|
|
La luce delle stelle (seconda edizione)
di
|
In copertina: «Sadr» astrofotografia di Elisa Cavalli
Nel retro di copertina: «Nebulose Laguna e Trifida» astrofotografia di Elisa Cavalli
All’interno: fotografie di Ilaria Giancani
Introduzione
Possiamo definire il desiderio di conoscenza come la sete in assoluto più difficile da estinguere. L’essere umano è, per sua natura, incline all’ignoto, alla scoperta, al confronto, come spinto da vere e proprie arsure dell’animo che solo un’inesauribile tensione verso ciò che è nuovo può tentare di placare. Attraverso il sapere, l’uomo è in grado di emancipare sé stesso da un punto di vista etico, morale ed intellettuale: ciò di cui parliamo non è una semplice propensione alla curiosità, ma una ricerca continua che si autoalimenta ed è in grado di proiettare la dimensione stessa dell’esistenza su piani via via più completi e più complessi. E non c’è dunque da stupirsi se un essere imperfetto sia in qualche modo ancestralmente proteso verso un compimento ed una realizzazione, mosso da pulsioni che sono allo stesso tempo sia istintive sia razionali. Perché i livelli dell’istinto e della ragione, seppur distinti e difficilmente conciliabili, in realtà s’intersecano di continuo come tasselli di uno stesso mosaico, a dare forma, colore e dimensioni all’opera finale, elemento unico nella somma di molteplici elementi.
Sin da piccoli, dai periodi dell’infanzia e dell’adolescenza, è possibile rendersi conto di come questo passaggio sia di cruciale importanza nell’autodeterminazione di ogni essere senziente: possiamo immaginare, quale esempio più banale, un bambino che viene alla luce e che, nel primo anno di vita, impara, in proporzione, più di quanto imparerà in ogni anno successivo. Un bambino che apprende a comunicare, attraverso di sé per arrivare agli altri, per farsi riconoscere, affermare la propria esistenza arricchendola di contenuti fino ad allora del tutto sconosciuti. C’è poi un ragazzo che cresce, si accultura tramite lo studio e padroneggia ormai le trame sociali attraverso un tessuto di convenzioni – come il linguaggio – e di libere scelte, mentre si confronta per la prima volta con problematiche di maggior rilievo nel suo stare al mondo, con il bisogno di ritagliarsi uno spazio ben definito in cui inserire la propria identità e rapportarla con gli altri. C’è quindi un uomo, pienamente maturato e in grado di provvedere materialmente da solo alle proprie necessità, di creare a sua volta nuova vita e trovare una sorta di equilibrio definitivo nel tracciato dell’esistenza. Pur con tutte le eccezioni e le sfumature, lo schema si ripete uguale e si perpetua adattandosi agli ambienti, ai contesti, alle circostanze. Non pretendiamo certo di banalizzare un così multiforme e sfaccettato percorso ontologico, tuttavia possiamo accontentarci di inquadrare in questo schema di base il concetto del divenire.
Un divenire che è fabbro del derivare, in cui il mutare è condizione imprescindibile alla sopravvivenza, in un gioco a cui nessuno può sottrarsi. Ecco allora che ognuno di noi, nella propria vita, può percepirsi in ogni istante come atto e potenza, un dualismo kantiano più che aristotelico in cui la spontaneità del soggetto sta alla base di ogni conoscenza intellettuale.
Difficile, tuttavia, stabilire se un uomo possa mai dirsi veramente compiuto. I concetti assoluti di Verità e Conoscenza sono probabilmente fuori della nostra portata, per cui è probabile che, se pure li raggiungessimo, neppure ce ne accorgeremmo. Ma non è importante, o almeno lo è fino a un certo punto. Perché si tratta di un viaggio in cui il fine è meno fatidico del mezzo, oppure, se vogliamo, il mezzo e il fine coincidono. Nella misura in cui attraverso la crescita, lo studio, le esperienze, un uomo cambia, migliora, diventa altro da ciò che è, pur rimanendo perfettamente sé stesso, egli è in grado di porsi un nuovo obiettivo, una nuova meta. Ogni passo, metaforicamente parlando, diventa la fine di un viaggio e l’inizio di un altro, completamente differente eppure consecutivo al precedente. Il tempo e lo spazio diventano le dimensioni che, come istinto e ragione, si fondono tra di loro per dare forma all’universo in cui tale viaggio si compie.
