ricerca letteraria, dobbiamo convenire che è estremamente limitativa e che può applicarsi solamente alla lirica, perché se applicata ad altre forme, come ad esempio a una satira svincolata dagli schemi della tecnica, sfido chiunque a riconoscerla come poesia. In che scaffale della biblioteca metteremmo un Trilussa se scrivesse così? In quello delle spiritosaggini?
Questo dilagare del nuovo modo di procedere nel poetare, se da un lato allarga la cerchia di coloro che possono mettere sulla carta la bellezza e la gentilezza dei propri sentimenti, pensieri, riflessioni e descrizioni, dall’altro si configura come vera e propria anarchia letteraria, perché tale movimento, se così vogliamo definirlo, portato alle estreme conseguenze sconfina in una forma di simbiosi con l’arte grafica. Nulla infatti vieterebbe di disporre sulla carta i propri pseudo versi ad libido, per esempio a gradino piuttosto che obliqui o a losanga; in cerchio piuttosto che a spirale, o in forme figurative più o meno fantasiose anziché incolonnati; d’andare a capo qui piuttosto che lì, chiamando tutto questo poesia perché riferita ai soli contenuti.
La metrica è l’abito della poesia. Il saper esprimere in forma concisa, esaustiva, elegante, emotivamente e sentimentalmente pregnante, linguisticamente appropriata, versatile e ricercata i contenuti del proprio pensiero poetico entro gli angusti confini di queste regole, dà a uno scrittore il carisma del poeta autentico.
L’arte è fusione di creatività e tecnica, altrimenti non avremmo avuto un Dante, ma uno scrivano fiorentino.
Introduzione
Perché Juvenilia?
Perché la poesia, come polla sorgiva può inaridirsi, ma invecchiare mai.
Il presente volumetto altro non vuol essere che la sintesi d’un’intera vita tradotta in versi. Non è che il lettore vi trovi tutto ciò che l’autore abbia scritto nel corso degli anni, ma solamente ciò che, in questo momento, ha creduto lo rappresentasse meglio, conservando la manifestazione genuina dei suoi sentimenti nel momento in cui gli sgorgarono dal cuore. È composto di due parti distinte: una di liriche, dal titolo: “Fin dove la vita è silenzio”, i cui primi lavori risalgono al 1955, qualcuno dei quali comparve saltuariamente in riviste e antologie e la seconda dalle satire, dal titolo: “Contropelo”.
Le satire hanno origine molto più recente, comprese tra il 1993 e il 1998, tranne qualcuna posteriore. Sono critiche di costume che si leggevano spesso sul mensile sindacale “Il Lavoratore Svizzero”, organo ufficiale de “I Sindacati Liberi della Svizzera Italiana”, del quale l’autore fu redattore, oltreché vice presidente sindacale cantonale.
“Juvenilia” tratta due momenti distinti e separati. Il primo altro non è che la vita interiore del poeta, intrisa forse di romanticismo e di quel pessimismo foscolo-leopardiano che tanto incise sulla sua concezione della vita; con la variante non indifferente d’una Fede profonda, anche se spesso non manifesta e da lui stesso a volte contestata, ma mai negletta e dimenticata. Le liriche non rappresentano soltanto un momento giovanile, ma un continuum che dura tutt’ora e rivive in quell’attaccamento viscerale, chiaramente ombelicale, al proprio “Natio borgo selvaggio” che comprende orizzonti ben più vasti di quelli leopardiani; spaziando da quello natio vero e proprio, a quello adottivo, amato e nel contempo odiato per esserci vissuto incompreso, e oltre, fino ad abbracciare tutti gli altri in cui, pellegrino del vivere, lasciò anche solo una piccola traccia di sé.
Di tutt’altro genere le satire, la cui ironia ed impronta di critica sociale e politica, a volte bonaria, talaltra acida e virulenta, o blasfema e truculenta, pare non abbia bisogno di chiarimenti.
In appendice alle satire, la silloge si conclude con alcuni epigrammi, come ironica punteggiatura della storia quotidiana.
Juvenilia accosta due facce che sembrano opposte e che invece sono contigue ad altre facce nella continuità poliedrica dell’uomo: due estremi dell’alfabeto della vita che si dipana tra un’alfa e un omega, entro cui ogni lettera è un momento, una punteggiatura, un modo di sentire dell’essere.
Juvenilia
Parte Prima
Fin dove la vita è silenzio
Liriche
(Per anime con sentimenti
oggi senza valore)
Gioventù
Era la vita
come dischiusa aurora
in un tripudio
di primavere,
di palpiti festanti, di chimere,
d’occhi sognanti:
riverbero di vergini pianeti
lontani.
Quando l’Eterno, sull’estasi inconscia
sorse e pensò:
“Scorri, è l’ora!”
L’ora passò…
L’uomo, smarrito, si scosse, guardò…
e, nella brina aspersa fra le chiome,
vide la sera.
Elegia barbara
Nebbia sui volti del passato,
neve sui viottoli.
