Ringraziamenti
Ringrazio Antonio Errico che, dopo aver letto fra le righe dei miei racconti, così mi ha incoraggiata: “Se mi dici che non hai mestiere ti rispondo che allora hai istinto più forte del mestiere. Un istinto incredibile…” Alla forza, alla poesia, al coraggio di Federico*, segno del destino.
Non chi ha compreso, ma “chi si è commosso
contemplerà e regnerà su tutto”.
Vangelo apocrifo di Tommaso
Di forte istinto
Solitamente non leggevo il quotidiano locale. “Serve per sapere chi è morto”, diceva l’anziana vicina interessata solo ai necrologi che, una volta letto, volendo sdebitarsi di piccoli favori, me lo faceva trovare dentro la cassetta per la posta. Anche quella sera diedi una veloce scorsa alla cronaca per soffermarmi alla pagina degli spettacoli e degli appuntamenti previsti in città.
Fu così che mi ritrovai a sbattere le palpebre più volte volendo mettere bene a fuoco il taglio basso della pagina. A quell’ora le lenti a contatto rispondevano con fatica all’usura delle nove ore d’ufficio.
Il titolo riportava: “AMBIENTE Il cinghiale cittadino, domani ore 20.30 Centro congressi Stazione Marittima”.
Una conferenza organizzata dall’assessorato regionale all’ambiente in collaborazione con diverse associazioni che riguardavano il mondo della caccia e degli ambientalisti. Fu leggendo l’elenco dei relatori che appresi della tua presenza: prof. Massimo De Luca, zoologo e docente universitario.
Il tuo nome rispose con la profondità di un’eco al sussurro delle sillabe scandite dalla voce del mio pensiero: Mas-si-mo… Rilessi incredula. Quanti anni erano passati? Quanto tempo era trascorso da quando c’eravamo lasciati, o visti per l’ultima volta? Di fatto un addio vero e proprio, fra noi, non era mai avvenuto: io non avevo mai chiuso la mia storia con te, ed erano trascorsi vent’anni.
Sentii uno strano calore salirmi alle guance, mentre il battito iniziò ad accelerare.
Spensieratezza, pulsioni giovanili, incertezze, le mie, ma anche il coraggio nel saper accogliere ogni aspetto, anche il più incomprensibile ed imprevedibile della tua personalità riconoscendolo come parte di te e del tuo essere istintivo, un vero animale, a volte, privo di manierismo, ma travolgente nel saper dare e cogliere emozioni. Mi si aprì un varco fra i ricordi.
La tua selvatichezza aveva fatto emergere nei nostri racconti di un tempo tutto il mio trascorso di un’infanzia e di un’adolescenza vissute in campagna; il cuore ad un barbagianni entrato in soffitta e prigioniero della luce del giorno, e l’orecchio ai discorsi di mio padre che nella campagna ci vedeva ben poco di bucolico. A volte si lasciava andare imprecando contro la cantina sociale che non aveva ancora pagato le uve consegnate, ed erano trascorsi più di tre mesi, altre volte contro la grandine che aveva dimezzato il raccolto. E mi ritornavano alla mente le notti buie, animate da mille suoni e misteriose presenze, su tutto il gracidare delle rane nel fossato che mia sorella ed io, quasi come una prova di coraggio, pescavamo illuminando l’acqua con la luce metallica della lampada a carburo infilzando i piccoli anfibi con colpi secchi fra i rebbi della fiocina. Espressione del desiderio di aggredire la natura, ma anche di incorporarla, e la sensazione che solo tu potessi capire.
Mi lasciai andare rimbalzando sullo schienale della poltrona. Cercai di focalizzare i ricordi, ma su tutti si sovrapponevano sempre i tuoi occhi, luminosi come quelli di certi animali quando nel bosco penetrano il buio e la notte.
