Con questo racconto è risultata 9ˆ classificata ex aequo – Sezione narrativa nella VIII Edizione del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza «Frammenti di memoria: una donna straordinaria»
Un errore, solo un errore…
Una bella ragazza, non c’è dubbio. Alta, magra e un po’ pallida. Due occhi neri, intensi e profondi. Un portamento statuario e un incedere da gran dama anche se in realtà altro non era che la figlia di Giovanni, un povero contadino come tanti altri nel meridione d’Italia, negli anni ’40. Maria era il suo nome.
Era una ragazza esuberante e allegra, molto intelligente e sensibile. Era la mia migliore amica ed era straordinaria perché mentre si prodigava per me, che mi ero invaghita del ragazzo sbagliato, la sua reputazione andava a farsi benedire e la sua impeccabile moralità era messa in dubbio. Perché? Solo per gelosia e invidia! Lei troppo bella ed espansiva, un padrone alquanto intraprendente (al quale non è mai stato dato adito, intendiamoci!), una moglie gelosa quanto basta e la voce del popolo minarono alle fondamenta la sacrosanta reputazione di una delle persone più pure e buone che io abbia avuto il piacere e l’onore di incontrare.
Ebbe la meravigliosa idea che io e suo fratello Giuseppe saremmo stati una coppia perfetta, e devo ammettere che i fatti le hanno dato ragione, per quarant’ anni Giuseppe è stato un marito straordinario e un padre attento e premuroso.
Col tempo, fortunatamente anche per Maria le cose cominciarono ad andare per il verso giusto. Ricevette una proposta di matrimonio, che nella sua “situazione” era una manna dal cielo. Un certo Antonio; a me non piaceva ma tenni per me la mia opinione. La forzata euforia di Maria non lasciava adito a commenti, semplicemente doveva accontentarsi.
Si cominciò a parlare di matrimonio. Non poteva andare meglio, anche se Antonio continuava a non convincermi. Infatti, poco prima che le famiglie si incontrassero per il fidanzamento ufficiale, Antonio mandò a dire a Maria di aver bisogno della “Prova”. Sinceramente non mi stupiva, era un uomo viscido, insulso e meschino. In sostanza si mandavano a chiamare un gruppo di donne “esperte” e, non ho idea di come facessero, controllavano se una donna fosse pura o meno; una sorta di visita medica fatta in casa. Ora sicuramente vi starete chiedendo come reagì Maria. E come volete che reagisse! Diventò una furia. Era chiaro, Antonio la desiderava e sapeva che, se Maria non avesse avuto quelle calunnie alle spalle, non sarebbe mai stata alla sua portata, aveva approfittato della situazione ma poi i suoi amici, i parenti e tutti gli altri avevano cominciato a canzonarlo e beffeggiarlo, nelle vie riecheggiava la parola “cornuto”. Non riuscì a capire che con quel gesto avrebbe perso definitivamente quel poco di stima che aveva agli occhi di Maria. Infatti, tutto ha un limite, l’orgoglio di Maria e la sua anima ribelle le impedirono di cedere e rifiutò di dargli quella benedetta “Prova”.
La sua rabbia si trasformò ben presto in amarezza e sul suo sguardo cadde un velo di malinconia. Era sempre e comunque sorridente ma quella tristezza che le si leggeva in volto si portava dietro un sentimento di sgomento e di paura, per la solitudine di una vita segnata ingiustamente dall’ignoranza.
Mentre si cominciava già ad organizzare il mio matrimonio, la sempre spumeggiante e allegra Maria, una mattina, non di alzò dal letto per delle fitte all’addome. Suo padre la portò in una città lontana, su al nord, ad operarsi. Diagnosticandole un tumore le esportarono l’utero, operazione riuscita, tornò a casa.
Mia madre andò a portarle i miei saluti. Maria appena la vide le mostrò un cestino di vimini, oggetto tipico della città in cui era stata, e le disse: – E’ qui dentro la prova della mia verginità... – Con queste parole volle farle capire che i medici erano stati certi che fosse ancora pura quando, con un estremo gesto per salvarle la vita, l’avevano privata delle sue ultime speranze.
La situazione per Maria però non migliorò. Fu ricoverata nuovamente in ospedale, questa volta a Brindisi. Io fui irremovibile: volevo andare a trovarla ad ogni costo e mi rivolsi direttamente a mio padre. Gli corsi incontro in lacrime e lui, che era sempre stato un uomo comprensivo, mi promise che ci saremmo andati.
La mattina seguente imbrigliò il cavallo e partimmo. Per portarlo in dono a Maria raccolse il più bel melone della nostra piantagione e per tutto il tragitto lo tenni stretto a me e lo cullai come se fosse qualcosa di estremamente prezioso.
