(una breccia nel passato: uno sbrego nel velo dell’oblio)
di Carlo Antonio Bertòlo
Era il 1946
Quandu ogni ann rivava primavera,
sota la topia d‘üga mericana
fümava e spüzava la rüdera.
L’era pö mia na roba tantu strana
vidée…
… la Pina e la Venuta sedute accanto una di qua e l’altra di là dell’ingresso di casa a soli quattro metri dalla concimaia.
In quel microcosmo i letamai erano tre: uno nel cortile della Venuta, uno in quello del Lariö e un terzo quasi sulla soglia di casa della Pina, ma nessuno dei tre in prossimità di una campagna, anche se, raggiunta l’altezza di due metri, alla fine il concime veniva caricato sui carri e sparso sui coltivi fuori paese.
Parlare di letamai in pieno centro abitato oggi farebbe sollevare un vespaio di proteste e di J’accuse; di perentorie richieste di dimissioni di autorità ritenute incompetenti e inette solo perché non si preoccupano di salvaguardare la delicatezza di nasi assuefatti a puzze assai meno naturali.
Ma chi, schifato, dovesse arricciare il naso, non dimentichi che anche le sue radici hanno succhiato la linfa nei letami di quel tempo.
Allora non c’erano tanti grilli per la testa; si doveva ricostruire al più presto l’Italia e dare una nuova identità agli Italiani, perché, al di là dei bisogni materiali, il restare in qualche modo aggrappati alla vecchia immagine poteva essere pericoloso. L’importante era guardare al colore della gabbana, non agli aromi del letame sotto il naso e poi, oltre alla calciocianammide, non c’era altro per fertilizzare la terra, cosicché esso diventava prezioso e a produrlo ci pensavano gli asini del Lariö, della Venuta oltre le pecore dei Signorini e gli animali di tutti gli altri contadini.
Delle due donne la più anziana era la Venuta. Piccola, grassoccia, coi capelli attorti a conocchia; vestiva di nero: gonna larga, corpetto aderente e scialle sulle spalle, un po’ curva per il peso delle stagioni. Con lo sguardo sempre verso il basso, pochi centimetri più avanti di dove posava i piedi, sembrava stesse disperatamente cercando qualcosa che avesse perso. La Pina invece, alta e allampanata preferiva la più azzimata collottola che i ragazzi definivano a cü da fiasch e vestiva in maniera meno funerea: amava il grigio.
Sguardo fiero e altero scrutava sempre l’orizzonte.
Inutile dire che le due donne erano amiche per la pelle, legate da un vincolo spoglio di salamelecchi e senza orpelli, come sapevano essere amiche le contadine di tempi perduti in un passato tanto lontano dai nostri occhi da apparire proiettato nel meno infinito. Un’amicizia sostanziale, che si limitava a dare e a prendere solo l’essenziale.
Niente di strano allora se passavano intere giornate sedute vicine a sferruzzare accanto al letamaio senza quasi scambiarsi una parola.
Abitavano in un agglomerato di corti incastrate una dentro l’altra come le matriosche.
La parte vecchia del paese era tutta così, composta di labirintici cortili a scatola cinese che formavano tante enclavi, ciascuna con un unico sbocco sulla via principale. Ogni portone era come la foce di un piccolo affluente che versava il suo contenuto nell’alveo della strada comunale: collettore di tutti quei formicai.
Nell’estate del ’45 il microcosmico regno delle nostre matrone poteva contare sulla presenza di ventisei adulti e quattordici tra bambini, giovani e adolescenti sopravvissuti alle malattie che falcidiavano l’esercito dei più piccoli.
La penicillina era arrivata anche in Italia, ma se la tenevano stretta le truppe di liberazione, così chiamate per la diversità dell’uniforme e della bandiera da sventolare, ma che s’accingevano a sostituire la scacciata occupazione militare teutonica con un’altra più sottile e perniciosa: la colonizzazione economico-culturale cui l’Italiano, opportunista e voltagabbana per vocazione ontologica oltre che per tradizione, si convertì accettandola con entusiasmo.