Mi sembrava di non essere vista, nella mia selva, ma i tuoi occhi trapassavano l’oscurità e sapevano andare oltre, nel profondo, accarezzandomi qualche volta con la morbidezza di un guanto di velluto, altre volte con la mano ruvida di chi mi invitava a non cercare sempre la spiegazione ad ogni perché. Rimanevo confusa, ma capivo che quella mano mi aveva toccato il cuore e le viscere mettendomi a nudo e scavando verità in ogni mia piega. E mi sentivo come una pietra preziosa, quando, mondata dal grezzo rivestimento del materiale di cava che per anni l’aveva tenuta nascosta, risplendeva dell’unicità della propria luce.
Se penso a quelle notti insieme, notti di erba e di rugiada, trascorse ad odorare l’aria e ad odorarci dentro le narici seduti sui bastioni di quella che ora non è più la mia città, all’improvviso sento che sto ricordando con la pelle e con le labbra, e toccando con le mani. Una comunione uomo-natura, istintività e purezza, la necessità di non dire e di non fare perché già detto e già fatto. Tutto questo era rimasto indimenticabile, quasi a suffragare l’immortalità di certi attimi che da soli rappresentavano l’eternità.
Eppure il mio essere giovane e il mio essere donna non sempre riuscivano a comprendere i momenti in cui tu non c’eri, in cui tu sparivi senza telefonare, oppure telefonavi fissando un appuntamento che molte volte disattendevi. Mi struggevo chiedendomi perché e vivendo uno stato di precarietà nel quale non facevo che tessere la tela delle probabilità. Come quella volta in cui, dopo averti aspettato per un’ora sotto la pioggia decisi, facendo l’autostop, di venire a casa tua, il tuo monolocale da studente di ultimo anno di biologia.
Chi mi avrebbe detto che tu fossi stato solo? Salii le scale inzuppata dalla testa ai piedi per sentirmi dire, quando mi apristi: “Ti stavo aspettando.”
E rimasi così, bagnata fra le tue braccia, e tu bagnato di me.
Mi resi conto, ben presto, che uno come te non lo si poteva addomesticare, uno come te non lo si doveva capire, ma solo sentire. Tu stesso avevi fatto dei sensi la tua bussola e per quello che non sentivi non c’eri. Ma per quello che sentivi, respirando e annusando l’aria, per quello tu c’eri; travolgente come una mareggiata estiva nel saper sorprendere, emozionare, amare.
Sentivo che un rapporto come il nostro non lo si poteva imbrigliare nelle convenzioni di una relazione a modo, omologata come tante altre; questa formula ne avrebbe decretato la morte.
L’amore che nasce sotto il segno della stabilità spesso vuole ciò che il desiderio rifiuta, e allora, piuttosto che distruggere la grandezza e la bellezza della nostra storia, decisi di preservarla intatta nel ricordo, e fu un motivo occasionale che sancì quello che non fu mai un addio, decretato dal ricevimento di una tua lettera, da una notte insonne e da un cuscino bagnato di pianto.
4 ottobre
Finalmente mi hai detto chi sei, finalmente il mio spirito investe la “coscienza” che lo circonda, come un inutile immondezzaio…
Sei la mia vittoria-sconfitta, ma la durezza forgia ed ora, dopo le mie ultime mille prove (per dimostrarmi che le mie sensazioni negative fossero in realtà errate), sento di aver aggiunto alla mia vita una ulteriore piccola stilla di vano, ESALTANTE tormento.
Capire… cercare… Verità inutili all’uomo!
Ti avevo trovata, una notte, nel mio regno di inverosimile chiarezza, come una stella piena di luce, di disponibilità a comprendere e “soffrire” con me, non per me.
Non volevo essere un maestro, non una guida; niente di tutto questo e tanto meno un fenomeno da baraccone del quale invaghirti…Troppo banale per il GRANDIOSO che hai saputo offrirmi in quel fragoroso, irripetibile attimo di vita.
Sei stata la mia Principessa… Dirti “Ti ho amata o ti amo” per me sarebbe come svilire il tutto, vanificare la purezza gestuale di certi istanti forse solo sognati da te, ma da me vissuti in tutta la loro potenzialità di essere.
Ho pensato a lungo alla montagna solitaria che mi aspetta. Partirò, forse, o forse no…
Non mi sento indebolito nella mia inconcepibile essenza di sempre, ma non temo una lacrima operosa che forza i miei occhi.
