La luce delle stelle

di

Davide Gorga


Davide Gorga - La luce delle stelle
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 94 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-262-8

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In copertina: «Sadr» astrofotografia di Elisa Cavalli


Prefazione

Nella notte che lo circonda, l’uomo privo di certezze, di affetti, di legami, abbandonato a sé stesso, alla solitudine, volge lo sguardo dapprima alla terra che lo ha generato debole, fragile, senza riuscire a scorgere altre tracce che le proprie. Quindi si aggrappa ai suoi compagni di viaggio, e si scopre sperduto, confuso in una folla di spettri che mestamente camminano grigi intorno a lui: fiochi, pallidi, presenti eppure evanescenti come nebbia, continuamente sfuggenti perché tormentati dai suoi stessi dubbi. È questa la notte più nera. Ed allora egli volge lo sguardo verso il cielo e si rende conto che, nonostante tutto, benché il buio abbia invaso ogni andito, non è riuscito a vincere la luce. Lì, solitario, in riva al fiume dell’oblio in cui sarebbe così facile scivolare se solo la sua volontà cedesse per un istante, spicca una nota luminosa, e poi un’altra si accende; presto, un concerto di luce piove su di lui. Luce giovane e arcana, luce vecchia come il mondo, pura acqua di sorgiva che gli ristora l’anima, la monda e la cura; la luce delle stelle, immenso accordo acuto dell’eternità, raccoglie l’anima e l’assolve nell’infinito.
È verso questo miracolo che i racconti di questa raccolta, triplicemente ripartiti secondo la tradizione orientale dell’Ikebana in Terra, Uomo e Cielo, ci accompagnano in un cammino di illuminazione, oltre la notte dell’anima e dentro di essa, nei suoi aspetti mistici, celati.

La ricerca si muove in un piano atemporale che ci è subito presentato in «Shintô», ove la narrazione, attraverso l’artificio letterario della reincarnazione che, questa volta, procede a ritroso nel tempo, si muove di epoca in epoca, mantenendo inalterati l’accento e la tensione narrativa; forti, cadenzati, a scandire una ricerca spirituale che parte dal quotidiano e parla al protagonista con le voci di un angelo, del Buddha, di un bambino, rivolgendogli la domanda che è nata nel suo stesso animo, dapprima inespressa, poi sempre più chiara: “Hai imparato la compassione?” quasi a voler riecheggiare l’universalità della condizione umana, in ogni tempo ed ogni luogo, del bisogno di conoscere, vivere, amare.
Fra le epoche e i contesti più diversi, Gorga plasma sapientemente i singoli racconti, conservandone l’unità tematica e il gradiente stilistico persino nella commistione dei generi, dalla novella alla narrativa fantastica alla poesia in prosa. A volte canto corale, altre assolo prolungato e virtuosistico, il discorso poetico si leva fino all’aspetto mistico dell’essere umano, viandante attraverso la terra, tra gli altri uomini, eppure irresistibilmente attirato dal cielo.

La maestria dell’autore nel piegare la lingua alle esigenze espressive più varie, la perfezione e la purezza sintattica nella costruzione del periodo, gli consentono virtuosismi rari; tuttavia, l’arte non diviene mai sterile sfoggio di bravura; è sempre al servizio della comunicazione, del dialogo con il lettore, per immergerlo, e, talvolta, sommergerlo di emozioni, sensazioni, sentimenti. Il discorso si condensa in poche frasi dall’espressività dirompente, scivola in dipinti impressionisti, torna all’eleganza del prosare sobrio e compatto.

Compassione, infanzia ricordata (e rivissuta), come ne «La Festa del Sake», coraggio, disperazione e speranza oltre ogni umana ragione, dedizione: tutte le sfumature dell’animo convergono in una ricerca semplice e sublime.
Nella luce delle stelle, tra gli abissi immensi dello spazio senza fine, colmo di meraviglie inenarrabili, lo spirito riscopre le gemme dell’infanzia fiorite nell’età adulta e pronte a dare frutti copiosi e belli. L’infanzia stessa risorge ed anzi rifiorisce in ogni età della vita, più vigorosa, forte e compiuta.

