Con l’opera «La sfuggevole formula della vera felicità» è risultato 2° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria:
«Sulla panchina del parco pubblico di un museo, si svolge una conversazione surreale e comica, tra due personaggi completamente antitetici, Marco Di Fencosti, vacuo esibitore di dialettica rubata ad altri nomi illustri, artista delle citazioni e degli aforismi dei grandi geni, senza alcuna cultura propria, se non quella della vanità pappagallesca, e Giacomo Rossettini, figura schiva e inizialmente silente e mediocre.
Marco vive di questa sua arrogante e arida cultura nozionistica, scegliendo le proprie vittime dialettiche sulla panchina su cui si siede, per dimostrare a se stesso e al malcapitato la propria superiorità intellettuale.
Ma l’incontro con il tranquillo Giacomo Rossettini è fatale per la sua avida vanità: Rossettini è infatti un pazzo, che sta cercando disperatamente di concentrarsi sugli algoritmi applicati al sentimento.
Fu il matematico arabo Al- Khowarzimi del IX secolo, a formulare un metodo per sommare due numeri rappresentati dal sistema numerico hindu, e oggi il termine algoritmo indica la sequenza finita di passi effettuati per risolvere una classe di problemi in un tempo finito.
Non riuscendo a suscitare ammirazione e senso d’inferiorità nel matematico pazzo, il presuntuoso Marco Di Fencosti, desisterà dal suo proposito, mentre Giacomo Rossettini tornerà a immergersi nei suoi calcoli, affidato alle cure dell’infermiera della sua clinica. La satira è sferzante e pirandelliana, e i tratti grotteschi dei personaggi sono dipinti con pennellate felici e nette: l’autore ben illustra che l’arido nozionismo non è che vanitas vanitatum, sterile e vuota dinanzi alla grandiosa molteplicità del pensiero umano e delle sue implicazioni affettive.
Scritto con vigore e passione, affascina per il ritmo incalzante del dialogo, che sconfina nell’assurdo e nella mordace ironia sulla cultura priva di vera umanità».
Alessandra Crabbia
La sfuggevole formula della vera felicità
Il signor Marco Di Fencosti aveva due passioni: il gioco e la verità. Una verità però tutta sua, fatta di aforismi noti, modi di dire, paradossi e contraddizioni. Viveva senza sentire il bisogno di fare un ragionamento tutto suo, nemmeno uno solo, mai. Non vi era necessità. Dal suo punto di vista, fior di saggi s’erano ampiamente prodigati per scoprire l’essenza delle cose sin dai tempi di Talete e, quindi, s’era già detto tutto sulla verità. A lui non rimaneva che attingere un po’ di qua e un po’ di là per mettere assieme quella che egli definiva «una mirabile conoscenza della vita».
Cogli anni, poi, provò sempre più piacere nello sfoggiare tale sua cultura dilettandosi in un particolare gioco eristico, tant’è che affinò perfino l’arte di attaccare un bottone a qualcuno senza che costui se ne accorgesse, almeno fin quando non era troppo tardi. A quel punto, la vittima si trovava invischiata in una fitta ragnatela tessuta con tale maestria, che non le rimaneva che soccombere al gioco e, infine, concedergli la vittoria.
Il signor Di Fencosti usava sempre la stessa tecnica: sfogliava il giornale in mattinata, sceglieva un articolo, poi, dopo pranzo, andava a sedersi sulla sua panchina preferita sotto una grande quercia nel parco del museo vicino a casa ad aspettare l’arrivo dell’ennesima vittima.
E quel pomeriggio di piena estate non fece eccezione.
Eccolo! sorrise Di Fencosti fra sé e sé appena avvertì con la coda dell’occhio qualcuno sedersi sull’altro lato della panchina.
Attese che la vittima si fosse accomodata per bene, poi diede inizio al gioco.
«Eh, è proprio una bella gatta da pelare!».
«Prego?».
«No, dico, senta questo titolo: “Volere, è potere?”, sottotitolo, “Gli italiani e le vacanze al mare mancate”. Certo che è un bel grattacapo da prima pagina, eh? Mah, con tutti i problemi che ci sono oggigiorno… Ed è anche scritto su un giornale nazionale!».
«Ah, sì?».