Ma il vincere una guerra non rende necessariamente grandi e il saltare semplicemente e incondizionatamente sul carro del vincitore è solo un pusillanime gesto di servilismo non un farsi compartecipi della vittoria.
Per curare le malattie polmonari c’era solo lo streptosil: poco più che un’aspirina e chi non superava la polmonite in capo a tre giorni, al quinto partiva lasciando i grattacapi a chi restava.
Suddivisi in dodici famiglie, i condòmini e gli inquilini delle due donne vivevano gli uni accanto agli altri in acrobatica armonia, per evitare di pestarsi i piedi a vicenda.
Non è che mancassero i dissapori a disturbare gli equilibri della convivenza. Discrasie nella coabitazione forzata di persone con abitudini diverse, causate dalle vicissitudini della guerra, che trovavano la loro ragione d’essere nelle diverse peculiarità provinciali e regionali dei singoli membri ce n’erano eccome!
Le famiglie autoctone erano solamente tre, le altre in parte sfollate provenivano dal Veneto, dal Piemonte, dalla bassa Lombardia o da province limitrofe, e queste, se non proprio emarginate, venivano sospinte un po’ in disparte perché, dicevano in paese: «A in furestée». La difficoltà a integrarsi c’era anche allora e non è vero, come si vuol far credere in “O mia bela Madunina” che le porte della `Milan cul cör in man’ fossero spalancate a tutti.
Sarà stato forse il vituperato mito della razza, seminato senza parsimonia dal passato regime, a contaminare i più e a lasciare come una sifilide pandemica le sue devastanti e indistruttibili gomme xenofobe nei cervelli di tanti nostri connazionali fino ai giorni nostri.
Comunque, seppure non in maniera conclamata come oggi, l’intolleranza veniva percepita a fior di pelle anche allora da chi non fosse Casoratese D.O.C.
Era prossimo il 1946, il terzo decennale dalla creazione della festa di San Tito che, con Sant’Ilario era compatrono del paese.
Don Mariani, il promotore, se ne stava rintanato in canonica come sempre. Usciva dal suo guscio solo quando c’era qualche pericolo serio da scongiurare e solo allora si toccava con mano tutta l’intelligenza, la bontà e la saggezza del sacerdote. Per il resto, schivo e poco cerimonioso, amava starsene tranquillo immerso nelle sue letture e le sue meditazioni zappando l’orto, dal quale traeva abbondanti insalatiere traboccanti di verdure di cui andava ghiotto.
Quel paese era il suo cruccio. Lo era fin dal ’19 e dopo qualche anno, nel ’26, consolidato il possesso della parrocchia, s’era inventato quella festa appositamente per tentare di appacificare gli animi e fare in modo che uno scopo comune riavvicinasse le due fazioni turbolente e rivali dei Civasch e dei Paulit in perenne contrapposizione fra loro.
«Se deve esserci antagonismo – aveva pensato allora – lo sfoghino gareggiando a chi addobba meglio le vie del proprio quartiere in onore di un Santo e chissà che il Santo non riesca anche a raffreddarne i bollori».
I venti di guerra che soffiavano sull’Europa e sul Mediterraneo sconsigliavano la celebrazione del ’36 e così la festa si svolse in sordina, ma ora c’erano mille ragioni in più per riesumarla in tutto il suo significato, lo suggerivano le cicatrici che la guerra aveva lasciato nel cuore e nel corpo dei parrocchiani.
A esacerbare ancor più gli animi in quell’ultimo lustro s’erano aggiunti gli odi e i rancori tra fascisti e partigiani e come se non bastasse ecco, a conflitto finito, arrivare il referendum a contrapporre i filo monarchici ai filo repubblicani. A surriscaldare ancor più l’atmosfera elettorale, ci aveva pensato quello scomunicato di Togliatti, che tanto stava facendo per costituire il Fronte Popolare con Nenni, mirando a fare dell’Italia un avamposto dell’anticristo moscovita.