Freud, Fromm, Jung… hanno tutti parlato dell’uomo, dimenticandosi che la vita fa parte di esso.
Anatomia della distruttività umana!
Questa volta un crepuscolo dorato è sfuggito alla carezza morbida delle nostre dita.
Vorrei baciarti a lungo e stringerti forte per ritrovare ancora solo una volta, nell’amplesso di un saettante sprazzo di vita, la Principessa di un dì mai trascorso che saprà di certo accompagnarmi per sempre.
Ma in realtà posso solo ripeterti un “grazie” di forma. Si fa così, dicono… e la coscienza dell’uomo, bardata della sua ridicola sella dorata, può continuare a testa alta la sua cavalcata.
So di non poterti più tendere la mia mano, per quanto lo vorrei, ma… fa’ tua la vita, senza regalarti ad essa.
Ciai, mia insostituibile Principessa.
Massimo
Sì, “ciai” era proprio ciai e non ciao. Nessun errore.
Me lo spiegasti un pomeriggio mentre assumevi una delle tue facce buffe: occhi leggermente incrociati e le dita della mano riunite sui polpastrelli a toccarti la punta del naso. Eri bambino, quando, guardandoti i piedi nudi, li salutavi: “Ciao”, dicesti, per fermarti subito a riflettere, con l’evidenza disarmante che solo i bambini riescono ad esternare, che i piedi erano due, e pertanto doveva essere “ciai” e non ciao.
Dopo il tuo racconto abbiamo iniziato ad usare regolarmente questo saluto fra di noi.
In seguito non l’avrei più rivolto a nessun altro, ma un mattino, in spiaggia, osservando i piedini morbidi e grassocci del bambino di un’amica, sorridendo ai suoi occhi blu e ai raggi di sole che penetravano fra i rami dei pini, mi uscì spontaneo un “Ciai, ciai…” Lo ripetei più volte solleticandolo, mentre lui, sgambettando e succhiandosi il pollice, rideva e gorgheggiava.
Mi alzai. Fossi stata una fumatrice sarebbe stato il momento adatto per accendere una sigaretta, ed invece uscii sul terrazzo. La notte era fredda in coda all’inverno, nessuna luce nel cielo la cui immobilità strideva con l’agitazione dei miei pensieri. Mi sentivo sopraffatta da ricordi che scoprivo intatti e resistenti al trascorrere del tempo, identici a certi insetti rinchiusi da centinaia d’anni nelle gocce d’ambra e poteva accadere che, liberandoli dalla resina, riprendessero a volare. Cercavo intanto a fatica di darmi una risposta: che faccio? Ci vado?
Rientrai nella stanza scrollandomi di dosso il freddo ed accogliendo come rassicurante lo strofinio del gatto sulle mie caviglie.
La mattinata in ufficio trascorse velocemente in una riunione fiume, indetta senza preavviso, per la possibile acquisizione di una commessa in uno dei Paesi new entry in Europa: tempistica per la realizzazione di un edificio campione.
Durante la pausa pranzo il mio cuore proseguì a palpitare fuori controllo, mi sentivo come un cocchiere che aveva a che fare con una pariglia di cavalli imbizzarriti.
Quando Emma mi chiamò si accorse subito che c’era del movimento nell’aria, e le spiegai.
“Amica mia, signora tutta calcolo e progetto”, disse. “Per una volta lasciati andare alle fantasie del cuore. Incontrare Massimo è un tuo desiderio, e ogni desiderio rappresenta vitalità per la nostra esistenza. Rilassati e fammi sapere com’è andata.”
Emma era sempre stata incoraggiante quando si trattava di far volare i sentimenti e di liberare emozioni. “Il desiderio non è mai scorretto”, aveva aggiunto.
Sì, ma chi mi diceva come sarebbe stata oggi la tua vita privata? Potevi essere felicemente sposato e con dei figli, anche se, onestamente, non ti ci vedevo in questa veste.
La sera passai da casa, ne avevo tutto il tempo, e poi non avevo intenzione di arrivare in anticipo a quella conferenza.
