Neve rosso sangue

di

Davide Gorga


Davide Gorga - Neve rosso sangue
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 48 - Euro 5,16
ISBN 88-86039-99-9

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Introduzione dell’autore

L’alba, il tramonto del sole; meraviglie che non cogliamo e che sono continuamente minacciate da divoranti abissi di paura che noi stessi creiamo, quasi volessimo dimostrarci un’irreale nullità del mondo.
Gli altri hanno tracciato per noi una strada confortevolmente insignificante; ma noi possiamo abbandonarla, e ricongiungerci con la nostra essenza più pura.
Questo libro vuole essere la testimonianza di un modo diverso di vedere il mondo e noi stessi.


Neve rosso sangue


Il Santo tiene una mano sull’elsa della spada; il drago ucciso, verde come la folgore che schianta l’olmo centenario stanco degli eterni inverni e delle chiare fronde.
I corpi diventano un’aura di brina dorata; si riposano stanchi sull’erba. Nelle membra scorre la vita del cielo velato di nuvole scure, nei suoni di mille campanelle d’oro e d’argento, il flauto del musico al fresco di una quercia disegna lieve una risata di vino rosso.

1

La luce delle fiamme gioconde che avvolgono il ceppo si intristisce sfumando in quella, grigia di pioggia, che filtra dalle finestre. Davanti al camino, la ragazza seduta immobile, le mani in grembo, il dorso curvato ricamato dai lunghi riccioli scuri, è sola nella grande stanza grigia.

La porta del garage si aprì con stridore metallico. Il rumore di un’automobile si spense cupo.
Una figura attraversò la stanza, e una voce profonda venne dalle labbra della ragazza:
«Luca, dove sei stato?». Atona, rispose l’altra:
«Con degli amici».
«Balle». Replicò la voce dal focolare.
«Sabrina, non rompere il cazzo!».
Senza distogliere lo sguardo dal fuoco, le parole si scandirono nell’aria:
«Voglio solo sapere dove sei stato».
«In giro». L’altro si voltò per andarsene.
Il fuoco crepitò secco. La ragazza scattò in piedi e con passi veloci si parò tra lui e la porta.
«Cosa vuoi, sorellina? – chiese la voce canzonatoria; – Torna in parrocchia con le altre zitelle».
Alta e imponente, Sabrina lo afferrò per il bavero e lo spinse contro il muro.
«Scoprirò cosa ti è successo. Dovessi cavartelo di bocca a calci».
«Non servirebbe – rispose alterato l’altro; – E lo sai».
Con un sorriso sprezzante, la guardò e le sputò in faccia.
Allora la ragazza lasciò la presa, e, lenta, si pulì il viso con il dorso della mano. E tornò a passi lenti alla sedia presso il camino.

Solo gli occhi si voltano verso la figura che sta uscendo; Sabrina rimane immobile.
Poi, quando l’automobile si è allontanata, la ragazza si alza, prende la sua giacca e il suo casco ed esce. Inforcato il motorino, prende la direzione dell’auto e del suo rumore.

La pioggia cade sottile sulla terra. L’asfalto finisce tra gli alberi spogli e gli sterpi.
Tracce profonde si allontanano dal bivio; Sabrina le esamina, poi risale sul motorino e prende la via di destra.
Sale la strada, sempre uguale tra le pietre ed i pini; aspra e silenziosa. Finché la ragazza vede l’automobile quasi nascosta tra i rami ai margini del bosco.
Sabrina si ferma poco più a monte, e nascosto il motorino dietro una macchia di rovi, ritorna sui suoi passi camminando sull’erba. Sul suolo fangoso spiccano le impronte di due persone. La ragazza le segue e si inoltra nel bosco, lungo il sentiero.
La pioggia è cessata. Davanti agli occhi di Sabrina appare, avvolto dai rami, un rudere di chiesa. La ragazza lascia il sentiero e vi si dirige.
L’ombra è cupa all’interno, ma in fondo è rischiarata da pallidi raggi che vi entrano da una larga breccia del soffitto a cupola. A questa luce, Sabrina intravede una figura eretta, vestita di nero, simile a un monaco in preghiera.

Gigli tenebrosi la circondano; ritmi di danze e squilli di carne sembrano affollarsi.
Sabrina, stordita, si piega sulle ginocchia. Si passa una mano sul viso e tenta di proseguire; ma la danza di fuoco nero e segreto riprende con più vigore.
Farfalle di morte la soffocano; spire calde e umide la stringono. La coda di un serpente anguicrinito la scaglia contro la parete.