«Chissà se De Gasperi ce la farà ad arginare la deriva comunista! – Pensava don Luigi, – da parte mia, con l’aiuto di don Angelo e soprattutto della Madonna, darò il mio contributo. Tutti quelli che si avvicineranno al confessionale sapranno della scomunica che incombe su chi voterà per il Partito Comunista e la griderò anche dal pulpito! Poi riporterò tutti di nuovo sotto la protezione di San Tito. Le celebrazioni di quest’anno dovranno essere grandiose. Tutto il paese dovrà darsi da fare per mantenere in vita la mia creatura perché diventi una tradizione».
I rossi intanto, incrociando la sua tonaca svolazzante, mormoravano e non tanto sottovoce: « Ha da venì Baffone!» non immaginando che Stalin non aveva interesse a scatenare una guerra civile in Italia.
Don Mariani, pur fingendo di non sentire, in cuor suo invocava: «San Tito, aiutami tu!».
Partito dal pulpito l’annuncio che i festeggiamenti sarebbero stati ripristinati, convalidato dal tacito consenso del Municipio, in ogni angolo del paese divampò l’entusiasmo alimentato dall’orgoglio civico e dalle rivalità rionali
In un battibaleno s’improvvisarono i comitati di quartiere e ognuno di essi, nel più assoluto segreto, organizzò come infiorare le proprie strade.
Nonostante ogni comitato avesse un proprio servizio investigativo per scoprire le intenzioni dei vicini, il silenzio sui preparativi fu tale che fino alla vigilia nessuno svelò il proprio programma. Neppure i bimbi parlarono. I bambini, così meravigliosi nel mettere in imbarazzo gli adulti con la loro ingenuità, seppero anch’essi tenere la bocca chiusa come tanti bravi picciotti di mammasantissima.
Il quartier generale di via Milano s’era installato in casa della Pina e ora le due donne discutevano sul come organizzare il lavoro. Alla figlia Celestina che lavorava in fabbrica, sarebbe stato facile mantenere i collegamenti con le altre corti della via usando il passa parola. Ogni corte doveva trovarsi in proprio un nascondiglio sicuro per i manufatti al fine di garantire il segreto sulla loro natura almeno finché fosse esistito il pericolo di spionaggio artigianale.
L’intera via doveva esporre la stessa varietà di fiore e naturalmente doveva superare in fastosità quelle vicine con cui era in tacita competizione, mentre per gli altari e le edicole, presso cui dovevano sostare le reliquie del Santo, l’iniziativa era lasciata alla libera fantasia degli abitanti.
Dalla Pina il lavoro confezionato avrebbe trovato un nascondiglio sicuro nel locale sopra il portico. È vero che la scala era all’esterno, ma se il trasferimento dall’ampia cucina a piano terra, che dopo cena si trasformava d’incanto in laboratorio, fosse stato fatto molto sul tardi, nessuno se ne sarebbe accorto.
Questo, grosso modo, era il succo degli animati discorsi che la Venuta, la Pina e la Carulö si scambiavano sferruzzando scalfarotti vicino al letamaio fumante nella tarda primavera del ’46, mentre le api ronzavano sotto il pergolato di uva americana in fiore che ombreggiava la concimaia, e a Roma tramontava la stella di Casa Savoia con la partenza di Umberto II per l’esilio.
Il comitato di via Milano aveva deciso per i garofani rosa e la raccolta dei fondi necessari per l’acquisto della carta crespata era iniziata già a maggio. Tutto doveva essere ultimato per il mese di settembre perché il 16 agosto, data della ricorrenza era troppo a ridosso del ferragosto.
La cucina della Pina, che di giorno sonnecchiava tra gli odori residuali del pranzo nella penombra degli scuri accostati alle finestre, dopo cena s’animava d’incanto trasformandosi in laboratorio floreale.
Sedevamo tutti attorno al lungo tavolo sul quale era steso lo spesso tappeto di fogli di carta velina colorata, ora rosa per i petali, ora verde per gli steli. C’era chi ritagliava, dischi, chi pazientemente ne frastagliava i bordi e intagliava i petali, chi tranciava fili di rame recuperati dagli scarti elettrici per i gambi, chi ne occhiellava un’estremità per fissarvi il fiore, chi v’infilava i dischi frastagliati avendo cura di sfasarli per creare la massima verosimiglianza con l’autentico, chi rivestiva i gambi di velina verde e chi alla fine creava le composizioni con tralci di potature e rametti di sempreverde.
