Opere di

Daniela Anita Gaibotti

Con questo racconto è risultata 6^ classificata – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Il Club dei Poeti 2010


Questa la motivazione della Giuria: «L’amore immenso e profondo tra un padre e una figlia: Arturo e lei, Poa, che significa “bambola”. Nel racconto prendono vita, come ad illuminarsi, i momenti passati insieme: la passeggiate, le avventure nelle loro uscite a pesca, a cercar funghi e a raccogliere fiori. L’amore profondo, unico, speciale: l’incontro di due anime in una fusione oltre il tempo, al di là della vita». Massimo Barile


«L’Arturo e la Poa (una storia d’amore)»

Lui era l’Arturo, lei era la Poa o la Stria a seconda dei casi e dei comportamenti.
Lui pareva non avere le idee ben chiare su come ci si dovesse comportare con quel tipo di donna.
C’è da svelare una cosa: anche la Poa non era consapevole di cosa fosse giusto per una donna sapere e fare, perciò si affidava a lui incondizionatamente. E così passavano il tempo libero, quando lui tornava dal lavoro, seguendo lo scandire delle stagioni e delle passioni dell’Arturo, che oggi si chiamerebbero hobbies.
In primavera, perché allora c’erano ancora le stagioni, inforcavano la bicicletta e percorrevano chilometri lungo le strade sterrate, che poi abbandonavano, per andare a cercare le viole e gli s’cepa-sass lungo le rive dei fontanili.
Gli stessi fontanili in cui, durante le torride estati, andavano a bagnarsi i piedi. L’Arturo in canottiera, pantaloncini corti di tela e le ciabatte di rigore, la Poa con il vestito di cotonina e il cappellino in testa. Tornavano all’ora di cena, con un gran mazzo di grosse margherite selvatiche, papaveri rossi, e fiori color pervinca della cicoria: corredavano il tutto le mani macchiate di marrone del lattice dei papaveri e il viso arrossato per il calore e per lo sforzo della pedalata.
A volte l’Arturo la portava nei suoi luoghi segreti, quasi un pellegrinaggio, dove poi si perdeva nei ricordi e le raccontava di quando aiutava suo padre a catturare gli uccellini con le reti, quando era alto così, e si portava la mano desta all’altezza del fianco, per farle capire.
Le mostrava il fosso dove, a dieci anni, aveva costruito una sorta di sbarramento rudimentale con i rami dei salici per intrappolare il pesce e pescarlo con le mani, per aiutare la famiglia a sbarcare il lunario, e gli occhi gli si velavano e la voce gli tremava, poi con la mano scompigliava i capelli della Poa: quello era il segnale che stava riprendendo il controllo delle sue emozioni.
Alternavano queste gite agli impegni inderogabili: dall’inizio della primavera fino all’autunno inoltrato non mancavano mai di recarsi, tre volte la settimana, a pasturare i pesci.
L’Arturo, infatti, era un pescatore provetto che le spiegava, passo per passo, tutto quello che c’era da sapere sulla cattura di quegli animali: quale tipo di esca usare per catturare il persico sole, cosa occorreva per far abboccare l’alborella, che cosa piaceva alla carpa e alla tinca.
A volte, quando c’era la “sciutta” dei canali e dei fossi, armati di stivali, vanga e secchiello, andavano alla ricerca dei vermi.
Non che fosse un’occupazione romantica, per una donna, ma tant’è: come ho spiegato prima, la Poa non lo sapeva.
Lui svolgeva il lavoro più duro: camminando sul fondo dei fossi, con la vanga toglieva delle zolle dai loro argini, le apriva con le mani e ne faceva uscire i lombrichi che poi lanciava alla Poa che, stando sulla riva, li raccoglieva e li metteva nel secchiello. A quanto pare servivano per pescare dei pesci particolari, ma la Poa non ricorda quali fossero.
Era un amore speciale, il loro. Non si erano scelti: si erano trovati.
L’autunno andavano alla ricerca dei funghi: a piedi, muniti di bastoni per scostare le foglie ammassate alla base degli alberi, partivano per la caccia al tesoro.
Camminavano lentamente per ore, senza accorgersi della stanchezza, ammirando le foglie, che ormai cambiavano i loro colori assumendo sfumature magiche; perdendosi a guardare le ragnatele, imperlate di gocce d’umidità, che i ragni tendevano da un ramo all’altro con la perizia delle ricamatrici più raffinate.
L’inverno era dedicato, invece, all’osservazione botanica: gli alberi e le siepi, ormai denudati delle foglie, rivelavano i loro segreti a chi li voleva vedere; la Poa scopriva con meraviglia che le diverse forme delle chiome erano il frutto dell’architettura dei loro rami e che i nidi che ospitavano e che da lontano sembravano tutti uguali, in realtà non lo erano: ciascuno di loro era un piccolo capolavoro di intrecci di materiali diversi.
Era un amore speciale, il loro: non veniva mai messo in discussione: esisteva e basta.
Anche se la Stria, con il trascorrere del tempo, talvolta lo sentiva come una costrizione, da parte dell’Arturo. E allora erano interminabili confronti sugli argomenti più diversi: l’emancipazione femminile, il divorzio, gli scioperi, la contestazione giovanile.
Era un amore speciale, il loro: si trasformava con il passare del tempo.
Poi, inaspettatamente, i loro ruoli si invertirono: lei si assunse la guida e lui si lasciò condurre per mano attraverso le difficoltà della malattia e la consapevolezza della propria debolezza.
Non erano più necessarie le parole, per capirsi: bastava uno sguardo. Quando si lasciavano il loro saluto, a volte, era muto: una leggera pressione delle dita di lui sulla mano di lei raccontava di felicità o di dolore, di serenità o di arrendevolezza, di rabbia o di rassegnazione.
L’Arturo di quando in quando si ribellava, si sottraeva al controllo della Stria, faceva di testa sua: e allora erano arrabbiature impotenti, erano spiegazioni pazienti e piene di pietà e di amore, erano verità taciute.
Poi era arrivato il tempo degli addii: l’amore della Poa non bastò a trattenerlo e, alla fine, dovette lasciarlo andare.
Si salutarono con infinita, dolcissima disperazione.
Non si sono più parlati da allora: di quando in quando, però, l’Arturo torna a trovarla, in sogno.
Era un amore normale, il loro: quello tra un padre e una figlia.

Daniela Anita Gaibotti


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