Lontano da facili scorciatoie, il cammino che Gorga percorre con passo sicuro è quello duro e impervio della scalata alle vette, tra ferite, battaglie, privazioni. Trasformazioni per giungere alla compiutezza. L’amore, il canto, la felicità conquistati nascono da un’amorevolezza calda come un fuoco nella notte, tersa come l’acqua di un ruscello, viva e piena di gioia. Quella che infine respiriamo insieme ai protagonisti di questi racconti, mai più soli, finalmente accompagnati dalla mistica, eterna luce delle stelle.

Maria Grazia Favenza


La luce delle stelle


Deneb

Il fioco chiarore stellare si dipingeva intorno a me come una favola triste. Solo, accovacciato in un angolo, scorgevo nel cielo cupo e nitido la Via Lattea, le stelle, la diramazione di quella meravigliosa frangia in cui scintillava bianca, spietata, l’alfa cigni, splendente come un ghiacciaio nell’inverno.
Avevo forse una dozzina d’anni ed ero convinto che quella fosse stata la giornata peggiore di tutta la mia vita – e, chissà, forse lo sono ancora – poiché quello che i nostri sensi infantili ci mostrano è spesso più sottile, soave e importante di eventi apparentemente straordinari che occorreranno nel corso della vita. Era la chiave di volta di un’esistenza, rispecchiata nella Croce del Nord1, il cuore di quel Cigno brillante.
Non avevo amici, preferivo leggere, solo, nella quiete. Fu allora che me ne resi conto. Nel raggio lontano di quella luce ricordai che ogni minuscola parte del mio corpo era stata un tempo nel cuore incandescente di una stella, forgiata da mani invisibili più possenti del misero dominio degli uomini, ordita dal destino con cura infinita. Il mio corpo era interamente costituito da scintille stellari che non potevano non conservare il loro fascino, il loro ardore freddo, il loro incanto arcano.
Gli astronomi discutevano di astri di prima e seconda popolazione ma non comprendevano la magia che quelle parole sottendevano. Fra tanti, io solo, in quel preciso istante, mi rendevo pienamente conto dell’armonia cantante con cui l’Universo preparava il nostro corpo, il nostro mondo, il carro sui cui avremmo viaggiato in questa vita.
O forse no.
Forse, in quel preciso istante, qualcun altro fissava Deneb2 con la stessa meraviglia nel cuore e, dovunque fosse, là ero anch’io.

Accanto a me un alto Elfo sembrò sorridere. Il velo tra i mondi era sollevato ormai.
Ed io lo seguii tra le fronde argentate – nella luce delle stelle.


Terra


Riflessi di sole
canti d’altalene,
l’infanzia al fondo
del viale alberato.

Le preghiere tra il vento
e la musica del tempo
che ricade in petali
bianchi di galaverna.

La via è passata oltre
tra locande di sogno,
all’incrocio più arduo
ti attendo, per sempre.


Shinto3

I

Il vecchio scriveva, aveva passato tutta la vita a scrivere; saggi filosofici e storici, novelle tristi e novelle allegre, romanzi dall’aria brumosa come le mattine sul mare e fragili ed esili come cristallo fine, storie di bambini e adulti, di ragazzi presi dalla corrente di sogno. Il vecchio aveva scritto ormai d’ogni possibile paese e condizione, e davanti ai suoi occhi e sotto le sue mani rugose sempre sfilavano nuovi personaggi, buoni o cattivi, saggi o stupidi, mossi dai più differenti motivi. Ma col passare del tempo, quando ormai era all’apice della gloria e del successo, il vecchio si era accorto che, qualunque fosse la loro motivazione, il loro fine ultimo, anche di quelli che finivano inesorabilmente con un capestro intorno al collo, era diverso da quello apparente. Era la comprensione stessa dell’Universo e delle sue leggi. Non perché fossero i suoi personaggi, ma perché era una motivazione universale, l’unica che rendesse una storia degna di essere narrata e raccontata, con o senza arte. Altrimenti perdeva sapore e sembrava scialba come una mattina d’inverno in cui il sole non si decide né a illuminare il giorno, né a lasciare il posto alla pioggia, aprendo una di quelle giornate in cui non si ha nulla da fare, e ciò che si intraprende lo si lascia subito e si ritorna in casa svogliati sperando che giunga presto la notte ed una nuova alba più decisa.
Il vecchio capì in un attimo che tutto quello scrivere, quell’attività febbrile che sempre lo aveva accompagnato, non aveva altro scopo che comprendere il grande mistero dell’Universo, e quelle volte che aveva creduto di far luce sull’animo umano denunciandone le ipocrisie, le bassezze, le volgarità, non erano che poche torce immerse nella più fitta oscurità, e che non aveva contribuito in nulla a svelare l’unica domanda che avesse senso porsi; ora, tutti i suoi amati libri gli sembravano pronti solo per essere gettati nel camino. Avrebbe dedicato quel poco di vita che gli restava a un fine più nobile.
Passarono i mesi. Alla primavera fresca succedettero l’estate torrida e l’ambrato autunno, meraviglioso in lontananza con le sue tinte che si inerpicavano su per la collina, ed ora, alle soglie dell’inverno, il vecchio sentiva di non avere più dentro quel corpo stanco la forza per giungere ad un’altra primavera, ed allo stesso tempo, di non essere avanzato di un palmo nella sua ricerca. Malediceva allora la vita, così breve e ingrata, e si crogiolava nel dolore della sua ignoranza.