Il lavoro si protraeva per tutti: donne, bambini, e giovincelli fino a tardi.
Tarda notte che diventava sempre più tarda e frenetica con l’avvicinarsi della data fatidica.
All’inizio pareva un gioco e come tale lasciava largo spazio a filarini, chiacchiere e pettegolezzi, finché il cipiglio severo della Pina e della Carulö non imposero la più ferrea disciplina e serietà, cosicché tutti zittimmo piegando il capo sul lavoro.
Il silenzio, rotto solo dal leggero frusciare della carta fra le dita, si popolava allora di sogni e fantasie, cullati dall’eco flebile delle canzoni che le folate della brezza notturna portavano con sé a tratti, rubandole alle osterie.
«… E salta föra il lupo dal lupaio
per ammazzare il cane che stava nel cagnaio …»
Gli uomini non si fermavano da noi la sera. Essi ci aiutavano di giorno procurandoci i materiali nei ritagli di tempo lasciati liberi dal lavoro quotidiano poi si sfilavano. Il loro contributo era però essenziale pur essendo complementare alla manifattura. Confezionare fiori di carta era lavoro per mani agili e sottili di donne e bambini, di sera essi privilegiavano il Circolo Combattenti dove, da reduci dei due grandi conflitti, surriscaldati dal Barbera, preferivano cimentarsi nell’ultima epica battaglia dello scopone scientifico.
«… e di lupo, di cane, di gatto, di topo, di grillo, di ragno, di mosca e mora
m’innamorai di te o traditoraaaaa».
Le folate di brezza canora completavano il puzzle dei versi mancanti. Qualcuno alzava la testa e lanciava uno sguardo interrogativo alla sua bella che pareva volesse nascondere il rossore sprofondando la testa tra i fiori. ma forse, a dar corpo alla gelosia, era solo il riflesso rosa della carta crespata illuminata dalla lampadina a incandescenza.
Il repertorio canoro degli avvinazzati non s’era ancora contaminato col boogie woogie e i vecchi motivi nostrani conservavano tutta la loro rustica carica emotiva e la loro enigmatica valenza di messaggio allusivo.
La fantasia correva sulle note di: mamma mia dammi cento Lire; quel mazzolin di fiori; c’era un gobbo e una gobbina; la strada del bosco; i soldati van via; il barcaiolo e cento altre che solo pochi quasi centenari, risparmiati dalla demenza, oggi forse ancora ricordano.
D’improvviso una voce femminile rompeva il silenzio intonando a cappella la sua risposta al criptico messaggio degli sguardi interrogativi:
«Di nome son chiamata Teresina,
ho ventun anni e son molto carina,
all’uomo che mi sposa se ha cuore
darò tutti i miei baci e il mio ardore…»
e a metà dell’elenco di ciò che portava in dote ecco la prima vezzosa provocazione:
«… mi manca solamente un bello sposo
che sia gentile, buono ed amoroso;
voglio che abbia il cuore dolce e non di sasso
perché se non va ben lo mando a spasso …»
Come stimolo concreto a rendersi ancor più appetibile seguiva l’elenco dettagliato del corredo, e come drastico ammonimento finale la canzone della Teresina chiudeva maliziosamente:
«… riguardo a quella cosa
che vi ho parlato già
soltanto a chi mi sposa
gliela farò provà!»
Questa era l’atmosfera che precedette la terza commemorazione decennale di San Tito e nei giorni dei festeggiamenti vi fu un vero tripudio di popolo in festa. Don Luigi marciava raggiante in testa alla processione benedicendo tutto, uomini e animali, case ed edicole.
Se fosse ancora fra noi chissà con quale spirito agiterebbe oggi il turibolo per incensare altari di parrocchiani convertiti alla religione del profitto, adoratori del dio quattrino, missionari avari, egocentrici e asociali del culto diffuso dal profeta Paperone, che dietro l’ipocrisia dell’uguaglianza, della democrazia e di una giustizia orba e zoppa, solamente sbandierate, fa sì che solidarietà e accoglienza abbiano il sapore di un’apostasia.
