L’ultimo canto

di

Carmelo Consoli


Carmelo Consoli - L’ultimo canto
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 44 - Euro 8,00
ISBN 978-8831336819

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Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il conseguimento del 1° premio nel concorso Città di Monza 2019


Prefazione

La silloge di Carmelo Consoli, dal titolo “L’ultimo canto”, comprende due tempi lirici, che creano, all’interno del processo lirico, una prima dimensione onirica che riconduce al “sogno” e alla memoria, seguita da una dimensione che riporta alla “realtà”, materiale e reale, vissuta e sofferta.
Il primo tempo lirico, intitolato “Il sogno”, rappresenta il punto di partenza d’un sommesso e delicato recupero memoriale, collegato agli anni della giovinezza, che diventa una miscela di ricordi ammantati di dolcezza e d’un velo di malinconia per il “tempo perduto”.
Ecco allora che la visione poetica si apre alla fantasia e all’“allegria / inconsapevole d’un tempo lontano”, e paiono ancora vivere “le voci dai balconi”, gli schiamazzi nei cortili dove i bambini giocavano ai cow boys e agli indiani; le lunghe partite al gioco delle biglie colorate e alle figurine dei calciatori, e ancora, il famoso gioco “Rubabandiera”, per non parlare delle corse a perdifiato fino a sera, tra “cespugli di verbena e oleandri”, nell’”infinito silenzio dei campi”: tutto era un gioco nello stupore dell’infanzia, ancora indenni dagli “affanni” e dal travaglio della vita, e “l’incoscienza era un dono”; si viveva la “felicità buona”, la promessa di una vita luminosa, ma “quell’azzurro della giovinezza” è ormai svanito da molto tempo.
Eppure, nel profondo dell’animo del poeta, quel tempo dorato, la breve stagione di quel mondo della giovinezza, è ancora viva e pulsante: con gli stessi “occhi di fanciullo” ricorda i perduti “sentieri polverosi” e le “stoppie arse”; i bagliori e gli stupori, gli incanti e le fragranze, tra profumo di gelsomini e di glicini; il caleidoscopio di colori ed i “canti dell’estate”; il vociare lontano dei casolari; il silenzio e la preghiera per un fecondo raccolto; i riti e le antiche tradizioni dei borghi; il “Cinema Paradiso”; il grido dell’arrotino per le strade e, al poeta, tra i canali.
Il processo di recupero memoriale, si alimenta ancor più, tra fantasia e ricordo, vita e sogno, e ci si immerge tra “vigne salmastre / abbarbicate nel sole”, all’ombra solitaria dei sentieri, tra la terra ed il mare, tra “viottoli alla menta” e “tornanti azzurri” della vita; le poche case bianche di Capo Speranza, immerse tra sinfonie di venti e silenzi d’estate, tra salmastro e scirocco che era “carezza d’amore”, tra il fico d’india “annidato tra le rocce” e cieli immensi, “universi di stelle” nel sogno.
Durante l’estate era come rinascere, come vivere l’attimo delle ginestre, naufragare tra i verdi campi ed i sentieri, nell’ozio dei papaveri sui “letti di girasoli”, in ascolto di “concerti di cicale”, tra “celesti orizzonti” e “fragranze di lavanda”: d’estate era come essere “nascosti tra le onde / di un mare frusciante di spighe”, era come calarsi nel sole, “saziati da immensi bagliori”, tra le nuvole che “trasportavano” sogni e promesse, e nell’aria della sera, il “vortice delle lucciole”.
“La casa al mare” sembrava sospesa tra “l’acqua blu e rossi fichi d’india”, immersa nel silenzio tra le sue “vecchie mura”, ed il poeta rivede ancora Nina e Matteo, seduti attorno alla magnolia, “a ridere della vita”, alla luce delle “lampare in lontananza”, senza il “peso degli anni”, come se il tempo non fosse passato: ed emerge il desiderio di vivere “l’eterno incanto della casa al mare”, come a voler ripercorre le strade ed i sentieri con “l’odore aspro dolce / dei limoni” ed il ricordo delle corse dei ragazzi tra l’erba ed il frumento; e quando guarda con i famosi “occhi di fanciullo” vede ancora il “volo delle farfalle” e si perde tra “i bianchi gelsomini” ad ascoltare “sinfonie di grilli, / sognare / fuochi rossi di lucciole vaganti”.
Il poeta, proprio come un tempo, ritorna tra campi di limoni ed aranci, e lungo i “sentieri persi nel cuore dell’estate”, nelle stagioni antiche della sua “terra di Sicilia”, tra i paesi svuotati e i “vicoli piegati ad antichi silenzi”.
Ora la vita è pervasa di ansia ed amarezza, tra continue lotte e travagli, ma la memoria va a quel dolce ricordo di un esistere lieve, di un’età “felice”, ora che gli anni sono “cumuli di amare illusioni”, il poeta risalirà tra le strette mulattiere e la dorata campagna, tornerà a rivedere “l’amato paese di case bianche”, accarezzato dallo scirocco proprio come il gelsomino ed il girasole, come una “creatura” che vive lo stupore del “tempo dei miraggi”.
La seconda parte della silloge contempla il tempo lirico che riconduce alla “realtà”, ed in questo odierno vivere ormai i sogni sono svaniti, il poeta si sente come “appeso all’incognita dei giorni”, tra cose minime e gesti quotidiani per cercare la sopravvivenza, quando tutto tace e rimane solo l’amaro degli anni passati: al contrario, in quel tempo, “il pensiero era solcare l’immenso”, vagare tra orizzonti senza fine, pensare che l’esistenza portasse chissà dove, ed ora, invece, è tutta “nella ristretta cerchia degli amici, / nella felicità / di un raggio di sole nel cortile, nei pacati discorsi / delle sere d’estate, nel lenire vecchie ferite,/la misura del nostro esistere”.
Ecco allora che lo sguardo del poeta si sofferma sulla realtà che ha davanti agli occhi: gli “orti sul fiume” che sembrano oasi nascoste di una “città grigia” e triste; le passeggiate sul fiume Lambro dove il canto del fringuello diventa “lamento” di un fiume agonizzante, tra plastiche e scorie velenose; il frastuono delle strade di periferia, e neanche le lucciole distraggono la sua nipotina dal “regno di giochi virtuali” dello smartphone.
La memoria lirica intende sottolineare la sofferta realtà odierna, ed anche il ritorno al paese di Cannizzaro, come Ulisse alla sua Itaca, una volta significava ritrovare “l’odore delle mura”, percepire il “silenzio” tra le vecchie case ed “i vicoli bianchi arrampicati / alla montagna”, con le donne sedute nell’unica piazza del paese, ma ora vi sono alberghi e ville a schiera, musiche ad alto volume e scorribande di auto veloci, che diventano il simbolo della scomparsa d’un mondo antico.
Il percorso lirico giunge infine ad un simbolico “ultimo viaggio”, ed il poeta percorre i “campi ocra e oro”, tra ulivi e vigne salmastre, procedendo senza fretta, con “l’aria dolce del tramonto” che accarezza l’animo, il pensiero rivolto alle “amate cose”, ai “volti cuciti nel cuore”, al rimpianto di dover lasciare questa terra di meraviglie e tormenti: il viaggio verso il mare, oltre i confini della “fragile esistenza”, s’incarna nell’“ultimo canto” di un “uomo di sogni e travagli” che fatica a capire la ragione di “tanta bellezza unita a tanta sofferenza”.
Il ritorno alle origini, alle radici della propria Terra e del proprio esistere, diventa assoluto quando il canto si fa invocazione, preghiera rivolta al padre, in attesa di riabbracciarlo “nell’Oltre senza fine”.
Carmelo Consoli, con la sua Parola, sempre avvolgente e penetrante, offre il suo meraviglioso universo emozionale, profondamente sentito nel cuore e nell’animo: una miscela lirica esistenziale dove lo sguardo è rivolto alla voglia di vivere in modo sincero, secondo il proprio Essere, e la sua poesia è custodita nella memoria, come linfa che ritorna nel cuore, ultimo spiraglio luminoso che permette di “rinascere fanciulli”, spiccando “voli nell’ignoto”.