Nella lettura di questo libro, del resto, è facile accorgersi di come sia importante quanto abbiamo appena accennato. L’autore, attraverso una serie di racconti suddivisi con perfetto equilibrio nella triade Terra/Uomo/Cielo, a loro volta introdotti da un componimento poetico, cerca di condurci per mano in questo viaggio simbolico. L’esercizio della lettura prescinde dalla dimensione dello spazio (ma, è pleonastico ricordarlo, non da quella del tempo), eppure è in grado di tramutare quest’esperienza in maniera che sia l’anima a viaggiare, anziché il corpo: le pagine rappresentano le mete, le righe i passi. Ogni testo è un progredire, un affrontare situazioni che paiono del tutto diverse tra di loro e tuttavia s’incastonano come gemme nello stesso diadema esistenziale che ci accomuna tutti.
Terra, Uomo, Cielo, le tre “potenze” in armonia tra loro, in simbiosi perenne, le tre colonne portanti su cui si regge l’universo conosciuto, il limite ultimo verso cui siamo in grado di spingerci anelando alla perfezione dell’infinito. In questa triade di origini orientali, che potremmo facilmente accomunare anche a molti tratti della cultura occidentale, si racchiudono il segreto e l’essenza in uno scrigno di conoscenza ancora da schiudere. L’uomo è centrale, manco a farlo apposta, elemento di raccordo tra terra e cielo, luogo di scambio e di rielaborazione delle energie terrestri e celesti, pertanto anche luogo di sintesi, di realizzazione, di compimento: tutto acquista un senso, tutto si spiega alla luce dell’essere umano e del suo viaggio attraverso l’esistenza.
Poi, al di sopra di ogni cosa, la luce delle stelle. Gli astri sempiterni, fissi immobili sul tetto dell’universo, da sempre punto di riferimento costante ed infallibile, a illuminarci del loro splendido ed etereo chiarore. Sadr è la nostra “stella polare”, con la sua sgargiante luminosità, una confortante presenza amica che ci aiuta a non smarrire l’orientamento anche quando intorno l’atmosfera si fa cupa, surreale, ostile. La grandezza si compie nell’atto più eroico: la fiducia, l’incrollabile certezza di essere parte di un’unità superiore, il lasciarsi fondere nelle trame dell’universo accogliendo ogni sua parte come membra vive e pulsanti di una sola entità. Ecco allora che il viaggio si arresta, lo scrigno si svela, la luce delle stelle sfavilla del fulgore più limpido.
Non si spaventi il lettore meno avvezzo al “movimento”: si tratta di un’esperienza delicata, rispettosa delle capacità di ognuno, piacevole anche agli occhi dei più inesperti. Chiunque saprà trarre giovamento nel ritrovare sé stesso in questi molteplici scenari, abbandonandosi a orizzonti diversi da quelli cui siamo assuefatti, trasportandosi da un racconto all’altro con il dolce cullare della consapevolezza. L’autore, del resto, ha saputo predisporre uno stile cesellato con dovizia di particolari, pulito ed elegante, ricco di meravigliose ed accurate descrizioni in grado di riprodurre icasticamente scorci di paesaggi, introspezioni emotive, dialoghi e confronti. Nel suo scorrere, la narrazione segue un filo preciso in cui i vari personaggi affrontano le loro sfide a cornice del disegno di fondo, ricco, poliedrico, emblematico.
Sono facce e visi che ci torneranno molto familiari, storie e riflessioni che a loro volta saranno lo spunto per nuove e più profonde comprensioni, metafore brillanti di una conquista sempre più piena, alla stregua di scalini di una medesima rampa, in cui ogni passo consente di elevarsi e raggiungere una coscienza superiore. Dalla Terra al Cielo, attraverso l’Uomo. E sotto la luce delle Stelle.
Emanuele Tanzilli
La luce delle stelle (seconda edizione)
Deneb
Il fioco chiarore stellare si dipingeva intorno a me come una favola triste. Solo, accovacciato in un angolo, scorgevo nel cielo cupo e nitido la Via Lattea, le stelle, la diramazione di quella meravigliosa frangia in cui scintillava bianca, spietata, l’alfa cigni, splendente come un ghiacciaio nell’inverno.
