Il potere delle parole - Raccolta di short stories

di

Cristiana Romano


Cristiana Romano  - Il potere delle parole - Raccolta di short stories
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 100 - Euro 10,00
ISBN 979-1259510839

eBook: pp. 84 - Euro 5,99 -  ISBN 979-1259510396

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In copertina: «Chamomile in cracks of asphalt road. Single chamomile breaking through road. concept of nature and environment protection. copy space. soft selective focus» © Ju_see – stock.adobe.com


Liberare l’uomo dalle proprie catene è pressoché impossibile: senza rendersene conto, ciascuno di noi trascina molti fardelli e limita la propria felicità in modo diverso.
La struttura sociale, altamente organizzata ed ordinata in cui siamo orgogliosamente intrappolati, ci spinge alla costante e narcisistica ricerca di autogratificazione, ci porta a commettere anche le azioni più ignobili, allontanandoci dalla perfezione di Dio e dal Suo disegno di benevolenza.
Tuttavia, ogni miseria umana, futile o seria che sia, rende noi tanto più umani e meritatamente imperfetti quanto più bisognosi della benevolenza divina.
In quest’ottica, la raccolta “Il potere delle parole” offre trentacinque piccole storie che raccontano di altrettante fragilità ed invitano il lettore a guardare ad esse con umana benevolenza in un tempo, quello attuale, in cui incertezze, vanità, paure, mancanze e divisioni ci accomunano fortemente e necessariamente richiamano tutti noi al valore di tale predisposizione d’animo, la sola che abbia a che fare con il cuore dell’uomo e possa riavvicinarlo a Dio.
Buona lettura!

Cristiana Romano


Il potere delle parole - Raccolta di short stories


“È in ogni uomo di attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare la sostanza di una cosa.
Ed è nello scrittore di crederlo con assiduità e fermezza.
È ormai nel nostro mestiere, nel nostro compito. È fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto ad ogni indagine.”
Elio Vittorini


BOLLE DI SAPONE


“Tra gli arroganti e i prepotenti, gli ambiziosi che vanno di fretta, i furbi che aspettano al varco, ci siamo noi un po’ fragili e un po’ feriti che ci incantiamo a guardare le bolle di sapone.”

Fabrizio Caramagna

Sono l’ultimo di cinque figli, il più corpulento ed il più forte in salute tra i miei fratelli.
Fui dato alla luce senza ricevere l’abbraccio di mia madre quando, per mettere insieme il pranzo con la cena, mia nonna paterna si arrabattava con i quattro soldi che mio padre le lasciava rincasando la sera tardi dopo una giornata di lavoro trascorsa tra malta e cemento.
Da piccolo mi vennero passati abiti, scarpe e balocchi usati. Il riutilizzo era pratica comune allora: aggiustare e recuperare si rendevano necessari.

Gli anni della miseria – si sa – non corrono dietro ai libri, bensì al pane e la miseria del tempo non permetteva granché: c’era poco e quel poco andava fatto bastare.
Le scuole da frequentare erano le elementari, dopodiché si riponevano grembiuli e colletti per abbracciare i campi o miscelare le polveri delle opere in muratura. Perciò, così come i miei fratelli, anch’io interruppi presto gli studi e corsi a dissodare la terra.

Degli anni della miseria ricordo bene il maestro Severino, il parroco Don Antonio ed il dottore Archibugi, miei consiglieri saggi e fidati. Questi tre uomini detenevano le verità della parola e del numero, della salute dello spirito e della carne. Nella realtà semplice eppur sincera del paese in cui vivevo erano le sole persone a meritare il rispetto di tutti.
Cos’altro occorreva in quei tempi, del resto, se non saper leggere e scrivere, far di conto, trovare conforto nella preghiera e mantenersi in buona salute?
Il maestro, il sacerdote ed il dottore profumavano di giusto. Nulla condividevano con i popolani, nonostante se ne occupassero con cura e dedizione quotidianamente.
Mai più incontrai uomini di siffatte premura e solerzia.