Le luci lungo il molo si rispecchiavano sul mare calmo, alcune navi da carico attendevano l’entrata in porto, illuminate come certi barconi estivi che transitavano a festa lungo i fiumi della pianura Padana. Il rumore dei miei passi sulle lastre di pietra, che ricoprivano quella che per me restava una delle piazze più affascinanti d’Italia, echeggiava del timore dell’attesa.
Entrai nella sala già gremita di gente: cittadini, anziani e molti giovani. Mi sedetti in ultima fila, con l’intenzione di non essere riconosciuta. Di certo non sarebbe successo, dopo tanti anni ed in una città che non sapevi potesse essere la mia.
All’improvviso pensai alla tua mutata corporeità, nei limiti della tua persona fisica e del tempo. Mi vennero alla mente certe cene a scadenza decennale con gli ex compagni di liceo: calvizie e pancetta per i maschi, qualche ruga in più e fianchi ben torniti per noi femmine.
Dovetti ricredermi guardando una tua foto all’interno del pieghevole che avevo trovato sulla poltroncina. I capelli erano cortissimi, quasi rasati, forse a mitigarne la caduta e il grigio, che peraltro ti donava moltissimo e metteva in risalto l’azzurro fiordaliso dei tuoi occhi.
Un metro e novanta e due gambe lunghissime. Ricordo di averci spesso scherzato, sopra alle tue gambe, chiedendoti se il femore fosse attaccato direttamente all’articolazione delle braccia. Non dovetti tardare molto perché tu ti materializzassi sullo stage insieme agli altri relatori, tra cui anche una famosa astrofisica. Jeans e giacca blu, non eri cambiato nemmeno nella scelta dell’abbigliamento.
Dopo la breve introduzione dell’assessore, che spiegò l’emergenza cittadina dovuta alla presenza del nuovo ospite dal pelo ruvido, fosti presentato e ti venne data la parola. Alle tue spalle l’immagine slide di un antico bassorilievo che rappresentava una scena di caccia, ed un’altra raffigurante la statua in bronzo di un cacciatore alle prese con un robusto cinghiale.
Non era cambiato nemmeno il timbro caldo della tua voce che immediatamente mi riportava al Sud. Il Sud arcaico e poderoso, dalle origini greche, quello magico e superstizioso, il suo mare e i suoi fondali rosso corallo, il tempo delle vacanze e della festa. Grande forza seduttiva nel tuo Sud, che così tanto ti assomigliava.
“Trieste si trova ad avere una popolazione di oltre un centinaio di cinghiali quasi urbanizzati, e non è un fenomeno unico”,(4) iniziasti così il tuo intervento.
“Cinghiali vivono oggi non lontani dalle case di Genova, Torino, Barcellona e Berlino. Se ci chiediamo se questi animali sono pericolosi, se qualcuno qui ha il timore di poter essere sbranato dai cinghiali quando esce di casa, allora devo rispondere assolutamente di no, è certo però che un gran numero di cinghiali senza controllo non giova agli uomini e costituisce un danno per l’ambiente, ovvero per l’uomo che in quell’ambiente ci vive. Quali sono i danni? Il più evidente è l’impatto sull’agricoltura. Dalla notte dei tempi i cinghiali sono stati considerati una peste per i contadini, e se ne sono accorti i proprietari dei vigneti qui attorno alla città.”