Sabrina sentì il sangue bagnarle la nuca. I suoi occhi videro in lontananza il monaco nero dal viso di suo fratello sollevare una lama d’acciaio ed abbassarla rapida su una piramide di capelli corvini; poi si velarono, e lei cadde nell’oblio.

Un odore di carne bruciata forte come un incubo accolse Sabrina quando riaprì gli occhi. Rialzandosi in piedi in mezzo alla pozza di sangue freddo e rappreso, avanzò barcollando verso il fondo della navata.
I raggi del mattino sfioravano i carboni accesi. Fra essi, solo cenere. Nascosto e mezzo annerito, luccicò ancora per un istante un bagliore metallico. Sabrina vi avvicinò il viso.
Era un braccialetto da donna.
La ragazza vacillò; poi si voltò e corse via con la sola compagnia della follia nella sua mente.

Schegge di vento negli occhi. Sabrina fermò il motorino sul ciglio della strada.
L’aria era imbrunita intorno a lei. Il sole d’oro calava alla sua destra.
La ragazza accompagnò il motorino fino all’argine di un fiume in piena che correva impetuoso oltre la curva, e lo gettò nelle acque turbolente che lo inghiottirono.
Poi, Sabrina iniziò a camminare lungo la strada.
Presto le tenebre scesero a velare il mondo.

La sagoma massiccia di un uomo in un cappotto molle e gocciolante si disegnò all’entrata della chiesa in rovina.
I suoi passi echeggiarono lungo la navata.
Giunto presso i resti del rogo, si chinò. Con una penna sollevò il braccialetto; lo guardò un attimo attraverso gli occhiali, poi lo avvolse in un fazzoletto e lo mise in tasca.
Si passò la mano sui folti baffi neri, guardandosi intorno.
Quindi, si infilò un paio di guanti e cominciò a cercare. Tra la cenere, trovò un pezzo di metallo scurito dal fuoco, sagomato come una stella a cinque punte. Una di queste era fatta di un metallo rossastro e lucente.

2

La musica è un’altalena bianca di fiocchi di neve neri. Tra il mare ed il treno, la strada scivola via in mezzo a nuvole di fumo di sigaretta.
Grigio, l’oriente si sfalda di rosa; la ragazza vestita di nero, i corti capelli bruni, gli zigomi alti, vede i suoni sbocciare intorno a lei come mattini d’aprile.
La macchia di ulivi è un sogno lontano. Accarezzare i suoi capelli morbidi sulle spalle larghe, immergersi nella risata splendida di neve, rinvigorirsi alla voce fresca come i castagni in fiore. Il viaggio la chiama con un soffio dal finestrino aperto.

Il trillo del cellulare dissolve i ricordi. Spegne la sigaretta e risponde.
«Pronto?».
«Loris, sono io» le risponde una voce cupa.
«Sabrina, ciao! – esclama illuminandosi in volto; – Come mai chiami a quest’ora?».
«Sono da te».
«Cosa?» chiede la ragazza aggrottando le sopracciglia.
«Puoi venire?».
«Sì – risponde Loris; – Sto arrivando».

Loris arrivò davanti alla porta del suo appartamento. Le scale erano invase dall’aria verde e sgradevole del cortile interno. Cercò le chiavi nella borsetta ed aprì.
Accese la luce nell’ingresso.
«Sabrina?» chiamò incerta. Posò la borsa, e, senza togliersi la giacca, aprì con cautela la porta della sua camera.
Un mucchio di stracci e capelli scuri era gettato sul suo letto. Alla luce chiara del tramonto, Loris entrò in fretta nella stanza.
«Cristo, Sabrina!». Si avvicinò alla ragazza e la scosse.
Questa socchiuse gli occhi, e come in sogno vide la figura di Loris davanti a sé. Si sollevò con fatica a sedere, e rimase muta, la testa reclinata sul petto.
Loris le toccò la fronte con il palmo della mano, ma non aveva la febbre.
«Cosa ti è successo?» poi, le sue dita toccarono i capelli insanguinati. «Mio Dio… » mormorò; quindi, alzandosi di scatto:
«Chiamo il medico».
«No! – esclamò Sabrina. Loris si fermò; – Vieni qui e siediti».
«Sei ferita. Devi farti vedere». replicò piano Loris.
Sabrina scosse la testa:«Aiutami» disse solo.
La ragazza le si avvicinò e l’aiutò ad alzarsi. Vacillando, Sabrina arrivò fino in sala e si lasciò cadere su una sedia.
Loris si sedette dall’altra parte del tavolo di vetro.
«Come hai fatto a entrare?»
«Ho le tue chiavi. Le ho sempre con me. – Dopo un istante di silenzio, Sabrina riprese: – Nessuno deve sapere che sono qui».
«Cos‘è successo?».