Avevo forse una dozzina d’anni ed ero convinto che quella fosse stata la giornata peggiore di tutta la mia vita – e, chissà, forse lo sono ancora – poiché quello che i nostri sensi infantili ci mostrano è spesso più sottile, soave e importante di eventi apparentemente straordinari che occorreranno nel corso della vita. Era la chiave di volta di un’esistenza, rispecchiata nella Croce del Nord, il cuore di quel Cigno brillante.
Non avevo amici, preferivo leggere, solo, nella quiete. Fu allora che me ne resi conto. Nel raggio lontano di quella luce ricordai che ogni minuscola parte del mio corpo era stata un tempo nel cuore incandescente di una stella, forgiata da mani invisibili più possenti del misero dominio degli uomini, ordita dal destino con cura infinita. Il mio corpo era interamente costituito da scintille stellari che non potevano non conservare il loro fascino, il loro ardore freddo, il loro incanto arcano.
Gli astronomi discutevano di astri di prima e seconda popolazione ma non comprendevano la magia che quelle parole sottendevano. Fra tanti, io solo, in quel preciso istante, mi rendevo pienamente conto dell’armonia cantante con cui l’Universo preparava il nostro corpo, il nostro mondo, il carro sui cui avremmo viaggiato in questa vita.
O forse no.
Forse, in quel preciso istante, qualcun altro fissava Deneb con la stessa meraviglia nel cuore e, dovunque fosse, là ero anch’io.
Accanto a me un alto Elfo sembrò sorridere. Il velo tra i mondi era sollevato ormai.
Ed io lo seguii tra le fronde argentate – nella luce delle stelle.
Terra
Riflessi di sole
canti d’altalene,
l’infanzia al fondo
del viale alberato.
Le preghiere tra il vento
e la musica del tempo
che ricade in petali
bianchi di galaverna.
La via è passata oltre
tra locande di sogno,
all’incrocio più arduo
ti attendo, per sempre.
Shintô
I
Il vecchio scriveva, aveva passato tutta la vita a scrivere; saggi filosofici e storici, novelle tristi e novelle allegre, romanzi dall’aria brumosa come le mattine sul mare e fragili ed esili come cristallo fine, storie di bambini e adulti, di ragazzi presi dalla corrente di sogno. Il vecchio aveva scritto ormai d’ogni possibile paese e condizione, e davanti ai suoi occhi e sotto le sue mani rugose sempre sfilavano nuovi personaggi, buoni o cattivi, saggi o stupidi, mossi dai più differenti motivi. Ma col passare del tempo, quando ormai era all’apice della gloria e del successo, si era accorto che, qualunque fosse la loro motivazione, il loro fine ultimo, anche di quelli che finivano inesorabilmente con un capestro intorno al collo, era diverso da quello apparente: era la comprensione stessa dell’Universo e delle sue leggi. Non perché fossero i suoi personaggi, ma perché era una motivazione universale, l’unica che rendesse una storia degna di essere narrata e raccontata, con o senza arte. Altrimenti perdeva sapore e sembrava scialba come una mattina d’inverno in cui il sole non si decide né a illuminare il giorno, né a lasciare il posto alla pioggia, aprendo una di quelle giornate in cui non si ha nulla da fare, e ciò che si intraprende lo si lascia subito e si ritorna in casa svogliati, sperando che giunga presto la notte ed una nuova alba più decisa.
Il vecchio capì in un attimo che tutto quello scrivere, quell’attività febbrile che sempre lo aveva accompagnato, non aveva altro scopo che comprendere il grande mistero dell’Universo, e quelle volte che aveva creduto di far luce sull’animo umano denunciandone le ipocrisie, le bassezze, le volgarità, non erano che poche torce immerse nella più fitta oscurità, e che non aveva contribuito in nulla a svelare l’unica domanda che avesse senso porsi; ora, tutti i suoi amati libri gli sembravano pronti solo per essere gettati nel camino. Avrebbe dedicato quel poco di vita che gli restava a un fine più nobile.
