Confini sottili

di

Consuelo Ziggiotto


Consuelo Ziggiotto - Confini sottili
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 74 - Euro 8,70
ISBN 978-88-6587-5605

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In copertina e all’interno: fotografie dell’autrice


Prefazione

“Ditemi
dove il verde cessa di essere un colore
e diventa foglia”

Dove finisce una cosa e inizia il suo altro?
Cosa separa l’ultima cellula della nostra epidermide da ciò che è “fuori” e non ci appartiene?
In quale attimo magico il suono dell’anima “cessa di essere acqua e diventa rumore”?

La poesia di Consuelo Ziggiotto è una lama, più sottile dello spazio tra le molecole dei corpi. Cerca il punto dove incidere, sonda la resistenza della materia. Talvolta si arrende e scivola oltre, altrove apre decisa o disperata, stillando umori di vita e di morte.
Perché essenza ibrida è ogni confine. Nero e bianco, morte e vita: l’uno compenetra l’altro senza apparente soluzione di continuità. Questa è la verità che l’autrice ci sussurra ad ogni verso.

Eppure ogni “Limes” ha porte che si possono schiudere in subitanei spiragli: ora sono labbra dai denti stretti che trattengono la voce delle emozioni, tranciando e separando il dolore dal sorriso, ora invece sono palpebre chiuse a liberare lacrime che solo la pioggia potrà asciugare, annegandole senza far rumore. “Così la pelle è il confine mai esistito di me stessa”, involucro destinato ad essere violato dalla morte, mentre il grembo di una madre è una morbida prigione liquida, dove piccole mani sfiorano le pareti in attesa di una rottura che porrà fine alla libertà per dare inizio alla vita.

Sono carne viva i territori dei Sottili confini di Ziggiotto, sostanza significante più che vuoto significato. La loro esplorazione richiede di estendere l’uso dei sensi, facendoli migrare l’uno nell’altro in una osmosi continua.
Guardare la voce, bere “un profumo che inebria le narici / si fa fiore agli occhi, / portando la bellezza per mano, dritta al cuore”, pronunciare un suono dentro alla bocca dell’altro “per farlo entrare da dove è uscito”. Solo questa fusione sensoriale permette alla poetessa di camminare lungo gli orli dei precipizi, sporgendo i piedi “per vedere fino a dove gli equilibri mi tengono in vita”. O cercare di appoggiarsi all’orizzonte che divide il cielo dal mare, arrendendosi infine a stare distesa “lungo la linea che l’acqua disegna / scrivendo il punto in cui inizia ad essere terra”.

Sa quando arretrare Consuelo, ma sopra ogni cosa è consapevole che fermarsi di qua del limite significherebbe morire nell’illusione di sopravvivere.
Allora per non far marcire la vita, coprendo di terra il nuovo “sè” che chiede di essere nutrito e non sepolto, è necessario forzare le barriere con l’impeto congiunto di un’onda oceanica e di un terremoto, infrangendo e spingendo, entrando e mescolando:

“Sfondo la vetrata della vita
rompendo in frantumi il respiro”
e ancora
“coraggio, affonda [...] mischia la vita a questo rimasuglio di morte”.

Occorre uccidere la morte con una spinta disperata e infilarsi ad occhi socchiusi negli squarci momentanei che si aprono ad ogni passaggio di stato, superando le categorie del tempo e dello spazio per abitare pienamente e finalmente il presente.
In quegli attimi la gravità scompare e l’anima può sfiorare i confini tra le nuvole e l’azzurro, sospesa in volo a tracciare la linea del proprio desiderio. Si può finalmente “lasciar cadere l’indifferenza dei vicini di vita / e sostituirla con sorrisi sconosciuti”, restando avvolti in un amore senza giudizio e liberando parole rimaste impigliate nella pelle. Mai dette. Mai veramente ascoltate.