“Sette secoli prima di Cristo, Omero, nel IX libro dell’Iliade, riportava che: ‘Un feroce cinghiale selvaggio, Calidonio zanna candida, prese a conciar male la vigna; molti alberi alti stendeva a terra, rovesci, con le radici e la gloria dei frutti. L’uccise Melèagro, chiamando cacciatori da molte città e cani, che vinto non l’avrebbe con molti mortali’. A quel tempo la caccia al cinghiale si risolveva in una rischiosa lotta con reti, bastoni, lance e spade: di sicuro non era un hobby domenicale. Lo dimostra l’immagine di questa statua alle mie spalle, dove l’eliminazione del cinghiale Erimanto, che distruggeva le coltivazioni del re Euristeo, è considerata una delle dodici fatiche di Ercole. Nel bassorilievo su sarcofago che invece vedete qui a fianco, datato 180-200 d.C. e rinvenuto a Badia di Cava dei Tirreni, è rappresentata appunto la storia di Melèagro. Particolarmente interessante la figura femminile alla destra della scena, potrebbe essere Artemide che presiede all’inizio della caccia, ripresa nell’atto di caricare l’arco con il quale si appresta a prendere parte alla battuta di caccia del cinghiale Calidonio.”(14)
“Il cinghiale appartiene ad una specie intelligente, adattabile e opportunista. Avendo nel suo corredo genetico pure l’eredità lasciatagli da qualche avo domestico o uso a essere alimentato, accetta di buon grado il cibo che gli Homo sapiens urbanizzati gli mettono a disposizione in zone dove non vi sono cacciatori o predatori.”
Perdevo facilmente il filo della tua relazione e delle tue risposte alle domande del pubblico che seguirono. Era come se tu mi assorbissi nel ritmo della tua esistenza mentre incontrava le scansioni della mia memoria. Quando c’eravamo conosciuti? Vent’anni fa? Ieri? Mi sembrava di conoscerti da sempre.
La famosa astrofisica, nota per essere anche un’appassionata ambientalista, ti fece notate che se i cinghiali erano arrivati fino in città, era perché la città, espandendosi, aveva tolto loro lo spazio.
Le rispondesti che sì, era vero, ma lo stesso spazio la città lo aveva tolto anche a cervi, tassi, ramarri e capinere. Perché allora, queste specie non avevano invaso la città? Semplicemente perché non avevano saputo adattarsi alle modificazioni indotte dall’uomo, e così se ne restavano in ambienti ancora sufficientemente naturali. Il cinghiale aveva, al contrario, molti altri assi nella manica, e ne elencasti diversi, ricordo l’essere onnivoro e opportunista (ma onnivoro veramente, dalle ghiande ai topolini, dagli spinaci, alla pizza, ai funghi) oltre che intelligente e oculatamente prolifico. Con poco cibo le femmine capobranco si riproducevano partorendo tre cuccioli in primavera; con molto da mangiare, ogni femmina poteva partorire sino a otto cuccioli sia in primavera sia in autunno, con il risultato che una popolazione di cinghiali poteva così quasi triplicare da un anno all’altro.
Non avrei mai pensato di trovarmi interessata ad un animale che non sfiorava la mia memoria simbolica né quella conoscitiva. Il cinghiale non suscitava in me alcun tipo di emozione. Ero ospite di un evento che mi trascendeva. Ero ospite della tua aura, e incominciavi a rassomigliare alla perfezione ideale, qualcosa di meglio del reale, ti prospettavi come un orizzonte pieno d’incanto e io camminavo a raggiungere quella linea, come a cogliere, insieme alla tua presenza, una parte di me dimenticata, o solo assopita.
Uscii dalla sala alla fine di un concitato dibattito nel quale gli ambientalisti ti accusavano di aver dichiarato che “i cinghiali erano troppi”. Spiegasti che “troppo”, dal punto di vista scientifico, voleva dire andare oltre la capacità portante di un ecosistema. In altre parole una specie diventava troppo abbondante quando cominciava a mettere a rischio la sopravvivenza di altre specie. Hai dovuto ribattere all’accusa di essere un arciere cacciatore e spiegare perché ti definivi un conservazionista, seguace della filosofia ambientalista “Wilderdness”.
Fuori si era alzato un vento freddo, ma altrettanto carezzevole. Ero uscita da quella sala, ma continuavo a respirare la tua presenza e mi sentivo esposta a un sentimento forte e delicato così come solo l’amore sa esporre quando ti porta in alto, in cima, sul picco più elevato, per liberare il tuo volo lasciandoti accadere, lasciando che accada la vita.
Ritornavo con una certa frequenza al mio paese di origine. Dopo nemmeno un’ora di guida cominciai a non sentirmi bene. Non ero più abituata alla nebbia che imperversava in pianura durante i lunghi autunni fino all’inizio della primavera.