Crescendo imparai a guardarmi da impostori ed ubriachi, da falsi amici e veraci nemici. “L’esperienza è il solo insegnante in cui possiamo confidare” sentivo ripetere spesso dal maestro Severino. E ne sapeva di cose lui!
In egual modo al maestro Severino, che mai indossò la spocchia dei saccenti o l’arroganza dei potenti, anch’io mi mantenni umile ed accogliente: le fatiche della terra, allora, allontanavano presto qualsivoglia smania di arrivismo o cambiamento e recuperare le forze fisiche era ciò che i poveri diavoli come me desideravano per il nuovo giorno prima di coricarsi a letto con le ossa rotte.

Degli anni della miseria, altresì, ricordo con malinconia i giochi vissuti con i fratelli.
Da bambini ci intrattenevamo ore nel verde tra trottole di legno, biglie di vetro e bandierine di carta colorata. Quando poi la nonna preparava il sapone di Marsiglia, sorridevamo ingenuamente nel fare le bolle di sapone.

Ogni bolla che si librava in aria, perfetta nella sua sfericità, assumeva il riflesso delle nuvole o dei rami degli alberi nei colori del blu, del magenta e del giallo oro: la meraviglia di quel velo sospeso lasciava intravedere l’incanto della leggerezza e la magia dell’iridescenza.
Allo stesso tempo però, ogni bolla che svaniva in aria, ferita nella sua stessa sfericità, frantumava il sogno che portava con sé e che, sempre in quegli anni, ne colorava la superficie: la fragilità di quel velo sospeso mostrava implacabilmente tutta la caducità dell’esistere, nel dolore di ciascuna sua manifestazione.


COME UN FRUTTO ACERBO


“I figli iniziano amando i loro genitori,
in seguito li giudicano.
Raramente, se non mai, li perdonano.”

Oscar Wilde

Amava abbracciare la grande quercia rossa.
C’è qualcosa di sacro – Mary credeva – nell’abbracciare gli alberi.
Lo considerava un piccolo dono per l’anima.
Nel silenzio di quelle presenze, immobili ma vive, respirava profondamente e ad occhi chiusi si lasciava cullare dal profumo del legno.

Il bosco caducifoglio che cingeva la città, naturale cintura di pace e benessere, la richiamava sempre più spesso da quando gli ambienti di casa si erano resi un campo di battaglia e gli scontri tra il padre e la madre dei conflitti quotidiani.
D’altronde, l’attraversamento adolescenziale, così almeno come le veniva presentato dalla società adulta, le procurava insofferenza e fame di verità.
Fuggire nel bosco, sicché, l’allontanava dalle grida e dai dissapori di chi a quel tempo, invece di ascoltarla e rassicurarla, era intento, urlando sempre più insistentemente, a rivendicare le proprie ragioni.
Raggiungere il bosco, inoltre, riusciva a restituirle la sua personale visione del mondo, al quale si riprometteva di non adeguarsi in alcun modo passivamente.
Così, mentre nessuno in casa si accorgeva della sua assenza, la quindicenne dalle mille lentiggini oltrepassava in sella allo scooter i confini dello spazio urbano e si spingeva verso la distesa di verde con lo zainetto sulle spalle.
Quanto più la ragazzina accelerava, tanto più aumentava la distanza che la separava dal logorio della discordia genitoriale. E quanto più ella annientava tale logorio, tanto più allentava il carico emotivo che le gravava dentro.

“Ogni forma di vita trova il suo posto nel bosco, si riappropria di sé. Il terreno, protetto dalle radici, non viene trascinato via dall’acqua. La luce, infine, madre di tutte le creature, filtra timidamente, riscalda ed illumina senza mai infierire”, pensava Mary mentre le sue esili braccia provavano ad avvolgere il tronco della grande quercia rossa.

La grande quercia rossa, che dimorava nel bosco da più di vent’anni e già aveva raggiunto i trenta metri in altezza, appariva agli occhi della giovane come una gigantesca fiamma ardente. Il colore rosso acceso della chioma arricchiva, difatti, la bellezza di quell’autunno ancora caldo e soleggiato. Le dimensioni importanti del tronco ed i rami possenti ne stabilivano, poi, l’esatta supremazia: nessun altro albero di alto fusto avrebbe popolato il bosco nelle sue immediate vicinanze. Resistente e vigorosa, la splendida arborea era riuscita a superare le estati più siccitose o i più rigidi inverni e, anno dopo anno, si lasciava apprezzare dai visitatori per la fascinosa ed infuocata livrea.