«Già! Eh, caro lei, “ci fu un tempo in cui le bestie parlavano, oggi scrivono”!».
«Dice davvero?» sbottò l’altro, incredulo.
Di Fencosti, però, non si lasciò ingannare dall’apparente stupore dell’altro. Capì subito che la vittima faceva semplicemente della bassa ironia.
«Già!» ripose, fingendo quindi d’aver apprezzato tale spirito. Ma tenne comunque a precisare: «Non io però, Scholl».
La vittima annuì appena.
«Eh, è proprio vero! Come disse Jean Josipovic, “chi si accontenta di pubbliche verità, vive di menzogne private”». Forse proprio come lei, eh? avrebbe voluto dire, ma invece chiese: «Non trova?».
«Già, già», fu però la laconica replica.
Che la vittima fosse solo distratta, o meditasse su un’altra faccenda? O, peggio ancora, non trovasse argute le straordinarie battute di Di Fencosti?
«Ma dove andremo a finire se non si capisce mai quale sia la verità, dico bene?» tentò dunque con tono subdolamente bonario, ma serioso.
«Sì, sì…».
Ehm! pensò Di Fencosti. Un osso duro, e magari anche un pochino arrogante, eh? Ora ti faccio vedere io, chi sono!
«Ma, lei è una persona felice?».
«Sì».
«Che fortuna! E mi dica, è sposato?» domandò Di Fencosti, accavallando le gambe e sporgendosi verso la vittima sedutagli lì accanto vestita di tutto punto con tanto di papillon coloratissimo.
«Sì».
«Dunque, si può dire che è felicemente sposato».
«Chi è felicemente sposato?» chiese l’altro, di nuovo subitaneamente meravigliato.
«Già, proprio come pensavo. Anche lei se lo domanda, eh?» rispose Di Fencosti senza badare agli improvvisi scatti d’interesse palesati dalla vittima. «Mah, cosa vuole, come diceva Oscar Wilde, “la bigamia è avere una moglie di troppo. La monogamia lo stesso”!» ridacchiò soddisfatto, pensando di avercela quasi fatta. «Ma non si disperi: “si fa la guerra per poter vivere in pace”, come ha detto…».
«Sì, sì! Non me lo dica! Dunque, Guerra e Pace… Ma, certo! Dors Toy Teschi… No, che dico! Tors Toy! Ecco! Sì. Mi prometto sempre di leggerlo, ma poi…». La vittima non concluse la frase. Sembrò sprofondare nuovamente nei propri pensieri.
Un risvolto così assurdo e inaspettato, lasciò interdetto anche lo stesso Di Fencosti. Egli si era già preparato il seguito alle parole di Aristotele, ed ecco l’arrogante antipatico saltar fuori con quella… Non sapeva nemmeno lui come interpretare tale uscita. Decise di tastare meglio il terreno.
«Eh capisco, il tempo è tiranno! Ma, mi dica, legge molti libri impegnati?».
«Libri impegnati, dice? Ma, no! Solo qualcosina a letto, per aiutarmi a prendere sonno».
«Però! Se lei considera libri come Guerra e Pace un qualcosina tanto per prendere sonno, chissà quale cultura avrà alle spalle. Non per offenderla, ma mi sembra che lei voglia farsi gioco di me, ho forse ragione?» incalzò la vittima, ammiccando infingardamente.
«Io? Prendere in giro lei? Che non sia mai!».
«Ah, bene. Volevo ben dire. E non è neanche uno di quelli che apre bocca solo per farci entrare le mosche, vedo».
«Certo che no!».
«Bene, bene. Mi fa piacere. E mi dica, lei ama sua moglie?».
«Sì».
«E ci tiene molto a essere sincero, non è vero?».
«Certo!».
«Allora mi dica con sincerità, cosa l’ha attratta a sua moglie durante i vostri primi appuntamenti? Che so, gli occhi, il viso, le curve… oh pardon, intendevo la bellezza esteriore, o si è fatto forse ammaliare da altri incantevoli suoi pregi?» chiese ironicamente Di Fencosti, non potendo proprio immaginare che razza di donna avrebbe mai potuto sposare un tipo simile. «Insomma, cosa l’ha fatta capitombolare ai piedi di sua moglie come un salame? Non si offenda, eh? È solo un modo di dire».
