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Carmen Conde

I grandi Poeti del Novecento

Carmen Conde
«La poesia come simbiosi tra spirito e corpo: “Chi aspira al Cielo lo sostiene la Terra“»

(Articolo di Massimo Barile Rivista Il Club degli autori 218-219-220 – Anno 21 – luglio 2012)


Seguire la poesia di Carmen Conde è come mettersi in cammino nella vita, intraprendere un percorso, passo dopo passo, avendo come punto fermo una sola luce che indica la via: un solo battito del cuore in quell’unione tra due esseri umani che è fusione e, ancor più, incarnarsi nell’essenza stessa dell’amore fino ad essere il sogno dell’amore e, in ultima istanza, nella stagione finale della vita, vivere intensamente il dialogo della speranza e l’incontro con Dio, che diventa preghiera rivolta al cielo, confessione d’una donna che vive la comunione con la spiritualità.
La volontà di Carmen Conde è quella di non chiedere il luogo di destinazione ma seguire il cuore dal quale «fluirono le candide barche dell’amore» e, con la parola penetrante, essere sorgente profonda e limpida, ergersi offerta pura che sia svincolata da pregiudizi e limitazioni del sentimento.
Ecco allora che la tenerezza «cinge le spalle», l’umano sentire custodisce la sua stella, difende la sua voce «in un pezzo di luce», fino ad elevare un canto che «precipita nell’eternità»: sovente la sua presenza poetica è immersa nel silenzi, altre volte, si ritrova avvolta nella sua solitudine dove esiste «solo l’amore».
La sua visione si plasma con la concezione dell’amore: il corpo, la passione, il rafforzamento delle pulsioni del cuore, la voce che lotta nella vita, la considerazione che la propria storia è premessa e promessa che non troverà intralci se l’animo sarà puro, se la parola sarà veritiera. L’amore come «consegna totale all’altro».
Carmen Conde si libra nella percezione lirica che tende ad una dimensione più elevata, al di sopra delle misere distrazioni del vivere, come ad annullare il tempo e lo spazio: «Alzerò le braccia e sosterrò il tuo volo. / Potrai scoprire il mio sogno, / poiché il cielo riposerà sulla mia fronte», scrive in una sua poesia.
Carmen Conde si sofferma, con fermezza e convinzione, sui versi delle sue poesie che comprendono «frammenti di memorie» come fosse intima raccolta esistenziale. La sostanza che lei cerca di far rivivere può essere «molto» o «nulla», magari semplice «offerta» di una donna che tenta, disperatamente e consapevolmente, di mettere a nudo il proprio essere autentico e genuino.
Tutto ciò che ha vissuto, ciò che ha detto e scritto, viene immesso nella sua poesia e la sua parola è quella di una donna che ha camminato nel faticoso percorso e raccontato la sua vita: per comprendere se stessa, la sostanza di cui era fatta, la materia umana che tendeva all’infinito.
Ci troviamo davanti al canto di una donna nella dimensione dell’amore, nella condizione della sua solitudine che diventa «compagna» di vita, ed infine, nella tensione ad avvicinarsi alla «terra di Dio»: ecco il fuoco interno, le gioie e i dolori che hanno segnato il cammino, nel bene e nel male; il desiderio di esprimere, non solo attraverso la poesia ma anche grazie a numerosa narrativa per bambini, le emozioni più profonde che nascevano dalla estrema sensibilità di un animo femminile.