Massimo Barile


L’ultimo canto


Parte prima

Il sogno


Azzurro

Azzurro, mai così bello dopo,
mai più visto, quando cantava Celentano
e tutti noi partivano sul treno dei desideri,
la fantasia che tutto si potesse fare
anche arrivare sulla luna
e piantarci sopra una bandiera.
Erano i giorni del “pari e dispari”
dentro i cortili freschi dell’estate,
la conta per chi dovesse per primo
salire sul Benelli rosso e impennarsi
fino al cielo, la scelta d’essere
l’impavido cow boy o il selvaggio indiano
nella sfida alla sorte che iniziava.
S’apriva una felicità buona,
l’allegria inconsapevole del tempo
nel colore delle biglie, nel soffiare
a più non posso sulle figurine
di ciclisti e calciatori.
Così ci chiamava la vita dai nascondigli,
dalla voce dei balconi, tutto il giorno
a rincorrerci a perdifiato fino a sera.
Così il mistero di una stagione
indenne dagli affanni, l’inganno degli anni
che tramava su di noi, uomini veri domani
scesi nel mondo del macero dei sogni.
E forse era un segno di Dio l’incoscienza
o il dono, latente e feroce di attaccarsi
alla vita, sentirsi invincibili eroi
nello stretto dei sentieri, una volta
e mai più nella clessidra dei giorni.
Azzurro, mai così bello dopo,
per sempre svanito, quell’azzurro
della giovinezza.


