Il lucor ch’immortal si serba

di

Cristiano Comelli


Cristiano Comelli - Il lucor ch’immortal si serba
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 332 - Euro 15,50
ISBN 978-8831336826

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In copertina: fotografia dell’autore


Ci sono parole che viaggiano con te. Per sognare devi farle salire a bordo della navicella del tuo cuore. Esse conoscono il segreto della leggerezza e te ne fanno dono. E insegnano anche a te a saper diffondere questa leggerezza fino a toccare, senza accorgersene, l’infinito che regna in te.


Prefazione dell’autore

Che cosa intende essere questo libro? Un dono che contraccambia altri doni. Perché ciascuna delle persone che qui ho cercato senza presunzione ma facendomi consigliare soltanto dal cuore è stata, per il mondo, un dono. E già per questo si è garantita l’eternità. Ci sono mille modi di essere dono per un uomo, vi è chi lo è da artista, chi da scienziato, chi da giornalista, chi da politico. Nessuno di questi doni è più o meno importante dell’altro. Perché non esiste una gerarchia del dono. Esistono sì mille modi di esserlo. Talora più visibili, talaltra meno. Talora i frutti di questo dono si raccolgono nel futuro, talaltra in modo immediato. Ma vi è qualcosa in tutti questi grandi uomini che mi è venuto in mente di omaggiare che va al di là dell’essere stato dono. Qualcosa che forse loro non avevano pensato di essere o addirittura non volevano essere: la capacità di saperci insegnare a essere, a nostra volta, dono. Perché, alla fine, un uomo scopre la sua autentica grandezza nella dimensione del donarsi. E, dal momento che si è affermato non esistere affatto una gerarchia del dono, che si faccia in regalo al mondo una goccia o una nuova teoria filosofica o scoperta scientifica, una nuova canzone o poesia, non fa differenza se non di forma. Se proprio di gerarchia dei doni vogliamo parlare essa risiede nell’importanza che essi hanno per la nostra vita. Oggettivamente uguali, soggettivamente diversi. Questo sì, si può dare. Anche qui, vi è chi vede un dono maggiore nell’impresa leggendaria di uno sportivo e chi, invece, la scorge in un’opera teatrale. Cosa hanno fatto tutti questi amici, ci permetteremo di definirli tali perché così li dobbiamo sentire essendo loro stati per noi un formidabile dono, per regalarsi al mondo? Crediamo che essi si siano innanzitutto vestiti di scoperta, di curiosità. Anche qui omaggiandoci di un principio aureo: nulla, ma proprio nulla, nel mondo può considerarsi scontato o già detto. E anche una stessa realtà, vissuta o vista due volte, non è più la stessa. Proviamo a sostare dinanzi a un panorama identico per ben due volte, sentiremo che le nostre sensazioni non sono uguali dalla prima alla seconda occasione. Ecco l’altro grande valore della scoperta, la forza di autoalimentarsi perché il respiro dell’uomo le dice che la sua missione non si è mai esaurita. È una di quelle realtà che non possono dire di essersi compiute neppure in punto di morte. Il primo elemento la centralità della scoperta, il secondo, la sua continua novità abbiamo dunque detto. E il terzo? È il farsi premessa per altre scoperte. Cosicché di una scoperta non rimane mai la sola cenere perché essa rivive in quella successiva foss’anche solo per il fatto di averla permessa, favorita, consentita. Ma sia il gusto dello scoprire che l’esito della scoperta non sono alcunché se restano orfane della gioia. La gioia di essersi concessi la scoperta, certo, ma anche di averla saputa donare. Le due cose vanno in parallelo, se voglio donare qualcosa al mondo devo anche capire il modo in cui io lo possa fare nel modo migliore. E lo posso comprendere solo allorché il percorso dello scoprire che conduce dall’intenzione all’esito finale è animato dalla gioia. Anche qui abbiamo un bel termine polimorfico, gioia. La gioia di capire che l’uomo, ogni volta, è più uomo di prima. O, se si preferisce e come abbiamo amato dire in altre occasioni, è meno mistero a se stesso. Proviamo a pensarci: perché l’uomo vuole scoprire? Perché desidera conoscersi sempre di più, egli avverte quell’insopprimibile desiderio di colmare i tasselli tra il suo essere e il non conoscersi a fondo. Quanto riecheggia da secoli il socratico motto “so di non sapere”. E, ci perdonerà Cartesio cui dedicammo un contributo in occasione della prima raccolta che di quella qui proposta costituisce la sorella maggiore, l’apripista, se il suo “penso dunque sono” lo mutiamo in “mi ignoro, dunque sono”. Dove il verbo ignorarsi è da intendere non nel senso di essere indifferenti al proprio destino ma come volersi studiare. È anche un bellissimo esercizio da attuare nella quotidianità, che bello sarebbe prendersi qualche minuto per studiare un po’ se stessi. Verificare quanto siamo andati avanti rispetto a quanto eravamo ci conduce dritti al senso più sublime del nostro vivere. Più che contare i passi, si tratta di respirarne il profumo. E destarsi dal sonno affermando: ecco, la mia vita ieri ha acquisito un profumo nuovo e oggi si appresta ad accoglierne un altro che gli sarà a fianco. Ecco, i nostri amici che qui abbiamo scelto di ricordare hanno avvertito il fascino di dare ai loro giorni ogni volta un profumo nuovo. E se ce lo hanno insegnato, ciò significa che non esistono dei privilegiati nella scoperta. O se preferite, ciascuno è privilegiato a proprio modo. E già scoprirsi dono è il più bel privilegio che possa esistere. Abbiamo desiderato accostare come appendice di ciascuna poesia una frase che abbiamo avvertito di scrivere sulla poesia stessa e sul suo significato. Nella consapevolezza di voler esprimere a questi amici un ulteriore senso di vicinanza.