Un giorno prese un bastone e s’incamminò verso il paesello sottostante, non era certo una lunga passeggiata, e vide il camposanto recintato, e la chiesa, e più oltre, in lontananza, le prime case. Fu allora che un grande bagliore dorato gli fu davanti:
«Perché lo cerchi?» chiese una voce profonda come l’oceano, alta e chiara come le vette innevate, limpida come il suono di una campana e per la prima volta il vecchio si rese conto che stava parlando con un angelo, pur senza vederlo.
«Se sai cosa sto cercando, perché non mi rispondi?» domandò a sua volta, mentre la mano cominciava a tremare sul bastone. La terra bagnata era scomparsa in un velo luminoso.
«Che cosa faresti della tua vita se te lo dicessi?» chiese ancora la voce d’argento; ma a quel punto il vecchio si sentì avvampare dalla collera, ormai più forte dello stupore:
«Menzogne! Non esiste un fine! Non esiste nulla! Solo questa terra immonda e una morte che annulla tutto, ogni cosa, in cui Dio si prende gioco dell’uomo e delle sue sofferenze. Non esiste niente! Niente!» L’angelo apparve ora risplendente in un fulgore argenteo che si ampliava sempre più, come in una grande risata, allo stesso tempo sembrava che l’aria intorno a lui fosse divenuta allegra e possente; infine, dopo alcuni interminabili istanti, l’angelo parlò ancora:
«Io sono un Angelo del Signore ed egli, per mio tramite, ti manda a dire questo: che la tua domanda è stata ascoltata, e che tu non verrai a lui prima di averne intravisto la risposta, o rinunciato per sempre ad essa.»
Nonostante la calma della voce, il vecchio s’irrigidì in quell’atmosfera irreale, alzò il suo bastone e, colmo d’ira, come un bambino dinanzi ad un gioco che non funziona come vorrebbe, fece per colpire – ma l’angelo era scomparso.

Null’altro rimaneva se non una nebbiolina leggera che andava diradando.

L’inverno venne. Il vecchio percorse più volte la strada sino al paesello, senza più incontrare l’angelo. Un giorno, sentì un dolore lancinante al petto, la vita lasciarlo in un attimo, ed il suo corpo accartocciarsi sotto l’impulso mancante di un cuore malato.
Si levò in alto, attraverso una bruma dorata, abbandonando un corpo che ormai non gli interessava più, attraversò un giardino di sogno e giunse infine lungo le rive di un fiume in cui si bagnava una donna dai lineamenti orientali, precipitandosi verso di lei come una saetta.