«L’amore» rispose solennemente la vittima. «Senza dubbio, l’amore».
Un guizzo di luce irraggiò dallo sguardo di Di Fencosti. La vittima aveva finalmente abboccato!
«L’amore, eh? Dice bene. Oh, se dice bene! Fra l’altro, l’avevo capito che lei è uno che da ragione a Proust».
«Ah, sì?».
«Ma, certo! Lei è uno di quelli che lascia le belle donne agli uomini privi di fantasia. E lei di fantasia ne avrà certamente da vendere, eh?».
«Se lo dice lei… No, anzi! Cosa vuole insinuare?».
«Nulla, nulla! Si figuri. L’ha detto Marcel Proust. E poi io parlavo di verità, ossia che si può essere felici anche sposati a una donna bruttina, o no?».
«Ma, lei forse intende dire che l’amore è legato a…».
«Io? Ma, no! Certo che no! E poi non so neanche che aspetto abbia sua moglie. Ripeto: dicevo così per parlare di felicità vera, di…».
«Ah, ora capisco! Anche lei sta ricercando la formula della vera felicità, è così? Anch’io ci sto provando, sa? Ma sfugge anche a me!».
«Ma quale formula della vera felicità! Come le è saltato in mente una cosa così…?» Di Fencosti, colto da un improvviso e terribile dubbio, s’interruppe. E se fosse la vittima, invece, avendo intuito il suo gioco, a prendere in giro lui?
No, no, non può essere! Certo che no! meditò rinfrancandosi. Ma, cautamente, disse: «No, io dicevo felicità vera, per dire una felicità sentita profondamente. E poi, in fondo tutti sanno che la felicità, come la verità fra l’altro, è relativa, e quindi non esistono vere felicità assolute a questo mondo».
«Ah, sì?» rifletté l’avversario. «Beh, se è vero che, come dice lei, la felicità vera e la verità stessa sono solo percezioni relative, perché allora, verità per verità, non dice semplicemente che invero è vero solo per davvero il vero relativo a se stesso, se questa è la vera verità?».
«Se il vero è invero vero per davvero…? Ma cosa sta cianciando? Percezioni e compagnia bella! Si è forse messo in testa di confondermi le idee?».
«Io? Nient’affatto. Mi può credere».
«Ehm! Allora faccia meno commenti e mi presti più attenzione, prego. Dicevo, per essere felici nella vita,…».
«Mi scusi se la interrompo, ma lei è sposato?».
«Ma, cosa c’entra, adesso?».
«Beh, lei l’ha chiesto a me, e io lo chiedo a lei. Non posso?».
«Ma certo, certo. Mi scusi. No, non sono sposato. Anzi, me ne guardo bene. Eh, caro lei, io l’avevo capito sin da giovane che le donne sono solo guai. Oh, all’inizio può anche sembrare tutto molto bello. Ma col tempo, come si suol dire, donne e motori non sono gioie, ma dolori!».
«Ah…?».
«Eh, caro signore, lei è ancora giovane e forse non l’ha ancora capito, ma il futuro le riserverà solo due strade percorribili: o la via del divorzio, che la porterà inesorabilmente all’indigenza; o quella della pazienza, che la condurrà sempre più spesso dritto dritto all’osteria più vicina!».
«Dice?».
«Dico! Ma non si preoccupi, però! A ben guardare, di vie alle osterie, già ne conosce fin troppe! E anche molto bene, eh?».
L’avversario, contro ogni prognostico, non sembrò accusare il colpo, e chiese: «Ma, per lei, l’amore…».
«Alt!» sbottò Di Fencosti. «È qui che casca l’asino! L’amore è solo per i poeti, non gliel’ha mai detto nessuno?».
«No. Ma tanto per chiacchierare un po’, prendiamo in considerazione che lei s’innamori e desideri sposarsi,…».
Di Fencosti s’irritò. Non stette neanche ad ascoltare cosa l’avversario volesse prendere in considerazione, e, intanto che l’altro parlava, egli pensò: D’accordo che chi non risica, non rosica, ma qui è meglio non giocar col fuoco, mettere i puntini sulle «i», e cambiare subito strada.