Soffuso fulgore d’aurore
vissute tra un’alba e un tramonto.
Tu, diafana silfide evanescente,
seguisti il re degli elfi luminosi,
falena allucinata,
tra fatui bagliori di luce.
Modulavano le Parche la triste
nenia dei morti.
Nel complice silenzio delle forre,
digradanti nel pelago del vivere,
come un arpeggio ferale di voci,
l’Eco gemeva fra i dirupi: “Torna!…”
Ma non tornasti.
Solo rimasi
volgendo gli occhi ai ruderi dei sogni.
Triste grigiore d’un crepuscolo! …
Un giorno, forse uccisa l’illusione,
ondina,
dissolta tornerai maretta,
non più nell’alba del passato,
ma diafana silfide evanescente
sull’orma infinita del tempo.
Pensiero
Va, impalpabil essere,
va, scrutator
curioso delle tenebre,
schiavo dell’infinito,
dominator del mondo;
l’angusta mente dell’uomo illumina,
scopri l’ignoto,
mira di là dal nulla e detta!
L’uomo t’è schiavo:
crede per te nell’ideale,
ama, sogna per te, vive e docile
ad un tuo dir getta la vita.
Eppur non sei che un mostro:
miope, balbo, zoppo, sordo e scemo,
travisator del Vero,
sconosciuto pensiero.
Inno alla vita
Salute o maga incantatrice,
salute a te, di Morte ed Imeneo
inclita prole!
Succhia dal numero, indi disponi,
ordina, opera, mesci, componi,
bevi e produci,
apuzza laboriosa;
spargi il tuo miele ai mille e più infiniti
e che ne sorge?…
Universale un palpito,
impercettibile un sospiro…
Il mattutino rossor d’un sorriso…
Stormir di vento fra le foglie secche…
Indi il funereo pallor d’un viso.
Memento
A te, Felice, che svelato alfine
ti si dispiega ogni umano mistero,
se lode alcuna viene ad un poeta
e se ad un giusto cenere è concesso
contemplar questa misera vallea,
venga nell’ombra a te la lode in dono.
L’aquilotto
Un volo dall’alto contempla
gli aridi spalti pietrosi e nivali
dell’Alpi: brulli filari di guglie
nel terso nitor mattutino.
Osserva l’implume dal nido
quel tender librato di piume …
sogna elevarsi, nel volo, dal fimo.
E salirà quell’aquila
alle sublimi vette, ove, sedendo,
l’itala Gloria attende fiera
lento il fluir delle future età,
d’onde, severa,
addita al suo ingegno il passato:
fluttuante fondale
dal dolce sapor di leggenda.
Al volo sublime dell’aquila
amante infiammato,
ambisce al regale suo seggio,
né teme
l’insidia in agguato
sugli aridi spalti di pietra.
Oltre
Verde distesa, spumeggiante mare,
t’agiti cupo, mugoli, ti scuoti.
Voltoli forse sulle sabbie amare,
forse tra viscidi scogli percuoti
scheletri, crani, tronchi senza bare? …
Ridda di sogni dentro teschi vuoti;
voci sommesse al bisbiglìo del mare
fra i troni d’alga degli abissi ignoti.
E pallida, sul fil delle correnti,
ne porta un’eco la conchiglia a riva
tra gli spruzzi di spuma rilucenti …
Urlava accorata come ora, viva,
una sirena al porto, fra gli assenti
raggi d’un triste giorno che moriva.
L’invettiva
Addio memorie, albe in gridellino
di consunte chimere verginali,
ch’arser afosi soli equatoriali
sconosciuti al tepore del mattino.
Tripodi accesi all’ara del Destino
consunser uno ad uno gl’ideali
attizzati con man sacerdotali.
Chi più v’accende lungo il mio cammino?
Sognar non credo di gloria o vendetta.
Perfido, non nascondo la mia fame
a te, insaziata belva maledetta;
non amo sospirar perdute brame.
Sogna l’anima mia umile e schietta
trito di stelle un fulgido brecciame.
Ecce mors
Dalla gelida plaga siderale,
basaltica gola di sfinge,
inghiotti la terra sgomenta,
ne spremi, ne succhi la linfa,
rapace.
Rabbrividendo, scopro sitibondo
il tuo alitar di pietra
che attenta, ma invano, alla vita
d’un mondo che mai non s’agghiada:
ferace.
La fonte
Nell’atono ansimare della notte,
sotto baglior d’attonite pupille:
frante dal maglio pendule faville
che il tetro manto siderale inghiotte,
echeggiano fra i marmi a mille a mille
del camposanto dentro cave grotte,
nell’intrico di selve eteree, ignote,
del coro universal, minute stille.
“Noi siam le voci afone e remote,
mente che tremi ed odi sbigottita:
non è la vita un attimo fuggente.
Fonte è la morte, cembalo, che note
effonderà di te gamma infinita.
Non paventar, ché non esiste il Niente!”
[continua]
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