Come era accaduto per il precedente volume dato alle stampe, ci è capitato di scoprire in questo cammino di ricerca intenso e molto appagante di imbatterci in personaggi di cui ignoravamo l’esistenza o sentiti soltanto per nome. E abbiamo potuto constatare come molte volte la grandezza del bene da essi compiuto sia stata colpevolmente lasciata in ombra. Perché loro, eccettuati pochissimi casi, non cercavano affatto la gloria. Noi, invece, dobbiamo cercare di rendere loro la gloria che meritano perché, appunto, furono un dono preziosissimo per il mondo. A volte si trattò di personaggi famosi soltanto nel loro ambito, in una ristretta cerchia di persone. Ma esiste, e lo abbiamo avvertito, un dovere di rendere più diffusa con la nostra più che povera penna la memoria di quanto fecero. Nel modo in cui la pensava Adam Smith a proposito del mercato, per cui la ricerca della ricchezza di un imprenditore per se stesso genera comunque ricchezza per tutti grazie all’attività ch’egli intraprende, riteniamo certamente che queste persone, facendo il loro bene, fecero anche quello degli altri. Ecco la magia del dono: il bene che si è per se stessi abbandona la propria persona per farsi bene universale. Non è più un bene individuale nel momento in cui lo si fa. Pensiamo ai filosofi, agli scienziati, agli scrittori certo. Ma nondimeno abbiamo in mente anche i cantanti e i musicisti i cui virtuosismi vocali sono diventati patrimonio di emozione che dimora in tutti. O anche le prodezze di indimenticabili calciatori che si sono fissate per sempre negli occhi dei molti appassionati del mondo della sfera di cuoio. Non vi è memoria soltanto in un libro, vi è anche in un istante, in un’azione da gol, in un acuto preso meravigliosamente, in un assolo di chitarra. Diventa memoria ciò che sa passare dal livello di constatazione a quello di emozione. Noi non siamo per l’approccio dei positivisti cui pure al loro massimo esponente abbiamo ritenuto di dovere rendere omaggio in questa raccolta; non ci accontentiamo della descrizione del reale, vogliamo prendere una posizione su di esso ritenendo che in questo modo soltanto lo si viva veramente. Torniamo all’esempio del panorama: l’approccio positivista ci dice che dinanzi al nostro sguardo sta una montagna, un fiume, un prato, un lago, un sole splendente, una nuvola di forma particolare e mai vista. Quello che invece riteniamo dover prevalere ci dice invece che ognuno di questi elementi assume per noi un valore diverso che va al di là della sua immediata constatazione. Memoria universale e memoria particolare. Non vi sarebbe la prima se non vi fosse la seconda. La memoria è nel cuore e nella mente di chi sa osservare e sentire convinto che questa sia la porta d’ingresso al cercare di capire. Senza mai capire in modo esaustivo. Personalmente siamo contenti del fatto che, quando un giorno più non saremo, qualcun altro al posto nostro cercherà di osservare, sentire e capire dando continuità alla nostra storia. Ci sorreggono le splendide parole del filosofo idealista Fichte allorché, nella sua sublime opera “Missione del dotto”, parlò del sedimentarsi della conoscenza tra le generazioni cosicché ciascuna di esse dà al mondo qualcosa che il mondo non possedeva prima e arricchisce la storia di tutti, a beneficio di tutti. Così è per i pensieri, così anche per le emozioni. E questo è anche il modo migliore, da un lato, per sperimentare la ricchezza della nostra solitudine e per annullarne la povertà. Perché la solitudine è sempre un Giano bifronte, ha un aspetto positivo nella misura in cui ci consente di studiarci e uno invece negativo quando vogliamo negarci al mondo, inteso non solo come persone ma anche come realtà che ci circondano. E se la prima deve essere sempre ringraziata e ben utilizzata nella sua fecondità, la seconda è invece da estirpare, da trafiggere con la spada di una rinnovata, mai doma curiosità. In questo mondo nessuno di noi è per caso. Esiste per un disegno preciso, non per una semplice e a conti fatti anche offensiva se considerata quale unico elemento, combinazione di energia e di atomi. Libero di pensarla così Epicuro, della cui filosofia abbiamo comunque subito la fascinazione al punto da dedicargli un ricordo, ma noi siamo ben più di atomi. E non siamo né caso né necessità, per riprendere due concetti accostati tra loro da Jacques Monod in un suo libro. Siamo atto d’amore chiamato a essere a nostra volta atto d’amore. L’amore a noi donato come vita, per valorizzare questo dono, esige di farsi amore creativo.