2.016, decima festa patronale. Mi appoggio al bastone che punta l’asfalto di vecchie contrade. Guardo smarrito facciate di case rifatte. Archeologo del dove abitasse chi, cosa facesse e il come.
Mi chiedo come sarà su queste strade dopo anni vissuti lontano dai selciati infantili ora asfalti, pervasi di afrore d’idrocarburi, di rombi, fischi e schianti di modernità. Immagino eventi invissuti, perduti. Effigi vuote nel quadro di un arrivederci.
Andata e ritorno: parentesi che sono cornice al mio claudicare incerto di vecchio migrato altrove.
Dico a me stesso: «te ne sei andato dal paese salutando con la mano dal finestrino un po’ di nascosto come un ladro perché ti vergognavi, ma sempre col proposito … no, la certezza di tornarci non più miserabile.
Sicuro di te sei andato inciampando, cadendo, rialzandoti caparbio. Hai stretto i denti, mandibola e mascelle, sgomitato, scalciato e bestemmiato per non lasciarti schiacciare dalla tracotanza ipocritamente accogliente del “civis autoctonus” che ti sovrastava incombendo beffardo.
Ti sentivi bastardo perché sapevi di essere meteco, che tutti ti sapevano meteco e che pure nella fiaba dell’integrazione ti han sempre vissuto meteco.
Vecchio e stanco ti vedi finalmente arrivato e ti piglia la nostalgia. Pensi: torno al paese, ci sarà pure qualcuno che si ricorda di me!
Torni e ti ritrovi senza identità, ancora bastardo, guardato con sospetto quando non con malcelato disprezzo.
Bastardo dovunque, in casa e fuori perché quel giorno fosti tu a scegliere l’avventura di esserlo».
“Piriroppa, piriroppa, piriroppempin … piriroppa, piriroppa, piriroppempin” È il cellulare che chiama. La mano nervosa fruga, lo trova, lo estrae: «Pronto … pronto … prontoooo!» Un fischio.
Ecco, uno senza pazienza, tanto spilorcio da appendere e attendere che sia io a richiamare, e siano le mie tasche a pagare il soddisfacimento del suo bisogno di comunicare. Emblematico esempio di educazione contemporanea.
«Puoi ignorare se non sai chi sia», mormora una vocina dal profondo dello stomaco.
«Non è educato». rispondo.
Raffronti impossibili con galatei da belle époque. E c‘è chi ancora osa parlare di bon ton.
Mi rassegno e chiamo.« Sì, scusi, è lei che poco fa ha composto il mio numero? …» L’interlocutore si esprime in Inglese.
Rispondo: «Spiacente, parlo solo Italiano». La voce insiste e in un italiano distorto ad arte, mi propone qualcosa. «Va bene, dica … No, non m’interessa … non insista, ho detto che non mi serve. Prego!»
Chiudo il telefono con un «go to hell» nell’orecchio.
L’importuno mi ha mandato elegantemente all’inferno in lingua inglese, ma io sono italiano come lui, ne son quasi certo. Come un lui che ostenta l’Inglese per apparire superiore a me che faccio la prima colazione non un breakfast, che chiedo una bevanda non un drink, e canto a squarciagola: “O sole mio sta in fronte a te” non “My sun is your forehead”, che non mi vergogno delle mie radici. Perciò se non mi si manda “affannculo”, magari solo puntando espressamente il dito medio verso il cielo, nel monumentale gesto immortalato nel marmo, è come non detto e non faccio neppure l’offeso.
Anzi, mi soffio il naso per non mostrare che ne rido beffardo poiché solo invecchiando s’impara che più ti mascheri più esponi le tue nudità, più ti accanisci a sembrare colto e più sbandieri la tua ignoranza.
Se prevale l’apparire la vita diventa una beffa che merita di essere vissuta solo ridendone, e, nonostante tutto, le mie radici affondano qui, nell’humus di questo assurdo paese dove oggi si vuole emergere come papaveri magari adottando una lingua che si crede universale, senza immaginare che basta un refolo a farne cadere i petali, come accadde alla lingua dell’antica Roma imperiale, scomparsa nel nulla dopo essersi imposta a quasi l’intero mondo allora conosciuto.