Abbracciando la rovere, oltre a darsi pace, Mary ne traeva parte del vigore a sostegno del peso della consapevole fragilità e parte del fascino che, data l’età, sentiva mancarle.
La fanciulla era turgida, asprigna e pallida: come un frutto acerbo s’affacciava alla vita tra momenti di panico e confusione, tra insicurezze e mezze verità.


IL POTERE DELLE PAROLE

“…di là dal mare allora t’ho cercata…
e tu, tenera luna
delle mie notti,
sei corsa a confortarmi.”

Anonimo

Simbolo indiscusso del mare (e dell’amore) è una minuta scultura in bronzo posta all’ingresso del porto di Kobenhavn, alta poco più di un metro.
La chiamano La Sirenetta, Den lille Havfrue in danese.
Dolcemente adagiata su uno scoglio attende l’amato Principe. Il suo destino di sirena è di dissolversi in schiuma marina, come celebre fiaba racconta.

Ritrovai quella vecchia cartolina tra le pagine di un’agenda di mia moglie, da lei abbandonata a lungo nel terzo cassetto della malandata scrivania.
È incredibile quanto prepotentemente riemergano i ricordi con il ritrovamento di oggetti a noi lontani: come un forziere robusto, il tempo custodisce gelosamente anche il più piccolo dei tesori.
Complice in questo quella cartolina, comperata giustappunto parecchi anni prima nella città in cui soggiornai per un gemellaggio universitario della durata di sei mesi e che riproduceva due gabbiani in volo sull’azzurro smisurato del mare.

Fu esattamente davanti alla delicata scultura del molo Langelinje che compresi di tenere a Daisy e, con l’irragionevolezza propria della giovane età, decisi di dimostrarle apertamente i miei sentimenti.
Fino ad allora quello tra noi era stato un avvicinamento amicale, fatto di uscite tra conoscenze comuni e pressoché insignificanti. Eppure, le informazioni essenziali lanciate dall’uno e raccolte dall’altra – una miscela alchemica di sguardi, sorrisi ed ammiccamenti – avevano palesato già una sintonia speciale, che non poteva più essere ignorata.
Così, mosso dalla figura sottile in bronzo del pesce-fanciulla in metamorfica attesa, a pochi passi dal molo acquistai ed inchiostrai il cartoncino per la corrispondenza, fermamente convinto che Daisy avesse dovuto sapere.
Le parole, tormentose e dolci nel contempo, fluirono rapide sulla carta e senza sbavature per mio attento uso della stilografica.

Daisy aveva ventidue anni.
Alla naturale bellezza dei due grandi occhi nocciola accompagnava il candore dell’incarnato e la ribellione degli incalcolabili ricci non definiti.
Le piaceva il rosa: non mancava mai d’indossare un capo d’abbigliamento o un accessorio, anche futile, di tale colore.
Profumava vagamente di pesca, forse per l’uso di un’acqua corpo leggera e dalle note fruttate.
La conobbi tra i corridoi universitari per mezzo del fratello Patrick, un perditempo che aveva fatto delle lezioni all’università l’occasione utile per incontri e filarini. Al contrario di Patrick però, Daisy studiava con passione e ciò presagiva chiaramente che sarebbe diventata un ottimo medico.
Il pensiero di lei, misto al desiderio di abbracciarla al rientro, riuscì a rendere più sopportabile la mia permanenza a Kobenhavn, trascorsa tra barbosi aggiornamenti e la consegna di immancabili relazioni scritte.

Spedii, quindi, la cartolina con premura, accertandomi che fosse affrancata correttamente perché sempre correttamente giungesse all’indirizzo da me indicato.
Affidai a quel piccolo cartoncino inchiostrato una grande responsabilità: condurre di là dal mare i miei sentimenti per Daisy attraverso le parole ivi albergate.

[continua]


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