Esattamente come fecero coloro che abbiamo qui inteso ricordare con la nostra povera penna, abbiamo l’esigenza di essere amore multiforme nella sua creatività. Perché amore e novità sono sinonimi, l’amore ha questa proprietà di non essere mai uguale a se stesso, di non conoscere ripetitività, questo, beninteso, se è amore autentico. Talora si sente qualificare come amore quello che è un insieme di gesti meccanici, ebbene quella è noia, non è affatto amore perché gli manca il requisito della novità. E per portare novità nell’amore occorre amare l’atto di amare. Questo fecero i nostri amici qui, amarono l’atto di amare attraverso i loro contributi questo mondo. E amarono, prima ancora, l’idea di mettersi in gioco, di esplorarsi fino in fondo e senza scorciatoie nell’attività a cui si dedicarono. Questa è un’altra parola magica dell’amore, esplorarsi fino in fondo, cioè cercare di conoscere sempre più se stessi attraverso quanto si dona. Perché la conoscenza che diffondiamo attraverso quanto facciamo è sempre comunque un arricchimento della conoscenza di noi stessi. Autoconoscenza e conoscenza vanno praticamente sempre di pari passo. Non sapremmo concepire un conoscere che non sia anche un conoscersi. Sarebbe quanto dissociare l’uomo dal proprio atto conoscitivo, un proiettare la conoscenza all’esterno dell’uomo quasi come se fosse totalmente altro da lui. Inconcepibile davvero, e davvero desolante. L’atto del conoscere deve sempre ricondursi a un padre che è chi questo conoscere ha amato, prima di tutto nella sua esigenza di conoscenza, poi nell’atto materiale del conoscere. È un processo circolare estremamente affascinante, conoscersi, conoscere, conoscersi e via discorrendo. Il conoscersi alimenta il conoscere e viceversa. Sempre con l’identificazione del concetto del conoscere con quello dell’amore, come ci hanno insegnato diversi filosofi. E non disgiungendo dall’idea del conoscere quella dell’avere per sé e del dare più sicurezza al mondo. Qui stiamo con decisione con il sublime Baruch Spinoza che, nel suo “Trattato politico-teologico”, sostenne che la conoscenza fosse il modo per ridurre la nostra paura delle cose, perché nulla ci spaventa di più di quanto non conosciamo. Ma prima ancora viene la necessità, a cui tutti coloro che qui ricordiamo si accostarono, di frantumare quel muro che si chiama paura di conoscere. Che è poi, lo capiamo facilmente, paura di vivere. Non si vive se non si conosce e non si conosce se non si vive. Come amore e conoscenza viaggiano sullo stesso scompartimento della vita sedute l’uno di fianco all’altra, lo stesso riterremmo di poter affermare del vivere.
Non può poi non colpire un altro aspetto. Lungi da noi il voler demonizzare o decretare l’inutilità della tecnologia. Le persone che qui abbiamo inteso ricordare, però, mossero tutte da un’altra tecnologia, quella della loro materia grigia, della loro mente, ma anche delle loro emozioni. Vi è infatti qualcosa che la tecnologia non saprà mai regalare all’uomo ed è la capacità di sentire, di amare. Anche la capacità di appassionarsi fortemente a quanto si fa e si progetta. Si ha oggi l’impressione che sia la tecnologia a dominare l’uomo ma intesa come dimensione impersonale, fredda. E la domanda ci sorge spontanea: come fa l’uomo che ha comunque, anche il più insensibile, un cuore caldo a partorire qualcosa di freddo? E allora, laddove la tecnologia fa passare dal caldo del cuore al freddo di una ragione che non sente più se stessa ma è asservita a qualcosa d’altro di privo di sentimenti e talora anche di meschino, non può che imporsi un ritorno all’uomo. E questo crediamo sia un altro dei messaggi inviati da tutti i protagonisti di questa raccolta, tornare all’uomo. Vorremmo quasi scomodare il filosofo cinico Diogene di Sinope quando, camminando con la sua lanterna in pieno giorno, esclamava a gran voce “cerco l’uomo”. Perché poi questi amici che abbiamo inteso ricordare con povere ma sentite parole sembrano davvero interrogarci dalla dimora dei secoli in cui vissero: ma noi uomini ci cerchiamo realmente come tali?
Riuscire a dare qualcosa di nuovo al mondo equivale anche un po’ a cercare se stessi. Coloro a cui qui abbiamo voluto dedicare un commosso ricordo hanno certamente voluto cercarsi, o meglio, hanno voluto cercare la parte di loro stessi che intendeva, lo abbiamo detto, conoscersi e attraverso questo fare conoscere realtà nuove e affascinanti. È molto bello che questo cercarsi che dovrebbe essere patrimonio saldo di ciascuno di noi riesca poi a diventare bellezza universale. Dal particolare nasce l’universale. Dal semplice, come insegnava Cartesio nel suo memorabile “Discorso sul metodo”, si va al complesso. Perché l’atto del conoscere è atto di semplicità, intesa come umiltà. Il vero conoscere non si nutre mai di presunzione ma di desiderio di allargare se stessi e il proprio orizzonte di pensiero che della presunzione sono l’esatto opposto. Ed è la migliore risposta a quella presunzione del conoscere che è proprio quella che tale conoscere ingessa. Si può conoscere e conoscersi in mille modi, navigando, dipingendo, poetando, recitando, suonando, cantando. L’essenziale è capire che ogni contributo dato non farà mai essere il mondo la stessa realtà che era in precedenza. Ed è una diversità intesa come pluralità sincronica e come evoluzione diacronica. È bella da constatare nel singolo tempo in cui si vive e da apprezzare come una tappa che prepara a qualcosa d’altro di cui, magari, non saremo spettatori ma che comunque ci affascina. Perché poi chi compie qualunque prodigio come gli amici che qui ricordiamo non si pone soltanto il discorso del proprio tempo. Egli fa dono del suo essere e di quanto scopre a ogni tempo.
