Racconto premiato di Domenico Livoti

Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla X edizione del “Premio di Poesia e Narrativa La Montagna Valle Spluga 2009


«Era il tempo della “Carga”»

Ho avuto sulla punta del mirino del mio vecchio Mauser l’occhio destro di un giovane finanziere. Il mio dito semigelato spuntava dal guanto di lana e sfiorava come in una carezza il grilletto del fucile.
Ero il padrone di una vita.
Un secondo prima arrancava nella neve con il fiato che appena in aria si congelava e cadeva come aghi di ghiaccio sul biancore abbacinante di quell’Alpe sperduta sui monti.
E un secondo dopo poteva essere morto, immerso nella neve, senza più sentimenti, senza più fiato, senza più fatica, senza più quell’ostinazione che lo aveva portato a lasciare indietro il suo compagno per raggiungere quel contrabbandiere con la sua bricolla piena zeppa di caffè e tabacco, che ero io.
Appostato nello stallone dell’Alpe Piani, disteso sulle grandi piote che formavano il pavimento dell’enorme stalla vuota, aspettavo il momento fatale in cui il mio indice intirizzito si sarebbe contratto in una sentenza mortale.
Era un movimento semplice ma tutto il mio essere tentennava, vacillava.
Dal Baldiscio all’Alpe Piani era stata una corsa per l’esistenza.
Avevo avuto voglia, sfiancato com’ero, di lasciarmi andare nella neve e di scomparire sotto il suo manto pietoso.
Non ce la facevo più.
Le mie forze fisiche si erano prosciugate dopo che ero incappato in quella pattuglia. Sentivo di non avere più la forza di reagire, e la morte mi sarebbe sembrata un dono di pace e di misericordia. Ansando nel mio andare, avevo macinato l’atto di dolore che il parroco di Starleggia ci aveva fatto imparare a memoria con tanti sacrifici.
“ Recitatelo mentre andate sui sentieri delle montagne in mezzo alla tormenta.
Non tanto per quello che state facendo, perché la fatica che fate per portare a casa qualche soldo vi assolve da sé. Ma nel caso vi capiti qualche disgrazia!”

2

Un logorio interno mi aveva invaso, un senso di vuoto magnetico mi aveva assorbito e volentieri avrei chiuso gli occhi per affidarmi a un momento di requie.
Poi avevo intravisto lo stallone dei Pozzoli emergere dal bianco incontaminato dell’Alpe e il miraggio di una possibilità si era accesa dentro di me.
La coppia dei gendarmi si era rotta, il mio sforzo finale aveva creato la selezione e il più giovane era riuscito a starmi dietro senza tener conto degli avvertimenti e dei richiami del più anziano.
«Lascia perdere! Torna indietro! Non distaccarti da me! È pericoloso! Lascialo stare! Lo prendiamo giù!».
Nevicava a larghe falde che scendevano placide come piccoli stracci lasciati cadere da un cielo distratto.
La visibilità era ridottissima e la sagoma del finanziere era visibile perché ancora tenuta fermamente dal cannocchiale montato sul fucile.
Ero cosciente del pericolo.
In una spedizione nel Mesocco non si doveva essere armati.
Era un sottinteso imperativo.
Al massimo nella tasca ci poteva essere il coltello a falcetto, tollerato persino dalle guardie svizzere.
Ma quella volta avevo portato con me il mio fedele fucile.
Nella precedente spedizione avevo visto un branco di camosci sulle rive ghiacciate del lago su al Passo del Baldiscio.
Mio padre mi aveva supplicato di portare a casa almeno un po’ di carne, però di nascosto da mia madre che sapeva dei rischi di chi portava in montagna il fucile.
Se il ricettatore non si faceva trovare pronto o una tormenta improvvisa avesse impedito la discesa verso la Svizzera, un buon camoscio sarebbe stato un buon bottino.
Purtroppo mi ero imbattuto nella pattuglia dei due finanzieri, che non mollavano la presa perché probabilmente avevano visto che ero armato.
La nevicata non era continua, c’erano degli sprazzi di quiete che permettevano addirittura di lanciare lo sguardo al di là della valle sul Pian dei Cavalli.

3

Il Pizzo Ferrè era invece interamente coperto, ma dominava sull’intero paesaggio, gravava su di noi, che invece di starcene tappati in casa avevamo osato sfidare la montagna.
Poi improvvisamente la neve cessò e il volto del finanziere, che mi tampinava da vicino, emerse in tutta la sua chiarezza dallo schermo bianco della neve.
Il mirino passò da un occhio all’altro e rivelò un particolare inquietante. Quel giovane aveva un occhio azzurro e uno nero. Mi accertai con pignoleria di quella stranezza e sul mio animo scese come una strana ammonizione.
Mi ricordai le parole di mio nonno:
«Chi ha gli occhi di due colori, possiede una grande personalità.
Il destino per queste persone ha in serbo grandi cose! Se incontri un uomo così, distogli gli occhi e passa via!».
Ritirai il fucile e mi nascosi dietro due gigantesche piote che si trovavano appoggiate al muro dello stallone.
«Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato il Vostro castigo…»La neve ricominciò a cadere, un rombo lontano fece seguito ai lampi su per il Bardan e il mondo fuori dallo stallone sembrò non esistere più.
«e molto più perché ho offeso Voi infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa…»
«Giovanni, dove sei? Andiamo via, Puglisi! Il tempo peggiora! Rischiamo di perderci nella tormenta! Lascialo andare quello spallone!».
«…e propongo col Vostro Santo Aiuto di non offendermi più e di fuggire le occasioni prossime del peccato. Signore, misericordia, perdonatemi!».
Vent’anni dopo mi trovai a Ostuni in vacanza. Non so perché scelsi quel posto in Puglia.
E invece nel mio cuore lo sapevo benissimo. Qualcuno mi aveva detto che quel giovane finanziere, che aveva percorso i sentieri da S. Sisto verso il Passo del Baldiscio, era tornato al suo paese d’origine. Per curiosità o altro ero riuscito ad avere il suo indirizzo, e fu così che mi ritrovai nella piazza principale di Ostuni a osservare una felice famiglia seduta a un bar, formata da lui, lei e due ragazzi sorridenti.

4

Quando l’uomo si alzò per entrare nel bar io lo seguii.
Non mi potevo sbagliare.
L’occhio azzurro riluceva come una gemma, mentre quello nero si mangiava la luce del giorno e stava in agguato.
Si avvicinò al bancone e ordinò un caffè.
«Offro io!» decisi di dire all’improvviso.
«Grazie! Ma chi è lei? Ci conosciamo?».
«Non ha importanza! Era il tempo della “carga”! Lo consideri un semplice atto di gentilezza per la sua magnifica città!».

Domenico Livoti


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