Arrivati in ospedale mio padre mi condusse in una grande stanza grigia. C’era un odore che non vi saprei descrivere, un odore acre che mi stordì. C’erano in fondo due finestroni spalancati ma servivano a ben poco, fra quei letti ammassati, l’aria era densa, asfissiante. In un primo momento mi guardai intorno disorientata, poi assolutamente risoluta mi misi a cercare Maria e l’avrei trovata, anche costringendomi a guardare in faccia uno ad uno tutti i moribondi in quella stanza. Per mia fortuna riconobbi la mia amica dalla manica del maglioncino che spuntava fuori dal lenzuolo. Mi avvicinai piano, quasi in apnea. La maggior parte dei pazienti, lì stipati e dimenticati, dormiva, gli altri si lamentavano in sordina, quasi a non voler turbare la pesante quiete di quel luogo di sofferenza. Maria no, lei non dormiva né si lamentava, se ne stava lì distesa, ad occhi socchiusi, soffrendo in silenzio. Appena le fui accanto si voltò dalla mia parte e con un filo di voce mi sussurrò: – Ti stavo aspettando.- Aveva gli occhi colmi di lacrime ma non pianse.
Avevo voglia, e forse anche un disperato bisogno, di abbracciarla forte ma non lo feci. Non so dirvi bene perché ma avevo quasi paura di farle del male toccandola tonto mi parve fragile. Mi limitai a sfiorarle la mano. Aveva il viso scarno, gli occhi liquidi e le labbra talmente secche, rugose. Banalmente le chiesi: – Come stai?- e sperando, ma sapendo di mentire, aggiunsi – ti vedo abbastanza bene, vedrai che presto tornerai a casa. –
Lei, avendo capito già da qualche tempo che a casa non ci sarebbe tornata, mi guardo prima con uno sguardo che mi fece rabbrividire, era come se con rabbia mi stesse dicendo: – ma credi che io sia stupida?- ma poi dolcemente ritornò ad essere quel suo sguardo malinconico che mi faceva piangere il cuore. Volle prendere la mia mano rosea nella sua così ossuta e pallida e me la strinse con una forza che non avrei mai sospettato che avesse. Mi attirò a se e mi disse: – Sono contenta che sei venuta, cognatina. Perdonami, credo che non ce la farò proprio a venire al tuo matrimonio.- fu in quel momento che piansi. Diventai rigida, le strinsi forte la mano e piansi. Realizzai davvero la gravità della sua malattia.
Mi cadde il melone dalle mani e mi accorsi che mio padre era sempre stato, vigile, al mio fianco solo quando, con una mossa repentina prese il melone al volo evitandogli di fracassarsi sul pavimento unto. Col braccio mi cinse le spalle e mi strinse a se per infondermi coraggio e Maria con una lacrima lo ringraziò.
Benché fosse domenica mia madre mi fece alzare molto di buon mattino e quando andai a prendere il vestito buono, convinta di dover andare a messa, mi bloccò: – Dobbiamo andare nei campi anche oggi, abbiamo parecchio lavoro arretrato. – non era vero, non c’era nessuna necessità, comunque l’obbedienza era la prima regola. La seguii per la tortuosa e polverosa stradina che conduceva alla più lontana ed isolata delle nostre piantagioni. Mio padre non era con noi. Per la strada le lacrime di mia madre mi misero addosso un’inquietudine strana, forse intuii qualcosa…
Maria era morta. E mia madre mi portò lontana per non dover sentire, per non dover vedere e per non dover sapere.
Ancora oggi non riesco ad immaginare le copiose lacrime scendere da quegli occhi duri e scivolare su quelle guance secche e screpolate dal troppo sole, sul viso da rude contadino di mio suocero. Per darsi forza si aggrappò pesantemente al braccio di mio padre. Con la testa bassa, un po’ per dolore un po’ per vergogna di quella sofferenza così manifesta, sussurrò: – Io non capisco… Sono vecchio, ho dato tutto quello che c’era da dare alla vita, avrebbe potuto prendere me. Perché non ha preso me?!- poi continuò quasi come se fosse in preda ad un delirio, – Se fosse venuta la Morte da me, con la falce in mano, e mi avesse detto : “Io devo prendere tua figlia, la tua unica figlia femmina, perché così ha deciso Iddio!” lo sai come gli avrei risposto? “Prendi me, davvero, davvero!” non mi avrebbe fatto paura, mi credi? Mi credi?- e come non poteva credergli mio padre vedendolo in quello stato, non gli rispose niente però, voi avreste saputo trovare parole adatte? – Ho capito! – esclamò all’improvviso dopo un lungo silenzio – secondo me stavolta l’Onnipotente ha sbagliato, sì non ha calcolato bene, sì, sì sono convinto si è confuso! Non può essere questa una scelta pensata con la testa, è stato un errore, come quando dicono che un giovane è morto in guerra ma poi non è vero, hanno sbagliato persona e un bel giorno lo vedi entrare dalla porta di casa e tu lo sai che non è un risorto ma a te sembra proprio così ed è così che è successo con Maria mia, un errore, solo un errore… –
Peluso Daniela