Un cenno al titolo che si è deciso di dare a questo libro lo dobbiamo pur fare. Avremmo potuto chiamarlo “Al perenne sfavillar due” ma siamo sempre stati dell’avviso che ogni volume abbia una sua unicità e quindi abbiamo deciso di intitolarlo “Il lucor ch’immortal si serba”. Che, rispetto allo scorso titolo, ci sembra fotografare un po’ meglio l’intenzione che abbiamo non soltanto di fare rifulgere il ricordo ma di cercare di farlo dimorare almeno un po’ nei cuori di chi ci farà l’onore di leggerci. Il concetto di “sfavillar”, infatti, rimanda all’idea del brillare, ma quasi di un brillare fine a se stesso se poi non si traduce in reale ricordo in chi di quello sfavillio decide di godere, di chi decide di farlo suo. Non, vi prego, in base a chi qui vi scrive e ha cercato con la sua modesta penna di immortalare persone di grande spessore, ma perché quegli uomini meritano di essere uomini in noi per quanto hanno donato al mondo. Ricordare non deve mai costituire qualcosa che tenga separata la nostra anima dall’oggetto del ricordo ma deve essere una simbiosi tra noi e chi ricordiamo, cosicché quest’ultimo possa abitare in noi con la bellezza e la delicatezza di un maestro che, senza presunzione alcuna, ci vuole accompagnare nel non semplice ma sempre fascinoso viaggio della vita. E diciamo vita, non esistenza che pure troppo spesso, e a nostro modesto avviso in modo inopportuno, sono considerate forme sinonimiche. L’esistere rimanda più a una dimensione biologica e di abitudinarietà, il vivere, invece, a una dimensione complessiva che include anche lo spirituale e la creatività, la novità. Se quindi questi nostri amici esistono semplicemente in noi finiscono per essere non altro che dei soprammobili che mettiamo nelle abitazioni delle nostre giornate, se vivono, invece, essi hanno sempre qualcosa di nuovo da dirci e a cui ispirarci. Ecco un altro elemento che ci pare opportuno evidenziare sia pure senza perderci in troppe parole: è necessario che questi amici e quanto da loro compiuto sappiano dirci qualcosa di nuovo ogni giorno, pur essendo sempre uno il loro messaggio che si è tradotto in mirabile opera. E questo fatto che abbiano qualcosa di nuovo da dirci dipende assolutamente da noi. Ma di più ancora, il processo risulterebbe incompleto qualora questo nuovo non fosse da noi tradotto in novità che cerchiamo di dare al mondo. Come possiamo, con i talenti che nostro Signore (noi siamo di coloro che ci credono) ci ha donato e senza arrivare a donare al mondo una nuova teoria della relatività o una nuova scoperta matematica che pure sarebbero le benvenute. Sì, benvenute in un mondo come questo che sembra sempre più stritolato dalla tendenza a demandare alla tecnologia operazioni che potremmo benissimo compiere senza il suo impiego. Questa, amici miei che vorrete leggere, vuol essere un’opera “diacronica e sincronica”. Ci spieghiamo subito. Diacronica perché raccoglie contributi di persone molto distanti tra loro nel tempo, qui ci troverete per esempio il filosofo latino Aristotele come il buon Andrea Camilleri, sincroniche perché tutte si offrono a ogni tempo che viene dopo di loro, indistintamente. C’è un elemento che accomuna il sublime scopritore del “motore immobile” all’autore della serie del commissario Montalbano. E non è un elemento di poca rilevanza. È un elemento connaturato al desiderio dell’essere umano non soltanto di vivere in una realtà, ma di dare a essa un senso, di modellarla, di migliorarla. Ci torna efficace l’immagine dello scultore che, muovendo da un frammento di legno, pietra o marmo grezzi, dà a essi una forma sempre più compiuta. Possiamo immaginare la realtà al modo in cui la si raffigurò allorché gli scienziati si occuparono di illustrare la migrazione dei poli e la deriva dei continenti; vi era un grande blocco di terra denominato pangea (dal greco pan tutto e geos terra, quindi terra intera) e una distesa marina enorme chiamata panthalassa (thalassa in greco, ci scusiamo se molti di voi già lo sapranno ma è utile rimembrarlo, significa mare); l’azione progressiva delle acque causò lo spostamento dei blocchi terrestri fino a dividerli e, lungo i millenni, dare alla terra l’assetto che conosciamo. Certo, molto fece la natura e poi un po’ fece la politica traducendo gli esiti di queste divisioni in confini territoriali artificiali, ma non è qui il luogo per inoltrarci in