Lei crede ciecamente nella passione come fosse forte attrazione, esteticamente poetica: tutta la sua poesia ne è esempio, fedele impegno e tensione insopprimibile.
Strettamente collegata a questa attrazione v’è la percezione della propria estraneità ad una visione omologata del proprio essere che si accompagna ad una costante conferma di unicità.
Nella poesia di Carmen Conde si ritrovano, in superficie e sotto traccia, molteplici riferimenti al mondo interiore: ed è forte la sensazione di estraneità, quasi a sentirsi diversa, fin dalla nascita, come ricorda lei stessa, nella poesia La mia fiamma, quando, nei primi versi della lirica, scrive: «mia madre… con me si trovò un giorno come in una tempesta». Ed ancora, ritroviamo la volontà di ricerca della sostanza autentica del proprio essere, della propria identità; e la sua voce lirica diventa preghiera a se stessa, umana interrogazione sul proprio esistere / essere: «Chi furono i miei, ormai nel mio sangue? / Con quali altri il mio corpo, con quali altri la mia anima / continua sulla terra?».
In questo continuo interrogarsi, sempre più profondo ed intenso, si spinge nelle regioni ancor più oscure: «Madre, tu sai forse/perché io sono così, di chi è questa nostalgia/di tanti paradisi?», ed infine, la consapevolezza che diventa presa d’atto, spontanea e inaspettata: «Ho cercato intorno a me sino a trovarmi sola».
Il suo «violento flusso» vitale arriva fino alle viscere: «Io mi distruggo di nostalgia per cose che non vidi… / per esseri che non amai, per occhi che non trovai sui miei!».
E, se vi fosse resurrezione, Carmen Conde si chiede «Riavrei anche i miei sentimenti / quelli che rendono possibile la vita: / o il mio cuore rinato sarebbe ormai estraneo / indifferente a tutto ciò che è il presente?».
Lei conosce la forza dell’amore, lo stupore davanti al mondo «i cieli che guardai abbagliata», «i mari che imbrigliarono la mia ansietà»; Lei si trova a fare i conti con la solitudine e l’inquietudine, con le pene e le angosce, con la difficoltà di superare la sensazione che si avvertirà dopo la fine della materialità: «invecchio e cammino stanca / di tanta polvere sulla mia morte», e poi, «Io non servo perché il mondo continui», come se il corpo fosse stato usato per il tempo concesso ma sapendo molto bene che sarebbe giunto il momento ultimo dell’abbandono dello stesso: «senza luce né fuoco» perché i giorni «arrivano lenti» e non rimangono che le intuizioni, il non saper più nulla, la labile percezione di ciò che si era.
Su questa terra si può essere un prode eroe o una vittima della triste sorte, come cantava Faber, ma i dolci sogni d’amore volano con le parole e, vagando nel mondo e sognando favole, si porta in scena la recita della vita, il giro di una danza che dissolve i dolori.

***

Nel Giardino dell’Escorial, «la pietra / respira il più profondo respiro dell’anima» e, in quel luogo, «tutto si dimentica»: il mondo è lontano. E, Carmen Conde confessa apertamente: «Chi non ha nulla, si deprime. / Ma chi aspira al cielo lo sostiene la terra» perché la volontà di ricerca è sempre stata forte: «Io qui ho potuto trarre il meglio della mia vita. / Ho imparato a conoscermi, a sapere ciò che voglio. / E non posso allontanarmi, per non perdere / questa certezza della Terra e del Cielo».