Passarono i mesi. All’estate torrida succedette l’ambrato autunno, meraviglioso in lontananza con le sue tinte che s’inerpicavano su per la collina, ed ora, alle soglie dell’inverno, il vecchio sentiva di non avere più dentro quel corpo stanco la forza per giungere ad un’altra primavera, e, allo stesso tempo, di non essere avanzato di un palmo nella sua ricerca. Malediceva allora la vita, così breve e ingrata, e si crogiolava nel dolore della sua ignoranza.
Un giorno prese un bastone e s’incamminò verso il paesello sottostante; non era certo una lunga passeggiata, e vide il camposanto recintato, e la chiesa, e più oltre, in lontananza, le prime case. Fu allora che un grande bagliore dorato gli fu davanti:
«Perché lo cerchi?» chiese una voce profonda come l’oceano, alta e chiara come le vette innevate, limpida come il suono di una campana – e per la prima volta il vecchio si rese conto che stava parlando con un angelo, pur senza vederlo.
«Se sai cosa sto cercando, perché non mi rispondi?» domandò a sua volta, mentre la mano cominciava a tremare sul bastone. La terra bagnata era scomparsa in un velo luminoso.
«Che cosa faresti della tua vita se te lo dicessi?» chiese ancora la voce d’argento; ma a quel punto il vecchio si sentì avvampare dalla collera, ormai più forte dello stupore:
«Menzogne! Non esiste un fine! Non esiste nulla! Solo questa terra immonda e una morte che annulla tutto, ogni cosa, in cui Dio si prende gioco dell’uomo e delle sue sofferenze. Non esiste niente! Niente!» L’angelo apparve ora risplendente in un fulgore argenteo che si ampliava sempre più, come in una grande risata, allo stesso tempo l’aria intorno a lui divenne allegra e possente; infine, dopo alcuni interminabili istanti, l’angelo parlò ancora:
«Io sono un Angelo del Signore ed egli, per mio tramite, ti manda a dire questo: che la tua domanda è stata ascoltata, e tu non verrai a lui prima di averne intravisto la risposta, o rinunciato per sempre ad essa.»
Nonostante la calma della voce, il vecchio s’irrigidì in quell’atmosfera irreale, alzò il suo bastone e, colmo d’ira, come un bambino dinanzi ad un gioco che non funziona come vorrebbe, fece per colpire – ma l’angelo era scomparso.
Null’altro rimaneva se non una nebbiolina leggera che andava diradando.
L’inverno venne. Il vecchio percorse più volte la strada sino al paesello, senza più incontrare l’angelo. Un giorno, sentì un dolore lancinante al petto, la vita lasciarlo in un attimo, ed il suo corpo accartocciarsi sotto l’impulso mancante di un cuore malato.
Si levò in alto, attraverso una bruma dorata, abbandonando un corpo che ormai non gli interessava più, attraversò un giardino di sogno e giunse infine lungo le rive di un fiume in cui si bagnava una donna dai lineamenti orientali, precipitandosi verso di lei come una saetta.
II
Il vecchio bambino non ricordava nulla della sua esperienza precedente, né il suo dialogo con l’angelo, né di essere stato un uomo in un lontanissimo spazio e tempo, né tantomeno la mole di libri che aveva scritto e di cui un tempo era stato molto orgoglioso. Nella piazza in terra battuta, giocava con gli altri bambini e tornava a casa la sera, in quella capanna ove sua madre lo aspettava. Quando crebbe, conobbe il lavoro dei campi, il sudore, la fatica, si ammalò e soffrì orribilmente, ma continuò la sua vita come chiunque altro; si sposò assai giovane ed ebbe tre figli che crescevano sani e forti, eppure spesso, quando tornava stanco e lacero dal lavoro nei campi, si fermava a guardare il fiume, come se in esso rivivessero riflessi a lui ignoti, come se una domanda non ancora sorta nel suo giovane cuore dovesse un giorno sbocciare sull’acqua, e quando infine rientrava a casa era di umore strano e taciturno, quasi perso in considerazioni più grandi di lui.
La sua nuova condizione crebbe e divenne per lui un’idea sempre presente, quand’era tra le braccia della moglie, quando vedeva i suoi figli crescere e giocare come un tempo lui stesso aveva fatto; quando nelle notti insonni guardava le stelle. Aveva visto, talvolta, degli asceti che vivevano liberi ai margini dei villaggi, per lo più vecchi e senza alcuna attrattiva ai suoi occhi; essi erano giunti al limite della loro forza vitale, e sarebbero tornati polvere e terra, così pensava. E i suoi dubbi mai espressi non gli davano pace.