un simile discorso né ne siamo competenti fino in fondo. Ecco, potremmo immaginare questa pangea di mondo che ancora non aveva una sua compiutezza concedersi all’ulteriore specificazione di chi volle “dividerlo” (nel senso buono del termine) per studiarlo a fondo, dargli un assetto definito e poi cercare di migliorare questo stesso assetto. Farlo passare, ci sussurrerebbe all’orecchio il sociologo Herbert Spencer, da uno stato di “omogeneità incoerente” a uno di “eterogeneità coerente”. Tutti siamo, in ogni generazione, coinvolti in tale affascinante processo. Perché non esiste mondo (del sapere intendiamo) che non possa essere ulteriormente scomposto e si offra dunque alla mente umana per consentirgli di rivelare la ricchezza di questi elementi da scomporre. Anche quando questa missione ci sembra impossibile. Si riteneva non scomponibile ulteriormente l’atomo? Gli scienziati, ci rivela Antonino Zichichi, scienziato di levatura immensa tra gli estensori del cosiddetto “Manifesto di Erice” per la salvaguardia del pianeta attraverso il buon utilizzo della scienza e delle sue scoperte, sono invece riusciti a pervenire alla scomposizione ulteriore di questa particella considerata inscomponibile fin dagli albori del suo apparire, nei contributi dei filosofi greci Democrito e, più tardi, Epicuro. Vedete quanti amici ci vengono da citare? Non vi è uomo che viva invano. Anzi, sapete, la vita diventa vana qualora noi ci neghiamo alla nostra missione di contribuire allo sviluppo del mondo ed è un dono che è concesso a ciascuno di noi indistintamente. Poi, chiaramente, ognuno compie questa missione sulla base dei talenti che gli sono stati messi a disposizione. Ma noi e i nostri amici che abbiamo voluto qui ricordare con affetto prima che con qualche tentativo, di cui ci scuserete la limitatezza, di letterarietà, in questo abbiamo assolutamente tutto in comune: accorgerci di esistere, osservare, sentire, studiare, ricercare, migliorare, o almeno cercare di farlo. E su tutto questo si staglia un fondamentale verbo che è imparare. Un verbo meraviglioso che brilla assai di più del suo contraltare, insegnare. Qui ci viene in mente, perdonateci, anche un appello fraterno ai maestri di ogni ordine e grado: il vostro insegnare non avrà valore alcuno se non sarà per voi contemporaneamente un imparare. Ci dedichiamo giusto un cenno perché la formazione dei giovani, oggi, è fondamentale per agire in un mondo sempre più complesso. È ormai assodato che il rapporto tra insegnanti e studenti non debba più essere unidirezionato ma di assoluta corrispondenza biunivoca. Siamo sempre stati affascinati dagli insegnanti che hanno dato ai loro studenti la possibilità di coltivare e di mostrare i frutti della loro creatività; che meraviglia stupirsi di un allievo che, sulla “Divina Commedia” di Dante, è pervenuto a un concetto a cui l’insegnante, o i suoi compagni di classe, non avevano pensato. Che meraviglia se un ragazzo, su un comunissimo foglio di carta, scrive una poesia su un argomento della realtà che lo ha ispirato e ne fa dono non solo ai suoi compagni di classe ma anche al suo insegnante. E si ode il profumo di bellezza in quegli studenti che vanno a compiere ricerche nelle biblioteche cercando di riflettere su quanto è stato loro comunicato e vogliono rendersene ragione fino in fondo magari compiendo un ulteriore passo di analisi. Ma che bello vedere anche un insegnante che, pur con diversi anni di docenza sulle spalle, non ha smarrito la voglia di imparare. Da se stesso, dai suoi studenti, dalla vita.
Il miglior insegnamento che si possa dare a se stesso, in fondo, è non smettere mai di imparare. Quasi ogni libro contiene una dedica. Ne abbiamo in questo caso due da dover fare, e ambedue molto importanti. Una riguarda una meravigliosa creatura a quattro zampe di nome Jolie, un cane che ci ha insegnato cosa sia davvero l’amore fatto di gratuità e continua a insegnarci, con il ricordo indelebile che di lei ci portiamo, l’importanza della semplicità nel modo di essere, la genuinità nel proporsi, l’amare per il puro amore di amare. L’altra concerne tutti coloro che hanno smesso di cercarsi, di studiarsi. Vedete, la tentazione di smettere di ricercare perché si ritiene, erroneamente, che la vita possa già averci detto tutto quello che aveva da dire è forte e colpisce praticamente ognuno di noi, in istanti e modalità variabili. Ma sappiamo che ogni giorno non nasce affatto uguale agli altri, ha una sua particolarità e diversità che si armonizza con tutti gli altri dei quali costituisce non un doppione, ma un completamento continuo. Vivere è un aggiornare continuamente il proprio essere. E già questo dovrebbe essere sufficiente a dire a se stessi quanto sia bello studiarsi. Anche attraverso chi, studiandosi, fece al mondo doni stupendi come le persone che qui vi proponiamo in versi che non hanno la pretesa di essere capolavori letterari ma autentici omaggi del cuore. Non ci resta che augurarvi una buona lettura. E che ringraziarvi dal profondo del cuore se intenderete concedervela anche per una pagina soltanto.