II

Il vecchio bambino non ricordava nulla della sua esperienza precedente, né il suo dialogo con l’angelo, né di essere stato un uomo in un lontanissimo spazio e tempo, né tantomeno la mole di libri che aveva scritto e di cui un tempo era stato molto orgoglioso. Nella piazza in terra battuta, giocava con gli altri bambini e tornava a casa la sera, in quella capanna ove sua madre lo aspettava. Quando crebbe, conobbe il lavoro dei campi, il sudore, la fatica, si ammalò e soffrì orribilmente, ma continuò la sua vita come chiunque altro; si sposò assai giovane ed ebbe tre figli che crescevano sani e forti, eppure spesso, quando tornava stanco e lacero dal lavoro nei campi, si fermava a guardare il fiume, come se in esso rivivessero riflessi a lui ignoti, come se una domanda non ancora sorta nel suo giovane cuore dovesse un giorno sbocciare sull’acqua, e quando infine rientrava a casa era di umore strano e taciturno, quasi perso in considerazioni più grandi di lui.
La sua nuova condizione crebbe e divenne per lui un’idea sempre presente, quand’era tra le braccia della moglie, quando vedeva i suoi figli crescere e giocare come un tempo lui stesso aveva fatto; quando nelle notti insonni guardava le stelle. Aveva visto, talvolta, degli asceti che vivevano liberi ai margini dei villaggi, per lo più vecchi e senza alcuna attrattiva ai suoi occhi; essi erano giunti al limite della loro forza vitale, e sarebbero tornati polvere e terra, così pensava. E i suoi dubbi mai espressi non gli davano pace.
Un giorno, quando ormai ogni sorgere del sole non era diventato che una maledizione gravante sul suo cammino, vide un uomo pressoché della sua età seduto sotto un albero, vestito poveramente; un giovane asceta dalla figura composta e serena, e dal suo volto e dalla sua voce sembravano emanarsi mille fiumi d’argento e di vita.
Il giovane vecchio si sedette con gli altri ed ascoltò il suo discorso, ed il monaco lo guardò per un attimo con occhi pieni di una benevolenza e di una saggezza finora sconosciute, e riprese:
«Perché nascita, malattia, morte, il distacco da quanto è piacevole e l’unione con quanto è spiacevole, sono dolore ed affliggono l’uomo; perché la continua sete di vivere e la continua sete di annientarsi sono l’origine di questo dolore, perché solo il completo distacco, l’abbandono, il disseccamento dell’albero che produce brama conduce alla cessazione del dolore; poiché soltanto una vita secondo una chiara visione, un retto pensiero, una retta parola, una retta azione, condotta e sforzo, un retto rammemoramento ed una costante concentrazione producono l’estinzione del dolore.» Ed a quelle parole, il vecchio bambino, ormai divenuto uomo, comprese che tra quella fresca brezza di primavera tutto il suo scontento, la sua collera verso la vita, si scioglieva come un nodo di cui fosse stata tesa la cordicella giusta, e quando l’asceta se ne andò, egli lo seguì.

Ritornò a casa per dire addio alla moglie ed ai figli, ma questa gli si gettò fra le braccia e pianse, e non voleva che il vecchio che era stato bambino partisse; ma alla fine egli disse:
«Tornerò», e la lasciò nella capanna, ripercorrendo in senso contrario alla corrente il fiume che spesso aveva accolto i suoi pensieri.

Passarono gli anni, ed infine fu la moglie a raggiungerlo, e così i suoi figli, ed all’uomo che era diventato sembrava di aver sconfitto la brama, l’ira, la non conoscenza che l’avevano afflitto, contemplando il mondo così come esso era al di là di ogni illusione e speranza e timore, semplicemente come unico Vero.
Per lungo tempo fu appagato da queste conquiste, ma infine ricominciò ad essere turbato, dapprima lievemente, poi sempre più intensamente, poiché se da un lato non riusciva a provare quella compassione che l’asceta, ora suo maestro, insegnava, verso tutti gli esseri senzienti, dall’altro non comprendeva perché esistesse il dolore, perché occorresse liberarsene, perché la vita avesse quel corso e non un altro; ed i suoi pensieri ritornarono al fiume di cui tante volte aveva percorso le rive, come se in esso fosse racchiuso ciò che ancora turbava la sua anima.

Altri anni trascorsero, colui che era stato il suo maestro morì, e così pure sua moglie; l’uomo divenne vecchio ed ancora una volta, mentre meditava dinanzi ad una grande statua, parve che da questa emanasse un alone luminoso che oltrepassava la coltre delle palpebre chiuse inondando la sua mente, ed una voce bronzea, come di campana, che gli parve familiare pur essendo egli certo di non averla mai udita in quella vita, gli rivolse una domanda al contempo solenne ed allegra:
«Hai imparato la Compassione?», ed alla domanda che spesso il suo maestro gli poneva, egli rispose senza muoversi, poiché ormai aveva oltrepassato i limiti dell’ira e della brama:
«No»; quindi, dopo un attimo, riprese: «Se la comprendessi, comprenderei anche la causa del dolore?»
La luce sfolgorante rise e non rispose, lo accolse tra le sue braccia e l’uomo ormai vecchio non si volse neppure a guardare il corpo privo di vita all’interno del tempio; osservò il mondo schiudersi come un fiore e come un fiore appassire, e nella quiete che comprendeva ogni cosa vide chiaramente approssimarsi dapprima lo stelo, quindi la superficie di un mare a lui ignoto, ed infine una strana casa tra le montagne in cui un giovane uomo lavorava duramente.