El tiempo es un rio lentisimo de fuego: “Il tempo è un fiume lentissimo di fuoco”, così si intitola la raccolta poetica di Carmen Conde, pubblicata nel 1978 e che, nella lirica La consegna, scrive: «Perché il corpo, / tutto il corpo che accoglie la vita / il suo oscuro ma anche nobile potere, / è sempre qui, resterà sempre. / E chi ama e desidera vuole / possedere e darsi possedendo. /Sera e notte, aurora o mattino, / amore, amare chiede il corpo / in dolce andare, o tumulto / lungo il sentiero coperto di lave: / oscura eternità che dà alla vita / una morte infissa». E, dopo l’ardore e l’abbandono all’amore, nella chiusa della poesia, ecco il sigillo: «Sono io così, sono io questo, si chiede, / crescendo del selvaggio incrocio, / vivendo la mia morte che riscatto, / con furia di morire mentre amo? / Il corpo dolcemente ascolta dentro / e un altro io lo soffoca chiedendo».
L’anno dopo, nel 1979, entrerà a far parte della prestigiosa Real Academia Espanola, e sarà la prima donna spagnola ad ottenere tale importante riconoscimento. Carmen Conde aveva superato i settant’anni, ma vi sono alcuni validi motivi che possono spiegare come questo onore accademico arrivasse così tardi: in primo luogo, la dittatura franchista non poteva certo vedere di buon occhio il matrimonio della poetessa con lo scrittore Antonio Oliver Belmàs, impegnato politicamente a favore del Fronte Repubblicano nella lotta anti-franchista. Nel 1936, con la guerra civile, Carmen Conde è a fianco del marito nell’azione di propaganda ma lui viene arrestato. Lei si rifugia a Madrid in casa della famiglia Alcazar e conoscerà Amanda Junquiera: da questo momento nasce una profonda amicizia che sarà prima umana e poi letteraria. Nell’opera Humanas escrituras, pubblicata solo nel 1967, dopo anni di attesa, Carmen raccoglierà numerosi ricordi che riguardano le persone care e sarà evidente l’importanza data alla poesia Canto ad Amanda: elegia d’amore dedicata alla donna con la quale la poetessa ha vissuto un intimo e intenso rapporto sentimentale, che rivive in modo vibrante, nelle parole di Carmen, «cuore di puro amore». Le parole sono appassionate: «Gli anni trascorsi accanto a te / sono un sogno da cui non mi sono mai destata / senza la presenza, Amanda, dei tuoi occhi»… «La notte, ogni notte, per molti anni / si chiude con la tua voce e la tua immagine, / aprendomi al riposo e all’oblio…», e ancora, «Mi addormento al tuo calore: sono stata una bimba / che nessuno seppe comprendere. Solo tu conosci / la mia ansia di riposo e di fiducia. / Difendi con forza la mia debolezza, / e vegli accanto a me affinché l’Angelo / non tagli il suo contatto con la mia anima» e, infine, «Grazie per la luce che vedi in me. / Tanto in me hai creduto, tanto mi hai dato, / che sono tutta mia. Ti riconosco».
E poi, come sottolinea Gabriele Morelli, docente di Letteratura spagnola presso l’Università di Bergamo e autore di numerosi studi relativi agli scrittori della Generazione del 27, v’è da sottolineare come nella letteratura spagnola, per lungo tempo, la figura femminile ha patito una silente emarginazione sofferta da lei e da altre donne, poetesse e scrittrici. (Nel saggio scritto da Gabriele Morelli per il libro che raccoglie le poesie scelte di Carmen Conde, dal 1929 al 1980, dal titolo Senza Eden, si possono trovare numerosi spunti di riflessione in uno dei rari studi sulla poetessa e a lui va il mio ringraziamento).
In ultimo, ebbero grande influenza i frettolosi giudizi della critica che aveva ravvisato nella poesia di Carmen Conde una sorta di limitazione genetica che implicava una restrittiva visione incanalata nella lirica d’amore, ma tali giudizi dimenticavano che, nella sua poesia, certamente v’era dominante tale visione ma acquistava importanza decisiva, quasi ergendosi a sostanza esistenziale: l’amore, nella sua lirica, abbracciava la concezione stessa della vita, il significato dell’esistere e, in ultimo, la percezione della morte e l’avvicinamento al divino. Per Lei, l’amore era la chiave di lettura.