Era uno dei motivi per cui consideravo un privilegio abitare in una città di mare insieme al senso di libertà e di fuga che il mare stesso sapeva offrirmi. In antitesi ai ricordi della mia adolescenza quando le giornate trascorrevano nell’afa estiva, immobile e piatta come la noia che mi opprimeva nei pomeriggi che si ripetevano sempre uguali, uguali al frinire delle cicale e al rumore che ero certa di avvertire come un lento schiudersi e allungarsi nella crescita quasi carnale delle piante di granoturco.
La fitta umidità mi entrava negli occhi e nelle orecchie lasciandomi un claustrofobico senso di vertigine. Fortunatamente nel fine settimana l’autostrada era sgombra dai pesanti tir che invece la percorrevano in una pericolosa processione negli altri giorni. Imboccai l’uscita Ferrara riconoscendo a stento le strade ed il paesaggio che mi portava al paese dove ancora abitavano i miei.
Avvertivo come una fretta, una sorta di necessità di ritornare oggi in questi luoghi, un’urgenza che non mi aveva mai lasciata da quando ti avevo rivisto, da quando avevo sentito che c’eri. Avevo bisogno di venirci ora in questa Betlemme del nostro incontro e la nebbia aveva la capacità, nel suo ruolo protettivo, di nascondere le cose e di renderle accessibili solo a chi sapeva e voleva cercarle.
Ricordo che una coltre di nebbia fitta era scesa quasi all’improvviso in un tardo pomeriggio autunnale trascorso insieme a Venezia, come una sorta di sipario magico che ci impediva qualsiasi forma di pensiero temporale che non fosse quello legato all’attimo presente, al raccogliermi nel tuo abbraccio e al tepore del tuo respiro. Ancora oggi riesco a perdermi a Venezia, anche con il sole, evocando un sipario che, fra turisti e calli affollate, riesca ad isolarmi dalla realtà per sentire ancora l’odore di quegli istanti.
La nebbia cominciò lentamente a svaporare facendo apparire un pallido sole e il complesso di un vecchio borgo le cui case, per lo più abbandonate, conservavano il fascino di certe vecchie signore piene di rughe, ognuna scavata nel solco della vita. Quella con l’ampio cortile, nel quale sgorgava ancora copiosa l’acqua di un’antica fontana, era stata la casa dei miei nonni prima, e dei miei genitori poi. Ti avevo fatto entrare in quella casa, già allora vecchia e cadente, e tu mi avevi fatta uscire ammantata di uno splendore principesco.
Lasciai l’auto vicino agli alveari di legno ancora ben allineati. Respirai l’odore della fontana dall’acqua solfurea insieme al ricordo delle mucche che, allora, rispetto alla mia altezza di bambina, mi apparivano enormi mentre si abbeveravano con avidità. Di tanto in tanto sollevavano la testa alzando fili di bava e saliva per venire poi sollecitate con forza al ritorno nella stalla per mano dall’anziano vicino della nonna.
Da tempo questa casa doveva essere demolita, in realtà era ancora in piedi e a me non dispiaceva. Era come se i ricordi che mi legavano a questo posto si opponessero, resistendo tenacemente a qualsiasi forma di ristrutturazione. I racconti di mia nonna, dolcissima nonna, l’angelo custode che invoco ancora oggi nei momenti di difficoltà, e quelli dello zio Giorgio, ritornato con un braccio amputato dalla battaglia di Caporetto. Ero piccolissima, e lui, alzandomi da terra, mi stringeva forte con quel moncherino che mi avvolgeva come un tentacolo, e dal quale non avrei mai voluto liberarmi. “La morte si sconta vivendo”,(5) lo ricordavo ripetere. Solo più tardi avrei trovato il senso di quel suo pensiero nei bellissimi versi di Ungaretti.