«Senta, le ho già detto che quella è un’ipotesi del tutto impossibile. Alla libertà ci tengo, io!» annunciò bruscamente, appena l’avversario terminò la propria osservazione. «E sappia anche, che come disse… Beh, ora non ricordo più chi, perché me lo ha fatto dimenticare lei, accidenti! Comunque, “l’uomo felice non è colui che ha ciò che desidera, bensì colui che non desidera ciò che non ha”».
«Interessante!» esclamò l’avversario. «Dunque, mi sta dicendo che lei, non essendo sposato e desiderando la libertà, è infelice. Invece chi è sposato e non desidera la libertà, è felice. Giusto?».
«Eh? Chi desidera la libertà è… invece, io sarei… Ma, no! Ma cosa ha capito?».
«Lo ha detto lei: “l’uomo felice non è colui che ha ciò che desidera”. Lei è celibe? Sì. Desidera non avere legami con un’altra persona? Sì. Quindi, seguendo i suoi ragionamenti, debbo constatare che lei desidera ciò che in effetti ha, ovvero la libertà, e di conseguenza, lei non è un uomo felice. O ho capito male?».
«Certo che ha capito male! E le dico anche il perché…» dichiarò Di Fencosti prima di fare una pausa per riordinare le idee. Per fortuna, in quell’attimo si ricordò giusto giusto un aforisma di Jean Jacques Rousseau! E allora disse: «“L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene”. E io ci aggiungo: specialmente se è sposato! Ecco! Ora vediamo quale elevato pensiero ha per controbattermi».
«Come, controbatterla? No, non sia così pensieroso. O lei pensa davvero che io stia pensando a quale pensiero fare su ciò che lei pensa io pensi dei suoi pensieri? Suvvia, non faccia quei pensieri!».
Ma certo! urlò Di Fencosti fra sé e sé, ricordando che si trovavano nel parco di un museo, dopo tutto. Solo un buzzurro o un professore eccentrico, si vestirebbe con tanto di cravattino col caldo che fa! Ecco il perché di tanta arroganza mascherata… Ma che stupido sono stato!
E sempre più indignato, osservò: «Come scrisse Ralph Waldo Emerson, “l’intelletto annulla il fato. Finché l’uomo pensa, egli è libero”. Se lo ricordi! E comunque, io non sto affatto facendo pensieri su cosa lei possa pensare io pensi di lei pensan… Insomma! Ma lei, quale conclusioni vuole trarre?».
«Io? Nessuna! E lei che mi parlava di felicità, di verità, di libertà… Comunque, se crede, possiamo anche cambiare discorso» suggerì educatamente l’avversario, seppur un po’ deluso.
Ah, ha! Sei rimasto senza argomenti, eh? pensò meschinamente Di Fencosti, credendo finalmente d’intravedere nel gioco dell’avversario una défaillance certa. Che insolente! Prima ti trovi in difficoltà e fai degli stupidi bisticci per impressionarmi… e forse credendo anche che io non sappia cosa sia la vera paronomasia! Adesso mi stai addirittura proponendo di fare patta? Giammai! Ti faccio vedere io uno scaccomatto coi fiocchi, professore dei miei stivali!
«Non cambiamo assolutamente discorso, nossignore! Ciò che sembra sfuggirle e che l’amore per una donna è una cosa effimera, che nasce dall’eros, ed è quindi destinata a morire nel tempo, come dicono certi veri filosofi che di verità vera, se ne intendono! Ha capito bene, adesso? È il cervello a giocarle questo brutto scherzo! Se lei fosse una persona realista, sentirebbe le catene del matrimonio tintinnarle angustamente nelle orecchie! Oh, se le sentirebbe! Perché, come disse Epitteto, “nessuno è libero se non è padrone di se stesso”. E comunque, la vita non è altro che una commedia, e l’amore ne è solo un atto beffardo e tragicomico. Sta a noi, però, essere intelligenti abbastanza per capire quali siano gli atti più significativi da recitare sul grande palco dell’esistenza. Eh, caro lei, credeva forse che fossi un cretino?».
«Ah, capisco! Allora lei non è arrabbiato, sta recitando!».
«Ma lei proprio non vuole capire un bel niente! Io non sto affatto recitando né mi sto arrabbiando! Sto solo cercando d’evidenziarle le lacune che ha, e di farle capire che, tanto per citare anche Goethe, “nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo”. Oh!».