Fin dalle sue prime esperienze letterarie di prosa con Brocal del 1929 e Jùbilos del 1934 (con disegni di Norah Borges) è sicuramente dominante il tema dell’amore e, non a caso, Dàmaso Alonso, grande poeta della Generazione del 27, affermò che Carmen Conde, come poche altre poetesse, aveva saputo cantare l’amore «con tanta verità, con tanta noncurante castità verbale essenziale, con tanta straordinaria bellezza». Anche il famoso poeta Juan Ramòn Jimènez fu tra coloro che la incoraggiarono nella sua esperienza poetica, anzi, ancor più, fu proprio Jimènez, nel 1927, a pubblicare le prime poesie di Carmen Conde sulla rivista Diario Poetico che lui dirigeva.
In ogni caso, qualche anno dopo, vissute le sofferte esperienze della vita, segnata dalla tragedia della guerra civile e dopo aver fatto i conti con alcuni dissidi familiari, seguiranno le raccolte poetiche più complete e più intense, dove emergerà la maturità della poetessa: con le raccolte Mujer sin edèn del 1947 e Iluminada tierra del 1951, fino a La noche oscura del cuerpo del 1980, l’impeto d’amore delle poesie giovanili lascia il posto al sentimento profondo che indaga il senso della vita, emergono frequenti riflessioni sulla percezione del tempo che passa velocemente e sfugge dalle mani nonché inizia una sorta di confronto con la concezione della morte e della «fine di tutto». È in questo percorso poetico che si ritrovano le riflessioni sul proprio destino, sulla constatazione che il corpo, inesorabilmente, si consuma, e sul desiderio di elevarsi a Dio: l’amore si rivolge a Dio, alla natura che crea e ricrea.
E Carmen Conde offre la parte profonda della sua vita, «fino al delirio con cui la bocca/erompe quando avverte / il paradiso d’amore che arde».
Essere «fiamma» e «rugiada», e poi, radice, albero e frutto, e ancora, acqua, terra e cielo: in una comunione intima con gli elementi naturali, in una forte immedesimazione con l’energia creatrice che aiutasse ad «allontanare l’antica inquietudine della carne e dello spirito».
Unire la terra al cielo, la materialità allo spirito, il corpo all’etereo, sono costanti riferimenti nella lirica di Carmen Conde, così come l’elemento liquido: infatti, nella sua poesia, si ritrova la reiterazione di alcune parole chiave come acqua, sorgente, fonte, fiume, flusso e via dicendo.
Fino a giungere alla visione totalizzante, con la volontà di «essere porto e legno della nave» con l’immagine classica del calice alzato verso il cielo come dono: «che le coppe si colmino del mio corpo e della mia essenza». È il sigillo all’estasi lirica finale che diventa offerta/salvazione di sé nel «regno del volo».
Nel continuo scandaglio di sé, emergono le innumerevoli emozioni che plasmano la sostanza di una donna che ha vissuto e sofferto, che è stata in ombra ma non ha mai perso il coraggio di dire ciò che nasceva prepotente dal suo cuore. In fin dei conti è questa la modernità della sua poesia.
Nei primi anni Ottanta inizierà a manifestarsi la malattia di Alzheimer ma lei continuerà a scrivere.
Nel processo di questa ricerca si avvera la fusione tra sensualità e misticismo. Lei si fa «presenza selvaggia» che «consuma il suo sangue». La condizione di una donna «senza eden» che ha esaltato la forza dell’amore e la passione che devono sospingere nel cammino, nel viaggio intimo, nell’errare in zone sconosciute; la consapevolezza di una solitudine metafisica ed il valore dell’esistenza quando il corpo lentamente si consuma fino a giungere ad una «imprecazione alla vecchiaia», e nella chiusa della lirica, Carmen Conde lascia a noi queste parole: «Lasciatemi morire senza saperlo. Bella, profumata, forte. / Lasciami, vita, senza radici di salmi, / giovane e sana, viva di luce, amore perfetto, e tua / finché sia mia la terra; mia / l’estasi di Dio nel trovare la sua opera/ senza l’immonda vecchiaia che toglie l’innocenza / ponendo il viso odioso della morte immutabile».
«Far vivere un corpo è meno faticoso/ se nell’anima cerchiamo il suo destino»: un «grido di luce» nella terra di nessuno.

Massimo Barile



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