Un giorno, quando ormai ogni sorgere del sole non era diventato che una maledizione gravante sul suo cammino, vide un uomo pressoché della sua età seduto sotto un albero, vestito poveramente; un giovane asceta dalla figura composta e serena, e dal suo volto e dalla sua voce sembravano emanarsi mille fiumi d’argento e di vita.
Il giovane vecchio si sedette con gli altri ed ascoltò il suo discorso, ed il monaco lo guardò per un attimo con occhi pieni di una benevolenza e di una saggezza finora sconosciute, e riprese:
«Perché nascita, malattia, morte, il distacco da quanto è piacevole e l’unione con quanto è spiacevole, sono dolore ed affliggono l’uomo; perché la continua sete di vivere e la continua sete di annientarsi sono l’origine di questo dolore, perché solo il completo distacco, l’abbandono, il disseccamento dell’albero che produce brama conduce alla cessazione del dolore; poiché soltanto una vita secondo una chiara visione, un retto pensiero, una retta parola, una retta azione, condotta e sforzo, un retto rammemoramento ed una costante concentrazione producono l’estinzione del dolore.» Ed a quelle parole, il vecchio bambino, ormai divenuto uomo, comprese che tra quella fresca brezza di primavera tutto il suo scontento, la sua collera verso la vita, si scioglieva come un nodo di cui fosse stata tesa la cordicella giusta, e quando l’asceta se ne andò, egli lo seguì.
Ritornò a casa per dire addio alla moglie ed ai figli, ma questa gli si gettò fra le braccia e pianse, e non voleva che il vecchio che era stato bambino partisse; ma alla fine egli disse:
«Tornerò», e la lasciò nella capanna, ripercorrendo in senso contrario alla corrente il fiume che spesso aveva accolto i suoi pensieri.
Passarono gli anni, ed infine fu la moglie a raggiungerlo, e così i suoi figli, ed all’uomo che era diventato sembrava di aver sconfitto la brama, l’ira, la non conoscenza che l’avevano afflitto, contemplando il mondo così come esso era al di là di ogni illusione e speranza e timore, semplicemente come unico Vero.
Per lungo tempo fu appagato da queste conquiste, ma infine ricominciò ad essere turbato, dapprima lievemente, poi sempre più intensamente, poiché se da un lato non riusciva a provare quella compassione che l’asceta, ora suo maestro, insegnava, verso tutti gli esseri senzienti, dall’altro non comprendeva perché esistesse il dolore, perché occorresse liberarsene, perché la vita avesse quel corso e non un altro; ed i suoi pensieri ritornarono al fiume di cui tante volte aveva percorso le rive, come se in esso fosse racchiuso ciò che ancora turbava la sua anima.
Altri anni trascorsero, colui che era stato il suo maestro morì, e così pure sua moglie; l’uomo divenne vecchio ed ancora una volta, mentre meditava dinanzi ad una grande statua, parve che da questa emanasse un alone luminoso che oltrepassava la coltre delle palpebre chiuse inondando la sua mente, ed una voce bronzea, come di campana, che gli parve familiare pur essendo egli certo di non averla mai udita in quella vita, gli rivolse una domanda al contempo solenne ed allegra:
«Hai imparato la Compassione?», ed alla domanda che spesso il suo maestro gli poneva, egli rispose senza muoversi, poiché ormai aveva oltrepassato i limiti dell’ira e della brama:
«No»; quindi, dopo un attimo, riprese: «Se la comprendessi, comprenderei anche la causa del dolore?»
La luce sfolgorante rise e non rispose, lo accolse tra le sue braccia e l’uomo ormai vecchio non si volse neppure a guardare il corpo privo di vita all’interno del tempio; osservò il mondo schiudersi come un fiore e come un fiore appassire, e nella quiete che comprendeva ogni cosa vide chiaramente approssimarsi dapprima lo stelo, quindi la superficie di un mare a lui ignoto, ed infine una strana casa tra le montagne in cui un giovane uomo lavorava duramente.
[continua]
[continua]
Contatore visite dal 21-02-2014: 3522. |
|
|