Qui, in questi non-luoghi senza tempo, “germoglia il desiderio di vita [...] che prepotente fiorisce e profuma” tra il sollevar di voci e le spinte dei fianchi, portando con sè l’amore e l’anelito dell’eterno in un turbine bagnato di lacrime e di ricordi che odorano di lacca e di briciole di pane.

Ecco, siamo arrivati. Camminando lungo la linea di grafite disegnata da Consuelo Ziggiotto siamo giunti ad limina, “sull’uscio dell’anima”. È ora di togliersi le scarpe e, in silenzio, restare qui a guardare.

Andrea Pozzan


Confini sottili


Ad Asia e Giona


“Sembrava pioggia finché non svoltava,
Ed allora capivo che era vento…”

Emily Dickinson – 1872


Mi porto addosso un nome,
unico addobbo a me gradito.
Quel suono che pronunciato fa di ciascuno di noi
una storia diversa.
Sillabe accatastate che costruiscono volti,
accompagnando i vagiti fino all’ultimo respiro.
Troppo spesso pronunciamo nomi
senza averne diritto.


Passi nel mondo,
si fingono infiniti.
Luoghi che la memoria non riconsegna.
Svaniscono quanto più li voglio trattenere.
Nella confusione dissolvo i ricordi e non rimangono volti.


Rimango aggrappata a questo bianco
a costo di strapparmi le unghie,
perché fuori di qui,
lontano da questo pensiero,
si apre la materia del buio
che inghiotte con follia cannibale.
Lì, va restituita la vita.


Alle nuvole accade di calpestare l’azzurro
che trascinato sul limitare del suolo,
si abbatte rumorosamente sulla superficie molle dell’acqua.
L’acqua immobile
si lascia trafiggere,
ora da un lampo,
ora da altra più appuntita acqua.
Così il cielo penetra la terra
infilandosi  lungo i sentieri del mare.


La serenità non incide traccia
con la stessa prepotenza di una ferita,
né scrive la sua storia sul volto di una persona.
La carne violata corre ai ripari guarendo,
ricostruendo,
lasciando un solco a memoria del lacerato.
Cicatrici,
testimoni giurate di quanto nessuna gioia nuova
potrà mai cancellare.
Perché richiedono tanta eco nel tempo?
Perché non sanno sostituirsi ad un sorriso?
Perché il tempo non lascia scampo al passato
relegando il futuro tra le pareti di quelle cicatrici?


Non è di ciò che desidero che mi nutro.
Non sono i sogni ad alimentare il mio appetito di vita,
né le speranze si fanno generatrici di spinte.
Ciò di cui dispongo è il mio presente,
unica pietanza commestibile.


Arriva fino a dove l’amore prende forma e consistenza,
poi torna in superficie diventando spasmo
che divertito si va ad accomodare fra le labbra,
incamminandole verso un sorriso.
Oppure confuso, perché risalito troppo fiducioso
si schianta contro una volontà mai espressa
singhiozzando ora tutte le lacrime trattenute di lontano.


La voce si fa traghettatrice di amore
trasportando ciò che l’animo suona.
Proviene da dove l’acqua,
rotolando su se stessa, canta la gioia dello scorrere.
Curiosa e incredula non la tocco.
So che non mi resterebbe nulla in mano.
La fisso con ostinazione,
cercando il luogo in cui smette di essere acqua
e diventa rumore.


A compimento di dove la materia si fa pensiero,
a colmare quanto una prima pennellata ha lasciato sbiadito,
arriva una voce
che uscendo da un corpo si fa spazio entrando in un altro.
Così come lo sfiorare esce da mani che visitano
e consentono ad una salma di ricevere.
Quando i sensi tutti
avranno percorso e attraversato le regioni incompiute,
quando avranno depositato amore,
solo allora potrò pronunciartelo in bocca,
per farlo entrare da dove è uscito.


Ora inarco la schiena permettendo al vibrare di liberarsi.
Ora la chiudo intorno al ventre ad ammutolire un latrato.
Nella furia dei tentativi di vita
mi incollo ad una fatica di vivere che si trascina i piedi.

[continua]


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