Il lucor ch’immortal si serba


GIUSEPPE ABAMONTI (rivoluzionario giacobino)

Qual respir in me a infonder ebbe
di libertà sempiterno e indomabil afflato
che di penser brillasse qual d’azione
e’l fruscio alimentasse della rivoluzione.
Puro e soave a guisa di prelibato vino
in me fu a fiorir spirto giacobino
giorni mai ebbi insipidi e vuoti
poi ch’incontrai soprattutto il buon Buonarroti.
Meridional d’indole e di culla
democratico di poetar e filosofia
sulle due rette tracciar disiai la vita mia
ch’a combatter per l’italico popol sempre si sia pronti
come sempre esser lo volle ‘l tuo Abamonti.

“La poesia è una scintilla dell’infinito”


GIUSEPPE CESARE ABBA (scrittore e patriota)

Cairo mio soave germoglio savonese
quel dì tu sol sai qual estasiato cor mi prese
che man a sé avvinse in guisa di destino
ad aver indosso la scintillante giubba del garibaldino
rossa qual ardente fuoco
ma anco quell’indelebil amore
ch’a seguir mi indusse Peppe
che condottiero fue e nondimen gran signore.
Quanto quei dì e quelle spedizion fuor belle
scorrer lo vedrai nel fruscio di stilo
di quelle che chiamar volli “Noterelle”.
Dir non saprei se più le belle lettere o ‘l combattimento
rapir seppero ‘l mio sentimento
di Cesare Giuseppe rimembrar tu devi
l’uomo che fin dal suo profondo
nel suo poter credette far più bello
pur con sua esil presenza il mondo.

“Ogni poesia è il respiro di un miracolo”


FILIPPO ABBIATI (pittore)

Di conca meneghina fiera fui creatura
fratel mio, prest’a partir fu l’esistenza mia
ma i giorni fratelli a me fuoro e mai germi di paura
perché abbellirli disiai con dama di pittura.
A qual pennello in me avvinsesi beltà
poi ch’a dipinger ebbi la santa trinità
colori menai per via qual poesia
per le magion di Torino, Bergamo e Pavia.
Serbar volli il principio color oro
ch’ogni quadro baciar debba la realtà
e qual augel o canto che sorga da un coro
a condur abbia verso l’immensità.

“La poesia è inventarsi nuovi uomini”


KONRAD ADENAUER (politico e statista)

Soavità solidale e incandescente asperità
questo è politica miei signori
ch’a domar prova l’iridescente giostra
d’una malferma e incostante realtà.
Ch’ho da dirti mai Germania mia
mille parole ed espression in una racchiuse
amor teutonico d’orgoglio senza fine
che pur nella tua storia annoverasti alcune spine.
A te m’offri in guisa di figlio e padre
spirito d’autentico e scalpitante cristiano
ch’ebbe a guerreggiar nel suo esser giudice
con il vigliacco veleno hitleriano.
Persi tutto fors’allora ma serbai me stesso
e così il disio tengo che tu mi rimembri addosso
Konrad due gambe solide ebbe in suo cammino
ch’a pronunciarle quasi paiono poesia.
Nome han Cristo che tutti c’assiste e sostiene
troppo esiguo ahimè fu ‘l transito di vita
perché del gaudio ammantarmi potessi
di vederti risplendere un tempo tutt’unita.
Quel dì in cui a Berlin si sgretolò l’infame muraglia
e del sovietico fetido urlo sulla tua pelle
altri non rimane, ch’un fuoco misero di paglia.
Colonia, che dolce e austera
conchiglia sei renana
grato ti son e fui che per te in me germogliò l’idea
d’una comun coscienza europea.
Un paese all’altro avvinto in celestial unione
come note pure e orgogliose
d’una multiforme canzone.
Amico mio d’ogni spazio e tempo
il mio ricordo mai ti sia lontano
Konrad scorgerai nell’estasi del germanico svolgersi
e l’impronta morbida della sua mano.