III

Il bosco intorno alla capanna del fabbro che era divenuto suo padre si stendeva a perdita d’occhio fra le montagne, isolato dal resto del mondo se non per un’esile via ombrosa che si stendeva tra gli alberi alti e slanciati, seguendo la quale si arrivava verso valle in un villaggio chiassoso, verso monte in un tempietto dalla forma strana, con la sua porta a doppia traversa, di un colore lattiginoso; eppure il bambino che era stato il vecchio asceta, contrariamente alle aspettative del padre, non scendeva quasi mai in paese, ma risaliva verso il tempio nascosto o vagava per i boschi, libero e felice, anche se solo, e ben presto imparò che ogni roccia, montagna, albero, lago, aveva un suo posto nell’universo, un suo spazio vitale, era fonte di vita, era un’armonia cantante, quasi fosse uno spirito a sé, vivo e ben desto.
E presto iniziò a dialogare con l’armonia; il vecchio asceta silenzioso, ora di nuovo bambino, vedeva molto più di quanto non fosse considerato reale agli occhi di molti e, benché non fosse spesso in compagnia degli altri bambini, crebbe stimato ed apprese l’arte di suo padre, e fabbricò utensili, cancelli e lame di cui non era l’eguale, lasciando che tutto fosse un gioco nelle mani di un più grande disegno; e quando un giorno incontrò il monaco del tempio sul sentiero e gli chiese perché le persone che incontrava fossero sempre così tristi e preoccupate, o così seriamente impegnate in un progetto, quando per lui esisteva solo un’allegria che lo portava a ridere e cantare anche nella sua oscura officina di fabbro, quello accennò un sorriso e rispose:
«Perché non riconoscono che ogni cosa avviene seguendo l’ordine del cosmo. Ma ricorda,» e qui il suo sguardo divenne serio e penetrante: «esiste anche l’armonia del dolore, e qualcosa mi dice che tu la proverai», al che il fabbro che era stato un asceta rispose sorridendo:
«Questo lo so bene!», ancor prima di chiedersi da cosa derivasse tale certezza. Il sacerdote non disse nulla, lo osservò serio, quindi s’incamminò col suo bastone verso valle, poiché doveva organizzare la processione che accompagnava la divinità del tempio.
Il tempo passava veloce per il giovane, e quando il padre gli presentò una ragazza del villaggio che sarebbe dovuta diventare sua moglie, egli iniziò a ridere, ed a fare cenno di no col capo. La fanciulla rimase impietrita, e presto grandi lacrime presero a scorrere sulle sue guance, ma il fabbro che era stato un vecchio la prese con sé e la riaccompagnò al villaggio, e mentre andavano egli si mise a cantare ed a scherzare, e le indicò i monti, gli alberi, le rocce e le chiese se non sentisse nulla, ed ella rispose: «Sento come un canto lontano», ed il fabbro fu felice, poiché la ragazza smise di piangere all’istante, e ridivenne allegra; di lì a poco sposò un giovanotto del paese, ed ebbe un bambino che spesso andava a giocare nei pressi del tempio in montagna e non di rado si fermava presso la baracca del fabbro, ed al giovane ormai uomo sembrava di conoscerlo, eppure non avrebbe saputo dire da che cosa nascesse questa consapevolezza.
Un giorno, mentre scendeva in paese per consegnare dei lavori, il fabbro vide intorno a sé solo facce tristi e gravi, era come se l’aria stessa ne fosse impregnata, e lo spirito dei monti piangeva anch’esso in una sottile bruma; ed allora l’uomo conobbe quasi come se stesse ricordando: «Ecco, questo è il dolore», e sbrigati i suoi affari chiese ad un contadino che cosa stesse accadendo; quello, curvo, senza quasi osare sollevare lo sguardo, indicò un campo fuori città e disse:
«La famiglia che ha in affitto quel campo sarà tutta giustiziata, poiché ha domandato una riduzione delle tasse, e la loro vita sarà il prezzo che il feudatario esigerà per accogliere la loro richiesta.»
Il fabbro avvertì nascere in sé un sentire nuovo, che non era conoscenza, non era allegria, non era paura, e si diresse verso il luogo dell’esecuzione, e lì parlò a voce alta al guerriero che la stava presiedendo;
«Fermati! Sarò io a pagare il prezzo della richiesta!»
Il guerriero e la folla ammutolirono, temendo che tutto si sarebbe concluso in maniera veloce e violenta; ma il guerriero si limitò a porre una mano sull’elsa della spada e a minacciare l’uomo:
«Vattene! La cosa non ti riguarda.»
Il fabbro lo guardò senza timore, e rispose:
«Non ho forgiato io la tua spada perché tu uccida degli innocenti. Lasciami parlare col tuo signore.»
Il guerriero si avvicinò rapido all’uomo, ma così come l’erba aveva frusciato leggera al suo cammino, improvvisamente ritornò immobile e quieta.