La porta d’ingresso era chiusa a chiave, cercai di aprire lo scuro di legno che facilmente cedette. Scavalcai la finestra e mi ritrovai nel vecchio soggiorno, irriconoscibile ora che si presentava come un vano polveroso segnato dal tempo e da un accumulo disordinato di materiale per l’edilizia. Salii la scala che portava al piano superiore; i gradini in granito erano ancora molto belli e mi accompagnavano verso la stanza che aveva suggellato questa casa all’eternità lasciando una traccia indelebile nella mia memoria interiore. La camera da letto dei miei genitori, e di altri prima di loro, aveva un magnifico pavimento in legno che mia madre soleva passare, ogni fine settimana, con un olio color mogano per mantenere le doghe lucide ed elastiche. Ragni operosi erano diventati padroni delle due finestre, luce e bagliore sui campi coltivati. Mi inginocchiai, e in quel silenzio quasi religioso, accarezzai con il palmo della mano l’antica e serica polvere, respirando attraverso la pelle un’emozione fortissima. Chiusi gli occhi per vederti meglio, per rivedermi tra le tue braccia e schiusa al tuo calore. Su quel pavimento avevo liberato dal profondo gocce di piacere che si erano sciolte nella notte. Dal profondo, sì, perché tu avevi saputo entrare dentro di me come nessuno mai, accordando i tuoi movimenti con i miei. Contrazioni della mia anima ad avvolgere il tuo cuore. I momenti che seguirono in quella notte, in quella stanza, e su quel pavimento, erano avvolti da un’estrema dolcezza, tale da farmi riconoscere ancora oggi l’energia ed i colori della vita pensando al tuo abbraccio. Essenza pura, racchiusa in pochissimi istanti che da soli mi avevano permesso di ritrovarti sempre, anche nel mai.
Mia madre mi aspettava con il pranzo già pronto e dovetti scusarmi per il ritardo.
La casa dove abitavano ora i miei genitori si trovava poco lontano dalla vecchia, ed era il ricordo dell’arrivo di una certa modernità: la televisione, il telefono, il casco per i capelli.
La stufa in ghisa, quella, c’era ancora. Riscaldava la cucina e manteneva costante la temperatura dei cibi all’interno di pentole e teglie. Un senso di tenerezza mi pervase nel guardare mio padre nel mentre, curvo, in quel gesto sempre uguale nel tempo degli inverni, alimentava il fuoco con ceppi di legna che ardevano rapidamente, scoppiettando con vivacità. Mi chiesi se si meritasse quel mio sentimento, ma il rispetto per gli anni nel loro scorrere lento come le acque di un fiume, che inesorabilmente si dirigono verso la foce, non restituì risposta alla mia domanda. Era bello mio padre da giovane e particolarmente in quella foto, sempre in bella mostra sulla credenza, dove indossava la divisa da alpino. Alto, slanciato, spalle forti e gambe lunghe. Era finita la guerra, ma io, come un novello Telemaco, ero ancora in attesa del suo ritorno.
Il pollo come lo cucinava mia madre era un’inimitabile delizia: erba cipollina, finocchietto, il ripieno con le frattaglie, ma soprattutto una cottura molto lenta.
“Te ne preparo un contenitore da portare a casa, lo puoi mangiare domani. Ci aggiungo anche gli spinaci…”
Mia madre mi vedeva sempre come la figlia minore, non sposata, come la primogenita, costantemente in battaglia contro il tempo. Spesso si lamentava dicendo che investivo prevalentemente sull’affermazione personale e sul lavoro, sacrificando possibili legami sentimentali.
“Gli anni passano, non si è felici rimanendo da soli, senza un affetto profondo.” Può darsi che avesse ragione, ma la mia vita era sempre molto piena e non pativo alcun tipo di sofferenza; e poi incontri e relazioni non sono pianificabili, spesso, anzi, sono alimentati dal destino e avvolti dal mistero.
La nebbia oramai quasi diradata, e la sollecitazione di mio padre, preoccupato per la possibile scarsa visibilità che insieme al buio avrebbe reso pericoloso il mio rientro, mi indussero a ripartire nel primo pomeriggio.
Apprezzai il calore uniforme del mio appartamento in città mentre il gatto mi accoglieva stiracchiandosi sul tappeto.
La spia della segreteria telefonica lampeggiava. Oramai tenevo la segreteria solo per Emma: sapevo quanta poca confidenza avesse con i telefonini e con la tecnologia più in generale.