“La poesia umilia ogni confine”


THEODORE ADORNO (filosofo)

Empito di fiera, inossidabil armonia
per me serbasti a guisa d’immortali ali
madre diletta soave Maria
ch’a te d’abbeverar mi consentisti
di ancestrali eppur moderne seduzioni musicali.
Il dì rimembro ch’a braccia accolsi
avidamente protese
l’amorosa scia dell’espressionismo viennese
ch’a ponente peregrinò come a levante
con il più urlante sol d’una melodia dissonante.
Ma altra, ben m’avvidi, era la mia orgogliosa via
te ebbi per madre, ma anco madama filosofia
ch’a Francoforte sbarcò ‘l naviglio della mia mente
chè con Horkheimer in ricerca vissi fervente.
Istantanea fedele e appassionata a esser fui
dell’ombra lacrimante d’un Novecento sofferente
di libertà un tempo ebbro
che complice scosse l’aria
e or annegata si riscorge
nel fascino traditor e anco infuocato
d’una personalità autoritaria.
O pittor che del mosaico ebraismo
s’apprendesse a tracciar storico, filosofico ritratto
specular di verità e corteggiare di pensiero
fu il viaggiar dei giorni miei festanti qual bambini
inebriante come il profumo del ricordo di mio padre
ch’il viver guadagnò commerciando vini.

“Senza poesia la gioia non ha nome”


LEON BATTISTA ALBERTI (architetto e letterato)

Imperitura estasi, celestial e brulicante svolgimento
ebbe ‘l viver mio tra scintillanti braccia di Rinascimento
la geometrica seduzion in cor saliva
poi che l’intuito a rivelarmi ebbe
magia di profonde linee che nome ha prospettiva.
Amor mio classicità mai doma e spenta
di fasti di rimembranze d’ancestral Roma
dell’urbe matrona ancor rimbomba la Descriptio
eco fedel del mio estasiato stilo.
Novel Vitruvio tra sublimi carceri
di linee a madama precisione spose
scorgermi volli e ancor il di’ rimembro
ove ‘l libro di famiglia dal grembo evase del penser mio
ov ‘a duellar opposi infuocate daghe
di attual borghesia e mai impolverata tradizion.
Tremor avvinsemi in diacronica mano
quando d’essa le linee ebber germoglio
di santa Maria Novella e del tempio malatestiano
e del duom innanzi al qual mortal tu pensi
a’ gloria e splendor che fuor degl’ Estensi.
E a te fratel di terra il “Momus” lascio
ov’ accorgerti potrai di quel indegna sozzura
sia lordar con il politico berciar
l’immacolata purezza della letteratura.

“La poesia è l’architetto più amabilmente invadente del nostro io”


ALCEO (poeta)

Mitilene, diletta e soffice conchiglia mia
ch’in me baglior infuse incandescente di poesia
per te la pugna in corpo e l’alma ressi
perché sempre libera tu rifulgessi.
Mai cosa dura più mi fu di sopportare
che Mirsilo tiran potesseti umiliare
in Pittaco fede nutrii ciecamente
ma ‘l ritrovai poi traditor repellente.
Poi ch’il duce il risucchio subì del destino
in metri scrissi che di gaudio si sorbisse vino
nulla sopravanzar puote l’amore
per la patria in cui si ha natali e per cui talor si muore.
Alceo alfier fu del verseggiare
e sol ti chiede di poterlo rimembrare
ch’in strofe col suo nome tenne onore
dell’Ellade a cui cantò l’amore.

“La poesia è l’antico che bacia il moderno”


VITTORIO ALFIERI (tragediografo)

Spada ancestral mi fosti
cesellata d’astigiana pelle
d’incomprimibil fascino madama
e avversaria sanza fin d’ogne paura
fiera e provocante letteratura.
Teco fender seppi
in anfratti di tempo e spazio
l’umana, a volte tremebonda natura.
Di nobil spirto ‘l cor ebbi intriso
fruscio complice ebbi per superbo destino
d’esser figlio della real accademia di Torino.
Niun luogo a me straniero volli
ch’a un dipresso fosse oppur lontan lontano
Napoli fosse oppur l’insubre Milano
chè fedel cocchio di cultura ebbe la mia identità
nome avea d’indomabile curiosità.
Or ancor ti scorgo
dimora scintillante mia
in piazza san Carlo troneggiar
nel tuo avvenente e mai ruinato mobilio.
E che debbo mai a te dir
Falletti marchesa seducente
ch’a intonsa virtù a menarmi avesti
a sorgenti inebrianti di erotico divagar?
Ma ‘l cor mio e la sua scia, pulzella mai obliata
ad altra direzion fu destinato
contessa d’Albany a me s’offri in approdo di candore
e a indelebil sigillo di sempiterno amore.
Stampato reco in mente e cuore
come bacio che fresca rende la fronte
il verseggiar amico e robusto
del Cesarotti come del Pindemonte.
Qual fu la musa ch’a rapirmi giunse una mattina
in strenna affidando a me la penna
or grave or pure sbarazzina
ch’a ritrarmi volle per immortalar
l’imprese di Saul d’ebraica stirpe
o ‘l maestoso svolgersi d’Antigone o Agamennone tebano?
A rivelar fu ‘l “Misogallo” mio
ch’avversa ai pensier miei rivelò
la transalpina rivoluzione
e anco ebb’ i’ l’Agide
di severità spartana ancestral custode.
A voi or mi rivolgo
sofisti di intelletto ed erudizione
ch’ostacolar voleste dell’uomo di ogni tempo
l’insopprimibil volontà di realizzazione
“Volli, sempre volli, fortissimamente volli”
il baglior d’uno scriver che di libertà odorasse
d’ogni insulsa tirannide nimico
e alfier dell’umana vastità.