La sigaretta sul portacenere d’onice verde si consumava lentamente. Gli occhi scuri, argentini di Loris si fissavano sul volto e sulle labbra della giovane. Le parole di Sabrina le arrivavano alle orecchie, le trapassavano il cervello e scendevano fino al cuore, scorrendo poi come ghiaccio nelle vene.

Inclinando la testa di lato, Loris mise una mano in tasca, cercando una scatola di pillole. Le mani sudate ne presero una, che inghiottì senz’acqua.
Appoggiò le braccia sul tavolo e la testa su di esse. La seta dei suoi capelli si posò sugli abiti neri.
Rimase immobile per diverso tempo. Poi, una lieve ebbrezza iniziò a stordire la sua mente. Leggera e carezzevole, la trascinava via dalla realtà, quasi come un gabbiano senza ali che plani sull’oceano.
Si alzò, e prese Sabrina per mano.
«Vieni Sabri. Ti medico la ferita.» le disse con gli occhi semichiusi.
Le lavò alla meno peggio la ferita, e vi passò il mercuro cromo.
«Grazie». Le disse Sabrina, seduta sul bordo della vasca.
Loris accennò un sorriso. «Non è niente» rispose. Poi la fece spogliare e coricare nel suo letto, e le si stese accanto, per terra.
Finché il sonno non avvinse le due giovani.

Il suono sordo dell’impatto delle mani sul cuoio della groppa del cavallo rimbomba cupo. La palestra odora di muffa. Fuori, comincia ad albeggiare; il sudore cola già copioso sulle tempie del giovane.

Loris si svegliò al chiarore dell’alba. Si alzò, intontita. Accanto a lei, Sabrina dormiva tranquilla, e non aveva febbre.
Allora la ragazza la lasciò e si diresse verso la cucina; tirò fuori il riso ed il sale, e iniziò a cucinare per lei.
Elisir ardenti tra i roveti; le foglie versano calici di rugiada. Fra il tintinnio dei salici, gocce dal suono scintillante, e le voci della campagna.
Le strette vie si incrociano sulla sommità delle colline; nella tasca del giubbotto, un pezzo della sua anima, uno squarcio d’autostrada nel sole degli oleandri estivi, la vita e il cielo sulla terra immersa.
Oltre la curva, vede la figura scura della ragazza in piedi in mezzo al campo arato, i lunghi capelli castani – è un angelo di terra buona e fertile.
L’ombra a lato, fra il guardrail ed il muro, sotto gli ippocastani e il cielo nuvolo; viaggiare sul velo d’acqua che ricalca la terra scura.
L’auto si fermò tra le mimose.

«Ciao, Paolo». La ragazza era tornata sui suoi passi, e lo salutò avvicinandosi all’automobile. Il giovane la guardò con occhi sorridenti, e ricambiò il saluto.
«Ciao, Serena. Come va?».
«Come al solito» rispose la ragazza sedendosi accanto a lui sotto l’ulivo che stormiva al vento. I suoi occhi erano lontani.
«Ho sentito che presto manderanno una navicella su Marte. Potremmo prenotarci per far parte dell’equipaggio. Che ne dici?».
«Sì, forse sarebbe meglio. tanto, per restare qui… È uno schifo».
Paolo fissò l’orizzonte, come la ragazza.
«Come va con Fabrizio?».
«Come al solito».
«Come al solito – ripeté Paolo con aria calma e leggera: – Se ti ci trovi così male, perchè non lo lasci?».
«Non posso».
Il vento brunisce filtrando tra i capelli di Serena.
«Senti, cos’hai fatto stamattina?» chiese la ragazza.
«Sono stato in palestra» rispose Paolo alzandosi.
«Te ne vai già?» il ragazzo assentì. Tornando alla macchina, prese le chiavi dalla tasca; poi, estrasse un pacchetto e glielo porse:
«Questo è per te».
«Che cos‘è?» chiese Serena illuminandosi di un sorriso.
«Attenta a non romperlo» replicò Paolo salendo in auto.
Il ragazzo mise in moto, fece retromarcia e si allontanò sotto lo sguardo affettuoso della ragazza.
Quando l’automobile fu scomparsa dietro il cancello, Serena scartò il pacchetto. All’interno trovò un cerbiatto scolpito nel vetro.

L’auto grigia si fermò sotto la casa. Serena, i capelli odorosi di balsamo, la pelle profumata, scese le scale, sorridente, e salì in auto.
«Ciao, Fabrizio».
Il giovane bruno, con movimenti stanchi, manovrò il volante, la baciò, e invertì la marcia.
L’anima scintillante della ragazza riempiva l’abitacolo, che come un drappo nero ne beveva lo splendore.

.........


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