“Ciao Maddalena, mi aspettavo una tua chiamata. Com’è andata con il principe del Sud? Non ricordo più se hai tu i biglietti per lunedì, l’arteriosclerosi incipiente… Fatti sentire.”
Chiamai Emma poco più tardi. Rimase stupita quando le dissi che non mi ero fatta riconoscere alla conferenza, non me l’ero sentita, ero troppo emozionata, o forse avevo paura di apprendere i cambiamenti che ci sarebbero potuti essere nella tua vita privata.
“Ma non hai nemmeno un numero di telefono, nulla nel caso tu ci ripensassi?”
Avevo preso con me il pieghevole dove comparivano alcuni numeri di telefono di diverse associazioni delle quali tu facevi parte o con le quali collaboravi, non sarebbe stato difficile rintracciarti, e poi c’era la rete.
“Maddalena, ci conosciamo tu ed io. L’amore sfugge a qualsiasi controllo razionale e nelle cose dell’amore nulla possiamo decidere. Io una telefonata gliela farei.”
Non facevo che pensare a questo, infatti, telefonarti, o scriverti una mail, oppure un sms. Sì, l’avrei fatto, sentivo che non poteva che essere così.
Il lunedì mattina in ufficio mi accolse con tutto il sospeso della settimana precedente e con il responsabile alla tempistica a consegnarmi i moduli da completare con urgenza.
“Fammi respirare, Claudio”, gli dissi.
E sentivo di non essere lì.
Feci svogliatamente qualche telefonata ad alcuni fornitori. Non avevo mai atteso così ansiosamente l’ora della pausa pranzo. Al rientro chiamai la prima delle associazioni elencate sul pieghevole, mi sembrava di non riuscire a riacciuffare i battiti.
“Signora, il professor De Luca non sarà in ufficio per tutta la settimana, ma se lei avesse urgenza lo può trovare…” Avevo il tuo numero di cellulare.
Decisi per un messaggio, e questo fu il primo che ti inviai.
Accidenti! Sono riuscita ancora a perdermi, qualche giorno fa, a Venezia, tra San Marco e Rialto un sipario di nebbia. E ti ho pensato.
Maddalena
11.44
Il mio cellulare squillò quasi subito. Ringraziai per le nuove pareti divisorie in vetro insonorizzato.
“Maddalena!” Era la tua voce, proprio la tua voce.
“Come stai? Dove sei? Che fai?… Io… e tu? Non è possibile, ero a Trieste per una conferenza solo poche sere fa!”
Ero emozionata, eppure avevo pensato a cosa avrei potuto dirti, ma non mi veniva nulla. Avevi un figlio di diciotto anni e vivevi solo, da quasi quindici. “Del resto era prevedibile”, aggiungesti. Ci scambiammo i rispettivi indirizzi di posta elettronica.
Il mio azzardo nel cercarti e la felicità del ritrovarti, alla fine di quella breve conversazione, si tramutarono in una condizione fisica difficile da descrivere: il vuoto nello stomaco simile ad un passaggio in auto a velocità sostenuta sopra un dosso, una piacevole spossatezza, una sottile e vibrante inquietudine nelle terminazioni nervose.
Un breve suono e il piccolo schermo del mio telefonino si illuminò:
A volte occorre perdersi per ritrovarsi… Stamane sono felice. Ti sfioro. Una carezza e un sorriso.
Massimo
13.26
I ricordi sono affiorati molto spesso, come una sorta di “sempre nel mai”. Avevo paura, ritrovandoti, di non poterli preservare con la stessa intensità. Grazie.
13.35
Intensità, Magia, Tenerezza… E la Purezza di indimenticabili pulsioni giovanili… da sempre accarezzo, con ali di farfalla. Grazie a Te.
14.31
Forse ho un super-io troppo rigido…
17.17
Da molto tempo ho imparato a dare ascolto unicamente al mio SENTIRE di Uomo selvatico. E solo in questo trovo piena Verità. Tu sei il più dolce e intenso dei miei ricordi. E ancora oggi adoro il tuo super-io.
17.38
Sei sempre incredibilmente Tu…
18.02
[continua]