“Fortissimamente del poetar vibran i visceri”


ALOIS ALZHEIMER (psichiatra e neuropatologo)

Saper non disio né intendo cesellar definizione
del destin ch’a rivelarmi ebbe
mission di scoprir il velo su una maledizione
ch’ormai nel succedersi delle uman generazioni
serba crudel eppur vera il mio nome.
Markbreit, diadema mio dorato
cesello del respiro mio natale
da te a spiccar il volo tormentato ebbi
che condotto a studiar m’ebbe
gl’anfratti piu’ reconditi de’ corteccia cerebrale.
E allor a manifestarsi ebbe ‘l sogghignante morbo
che violento e indifferente di neuron si ciba
pronto e mai domo, per spinger a impotente consunzione
il cranico scrigno e i nervosi impulsi suoi.
E giorno vedrò mai in cui madama medicina
frenar saprà con inscalfibil maestà
l’emorragia assassina
che il cervello priva diluvial de l’acetilcolina?
Cruccio mi resta ch’Alois consacrar seppe l’esistenza
al solo disegnar fedel ritratto di demenza
ch’il tempo tempo non gli diede almen d’abbozzare
il farmaco che la potesse per sempre sbeffeggiare.

“La poesia è l’innato tremor dell’ignoto che desidera manifestarsi”


ANDREA AMATI E GASPARO DA SALò (liutai)

D’elevazion ch’il son suo con gl’augelli rivaleggia
esser in cotesto liuto maestoso e al tempo sbarazzino
ch’in ogni tempo in corpo d’orchestra urlante giganteggia
e nome reca soave e fanciullo di violino.
Disputa incerta ma anco in fondo vana è signore
dir qual ne sia di noi due il ver inventore
sol importa ch’egli a rivestir abbia d’armonia
ogni nota che con vestito copre di poesia.
Amati il cremonese e Gasparo il gardesano
chissà chi pria l’istrumento fiorir vide in sua mano
ma amico conta che tal lignea creatura
celebrar possa con archetti e corde il ben della natura.

“Il violino diffonde poesia in note”


ANDRE’ MARIA AMPERE (fisico)

Scienza, signor mio
è bacio che su pelle di sfuggente immensità
mille volte vergai in gravida estasi neurale;
quante corse frenate di forme
aver sa questa realtà
che d’afferrar cercai
nel fruscio del calcolo delle probabilità.
Padre, sempre ti serbo in un anfratto d’anima
tu che la tua libertà pagasti
indomabile e sopraffina
con squarcio di lama d’una sghignazzante ghigliottina.
Fors’anche l’intonso respiro della tua generazione
demiurgo essermi seppe, or lo so
di ancelle che nome recan rigore e determinazione
elettrodinamica ed elettrochimica
mi fuoro diluviale nutrimento
nel render l’estraneo mondo frammento del mio mondo
sempre serbai il godimento più profondo.
E or pensare puoi, uomo d’ogni tempo
ch’io mi abbeverai alla tua stessa realtà
che imperitura rimembrante ti sono e sarò
quando della corrente saper vorrai l’intensità.

“Quando ti bacio, ti sto regalando una poesia”


ROALD AMUNDSEN (esploratore)

Color custodisce di incoscienza e di paura
questa scalpitante dama
ch’in pelle d’anima incastonata giace
e nome porta, spirito d’avventura.
Diadema Oslo
tu sol nei miei occhi scorger sapesti
ch’intrisi erano di gelide seduzioni
il fruscio autentico delle mie aspirazioni
esplorare il mistero
per cesellar in me un uomo vero.
Polo che dal Sud e dalla nave Gjoa scintillavi
or lo so
che con l’indomito respiro dei tuoi pack
il mio inceder di coraggio corteggiavi
spedizion fu verso di te non solitario
e certo di sacro e al tempo uman timor intrisa
eppur salda, immarcescibile, decisa.
Cani perirono, periron pure cuori umani
impronta di lor resta in quei luoghi lontani
dissolto è il mio sostrato corporale
dal tetro vol ch’a compier ebbi
da Trombo verso l’uran immortale.
Amico mio, quando gl’occhi serri
inchinandoti ai baci della sera
Roald rimembra per un fascio di secondi
ch’al polar sito di Norvegia
piantare volle la regal bandiera.

“La poesia più bella è sempre quella che non si lascia scrivere”

[Continua]


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