Al “Rubabandiera”

Sei eravamo
come i pioppi lungo il canale,
tre da un lato tra i cespugli di verbena,
tre dall’altro confusi agli oleandri.
Di fronte, nella sfida tutta in un respiro,
col cuore che scoppiava nello scatto
ad afferrare una bandiera leggera
calata nel verde oro della terra.
Era un numero, trattenuto ad arte
nella voce, a decidere chi fossero gli eroi
della sfida, quali mani vibrare nell’aria
nel gioco delle mosse e poi col trofeo
stretto in pugno via indietro come il vento
fino alla linea di partenza.
Ce ne stavamo mescolati nel rosso
dei riverberi, ombre veloci
tra il viola dei tramonti.

Al “Rubabandiera”
ci giocavamo un sogno di vittoria,
il primo nello stupore dell’infanzia,
inseguivamo la conquista, già guerrieri in erba,
per un punto, una bacio come tenera lusinga.
Noi sei soltanto,
l’infinito silenzio dei campi,
il tempo che lontano tesseva la sua tela
di fatiche e dolori, noi ignari del domani,
spighe di grano spuntate appena, girasoli protesi
all’azzurro dei confini, alla promessa della vita
come favola di luce.
Oltre, la distesa a perdere le piane,
lo scollinare lontano degli ulivi, i filari
stretti delle vigne.
Poi nient’altro.


Borgo stella

M’incantava la storia della luna calante.
Era l’antica tradizione di borghi, cascinali,
occhi di fanciullo tra guizzi e fuochi
nelle notti di vendemmia.
Notti di un tempo a stelle azzurrine,
amori di contrade, promesse per un domani
di bagliori, voli e stupori.
“Luna calante urlavi, che sia luna calante
quando si raccoglie, male segno nebbia e pioggia”.
Tu padre antico chino sulle zolle
a disegnare forme, a fecondare campi,
narrare storie d’una Maremma antica.
M’incantava quel tuo parlare fitto a primavera
alle tenere foglie delle viti, ai grappoli nati
in respiro di cieli, farfalle, nei silenzi delle piane,
nel ronzio giallo e radente dei calabroni dorati.
Borgo stella era nel solco aspro dei campi,
nel vociare lontano dei casolari,
era il canto, la preghiera della raccolta
nel grembo riarso e ocra della terra.
Era l’orizzonte dei perduti sentieri,
la gioia del vino nato tra stelle campagnole,
grida, balli, falò di stoppie arse.
M’incantavano le fragranze di quei giorni,
il volo dell’ape estasiata tra l’uva, la cicala
persa nei canti dell’estate, la stagione breve
di quel mondo della giovinezza tra piane e paesi
nello stupore d’una vita altra di riti e mestieri.
“Luna calante urlavi, che sia luna calante
quando si raccoglie, male segno nebbia e pioggia”.


L’arrotino

Va indietro, indietro nel tempo
il grido dell’arrotino
dentro l’asfalto grigio delle strade.
Squarcia il cuore chiuso dei palazzi
eco smemorato d’azzurre stagioni;
chiama al gesto lento della mola,
alla fiamma viva che lievitava i sogni.
“Donne è arrivato l’arrotino
ripariamo ombrelli,
affiliamo coltelli,
aggiustiamo pentole”.
Megafono al vento, officina vagante
su una vecchia Renault gira
e gira ancora, svolta e ritorna,
inizia la sua danza di fermate e di partenze,
ripete a perdifiato nostalgici refrain,
tira fuori dalla bauliera antiche magie,
polveri e fragranze lasciate
nell’incanto degli anni.
È voce argentina che sparge
giorni leggeri avvolti nell’oro dei ricordi.
Sulla scena cori di incredule finestre,
volti affacciati che scavano memorie
tra i sentieri antichi della giovinezza.
Poi si muove, riprende moto e fiato
ostinato sognatore di periferia,
gira l’angolo e sparisce
portandosi via l’eco sempre più flebile
di quel canto mattutino:
“Donne è arrivato l’arrotino
ripariamo ombrelli,
affiliamo coltelli,
aggiustiamo pentole”.


[continua]


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