«Sì, sì, ho capito. Per lei la libertà è relativa, così come la verità, e la felicità, l’amore, le donne e i motori. Ho capito, lei ricerca la vera felicità, adottando una prospettiva relativa, del tutto alla in ’sta niana! Dico bene? Come quello scienziato che aveva i capelli sempre sparati e faceva le linguacce ai fotografi, no?».
Essere sbeffeggiato in quel modo fu davvero troppo per il signor Di Fencosti. Ma poi, chi aveva mai chiesto qualcosa a quel brutto buzzurro di un professore screanzato?
Doveva assolutamente porre fine a quell’ignobile farsa messa in piedi dall’avversario!
«Guardi, capisco che lei avrà anche tre o quattro lauree… No, no, mi lasci finire! Oh! Ma badi bene, che la vita è un gioco serio con tanto di regole morali. Non può cambiare le carte in tavola come e quando le è più comodo farlo. E non può neanche giocare sempre a carte coperte senza…».
«Ah! Mi scusi, allora. Ora, ho capito! Mi sta dicendo che in verità la vita è una commedia, e che per gioco morale, intende dire un gioco giocato da giocatori che non giocano, ma che potrebbero anche solo voler giocare per il piacere del gioco stesso, giocando anche solo per gioco?».
Di Fencosti ormai non si ricordava neanche il più banale dei detti popolari. Eh, già. Fu proprio l’avversario a lasciare lui, Marco Di Fencosti, maestro incontrastato della beffa, a bocca aperta e senza parole. Non gli rimaneva che l’ultima carta, quella dell’insulto. E, ahimè, se la giocò.
«Ma dico! A quale gioco sta giocando, lei? Ma quale professore! Lei è solo un villano! E io non ho altro tempo da perdere con qualcuno che fa il finto tonto. Lei continui pure a fingere, se ciò la rende tanto felice, ma lo faccia da solo! Io… La saluto, e basta!». Ciò dicendo, il signor Di Fencosti balzò dalla panchina e se ne andò sbuffando d’ira.
L’avversario, dapprima si sentì amareggiato che quel signore si fosse arrabbiato; credeva davvero che insieme avrebbero potuto fare qualche passo avanti nelle loro rispettive ricerche sulla felicità. Ma subito dopo pensò che quello doveva essere solamente un povero pazzo. E lui, Giacomo Rossettini, inventore a tempo pieno di complicatissimi algoritmi per decifrare i sentimenti, non aveva alcunché da spartire con gente simile.
«“Chi non ama le donne, il vino e il canto, è solo un matto, non un santo”!» borbottò canticchiando allegramente l’unico aforisma che conosceva. «E lo ha detto Ator Shop an hour!» ridacchiò orgoglioso mentre si sistemò la giacca a doppio petto di lana che ricevette come regalo per il suo compleanno l’inverno passato.
Fece poi un bel sospiro. Ora che quello scocciatore matto se n’era andato via, poteva finalmente riprendere il filo del suo ragionamento là da dove fu maleducatamente interrotto. Appoggiò quindi ben bene le spalle allo schienale, incrociò le braccia, accavallò le gambe, e beatamente pensò: Seppur sento manchi poco, per quel poco che mi sfugge, manchevole rimane la sfuggente essenza della formula della vera felicità; che in verità però, felice sembrerebbe la quadratura del cubo inverso…
«Oh, grazie al cielo! Eccola finalmente, signor Rossettini, l’ho cercata dappertutto! Mi sono preoccupata a morte, sa?».
«Ma, mia cara, seguendo il logicismo da logista nato quale sono, e considerando la logica logistica del museo, logicamente non ritenevo illogico pensare che sedermi nel parco potesse darle motivo logico di logica preoccupazione».
«Va beh, dai, non fa niente» disse la giovane e sorridente infermiera, accarezzandogli una guancia. «Ora su, però, faccia il bravo e prenda la sua medicina, e poi raggiungiamo gli altri, ché si è fatto tardi e dobbiamo tornare a casa» aggiunse porgendogli due pillole e una bottiglietta d’acqua mentre pensava che quelle gite ai musei, tanto volute dalla direttrice dell’istituto, fossero davvero un’idea poco felice.