Il sacerdote del tempio era anch’esso sceso in paese. Non disse nulla. Avanzò di un solo passo verso il guerriero, che si ritrasse come spaventato. Dopo un attimo d’indecisione, questi fece un gesto, e i componenti della famiglia furono slegati, e vennero a gettarsi ai suoi piedi, anche i bambini, ed il popolo del villaggio era commosso e piangeva, ma il fabbro che era stato un asceta era allegro mentre avanzava verso la morte, e rivide d’un tratto il figlio della ragazza che un tempo avrebbe dovuto sposare, che pensoso gli chiese:
«Hai imparato la Compassione?»
Ed a queste parole parve che il sole rinascesse inondando con i suoi raggi il volto del fabbro, che salito sul patibolo non sentiva più i dolori e la sofferenza dell’agonia, e quando avvertì prossima la morte, si rivolse al guerriero e con una voce stranamente forte gli intimò:
«Ricorda quanto ti ho detto riguardo la tua spada!», e poi, con un immenso sospiro che parve dischiudere l’orizzonte sino ai limiti della terra, come se i monti, gli alberi, le rocce, i laghi e gli stagni si fossero uniti in quel canto, il fabbro rivide quell’argento, allo stesso tempo suono e luce, ed a lui si rivolse dicendo: «Ora sono veramente nato», e si stupì di quanto la sua voce rintoccasse bronzea come quella che ricordava di aver udito; in quel momento scoprì dentro di sé una gioia tale che sembrò l’Universo stesso ne tremasse e ne fosse scosso sin nelle fondamenta, dalle radici della terra sino alle stelle, ed oltre; e riconoscente l’uomo conobbe:
«Ora sono veramente nato», fondendosi con l’Assoluto, mentre una giovane mano di bambino lo accompagnava in un lucente chiarore d’oro.


1 Croce del Nord: parte centrale della costellazione del Cigno, formata da cinque stelle disposte pressoché a forma di croce latina. È individuabile nella fascia scura che divide, all’osservazione, la Via Lattea in due rami.

2 Deneb: la più luminosa stella della costellazione del Cigno. Poiché le stelle vengono elencate anche con le lettere greche, in ordine alfabetico secondo il loro grado di magnitudine (o luminosità), Deneb è nota anche come alfa cigni.

3 Shintô: la religione nativa del Giappone, il cui cuore è la venerazione dei Kami, spiriti, esseri sovrannaturali (che non sembra corretto rendere col termine “divinità”), e tuttavia assolutamente reali e presenti in luoghi, fenomeni e santuari. Dotati di poteri, funzioni ed attribuzioni specifiche, presiedono all’armonia del cosmo ed al suo evolversi, alla gioia e alla pace ed il loro culto è strettamente legato alla contemplazione della bellezza della natura. Sebbene lo Shintô non abbia un codice morale preciso, conciliazione, affetto e benevolenza sono considerati espressioni della comunione con i Kami, mentre il male deriva dalla contaminazione con gli spiriti delle tenebre (magatushi), che costantemente tentano la carne dell’uomo, mentre il suo spirito rimane fondamentalmente buono. Dal punto di vista del fedele, lo Shintô, in quanto armonia con quanto di sacro esista, ricomprende in sé le altre religioni, come il Buddhismo o il Cristianesimo, e col tempo è divenuta sempre più usuale la duplice affiliazione ad esso e ad un’altra religione.

[continua]


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