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In copertina: fotografia di Daniele Timpano
Prefazione
Con il suo libro, dal titolo “Famine”, Elaise B. propone uno scenario narrativo decisamente coinvolgente e permeato d’un continuo processo introspettivo che, in ultima analisi, riconduce alla concezione del senso autentico dell’esistenza: “vivere è una continua ricerca d’amore”.
La sua Parola scandaglia l’animo dei protagonisti, eleva le loro emozioni ad una dimensione superiore ed indaga il “lato oscuro” contro il quale combattere, affinché il “demone” non sia più dominus della scena.
La narrazione ha inizio con l’incontro inaspettato, quanto sia reale o irreale sarà il lettore a deciderlo, tra un uomo, appena separato e con una figlia, ed una misteriosa ragazza, che si sta dondolando sull’altalena all’interno di un parco giochi.
L’uomo chiede alla ragazza di raccontargli la sua storia e permettergli di diventare il suo “narratore”, al quale affidare, con fiducia, la dolorosa esperienza vissuta e le emozioni celate nelle zone più segrete dell’animo.
La scrittura è giocata su due piani di lettura: da un lato, il mondo reale con le vicende della vita, le sue impreviste manifestazioni e le inevitabili contraddizioni; dall’altro lato, l’evanescente figura di una ragazza che, come si evince dalle ultime pagine del libro, rappresenta un simbolico specchio nel quale l’uomo vede se stesso, la sua condizione esistenziale, il lato nascosto del suo essere, che riconduce alle mancanze affettive nei confronti della figlia e mostra le lacune del suo modo di vivere.
Elaise B. offre una preziosa, efficace e penetrante testimonianza del profondo travaglio di una ragazza, il cui nome è Famine, che affronta il binge eating disorder e, nel sofferto percorso, mette a nudo la sua anima: lei rappresenta le lacrime di coloro che vengono fagocitati dalla vita quotidiana, il sorriso sincero che può essere offerto come dono, la necessità vitale di essere amati e di amare, il coraggio di continuare a vivere e lottare, fiduciosamente in attesa di un cambiamento.
L’aspettativa di una metamorfosi che illumini la vita, dissolva le ombre, insegni ad apprezzare ogni istante, a desiderare un bacio d’amore e ad essere veramente amati in modo “unico”, diventa una rivelazione salvifica: la nostra esistenza è una continua ricerca, faticosa, sofferta e drammatica, e Famine ha torturato se stessa con il cibo, soffrendo la malattia del disturbo alimentare, solo per difendersi, forse per nascondersi dal “male oscuro”, rimanendo vittima di se stessa.
Il suo percorso miscela la sofferenza estrema ed il groviglio di emozioni, che creano un intricato labirinto dal quale è difficile uscire: l’isolamento la conduce verso un progressivo declino; non riesce a provare emozioni né a sorridere; si sente inadeguata e si estranea dal mondo in preda al pensiero dell’ennesimo fallimento e al “disprezzo verso se stessa”.
Ecco allora il susseguirsi degli eventi che contrassegnano la sua “quotidianità malata”, tra momentaneo entusiasmo e persistente paura: la prima dieta grazie al medico nutrizionista; l’insorgenza di numerosi comportamenti ossessivo compulsivi; il trasferimento a Padova dove frequenta la facoltà di Psicologia; la richiesta di aiuto alla madre; il primo innamoramento e la conseguente delusione; l’imprevista possibilità di diventare madre, fino a giungere all’incontro con il suo Principe Azzurro.
L’atto di salvazione e la conseguente rinascita possono condurre in una dimensione dove “il tempo non esiste”, permettere di “volare oltre le nuvole”, a patto di “essere capaci d’accettare il dolore per conoscere la felicità”.
Con la sua apparizione lei farà conoscere all’uomo un mondo parallelo, sarà virgiliana figura che lo guiderà in una “realtà ignota”, la dimensione dell’amore, quell’amore che lui dovrà offrire a sua figlia e che lo aiuterà a superare le insidie della vita.
Dalle sue parole emerge prepotente la consapevolezza che deriva dal conoscere la “propria natura”, strumento per distruggere il devastante malessere, la solitudine e l’estraniamento; per allontanare l’inevitabile caduta nel baratro causato dalla malattia oscura, che rinchiude lo spirito in una prigione trasparente dalla quale tenta disperatamente di evadere, per ritornare alla luce della vita e a “farsi amare” con la sua “imperfezione”.
Con il suo libro, originale miscela di invenzione narrativa e d’incessante scandaglio della condizione umana, Elaise B. offre numerosi spunti di riflessione, grazie ad una scrittura intensa, profondamente sentita, sempre capace di cogliere l’autentica sostanza vitale, sia del continuo travaglio interiore che incombe sulla nostra esistenza, come del dialogo intimo che si instaura tra i due simbolici protagonisti.
Massimo Barile
Famine
18 Marzo 2016
h 21.30
Pontenure
All’attenzione del direttore
Buonasera, con la presente mail le comunico che l’intervista si è conclusa con successo e a breve le sottoporrò la bozza per l’articolo.
Colgo nel frattempo l’occasione per comunicarle mie imminenti dimissioni che le giungeranno formalmente la settimana prossima.
Ho il dovere di cercare mia figlia
Cordiali saluti
M.B.
“Non esiste notte più buia di quella che si vive aspettando un cambiamento imminente.
Ho torturato me stessa con il cibo, l’ho usato per difendermi e per nascondermi eppure l’unica cosa che ho ottenuto è una perpetua notte buia.
Nello sguardo di chi mi stava accanto ho letto il disprezzo per il mio stile di vita, nei loro occhi esisteva solo la convinzione della mia follia ma io non sono pazza sono semplicemente una vittima di me stessa.
Non vivo nell’attesa del domani ma è la lotta dell’oggi ad occupare la maggior parte della mia giornata”.
A tutti coloro che hanno camminato nel buio
“Accadde per caso…”
Vivere è la possibilità di inserirsi ed affermarsi nella realtà che ci circonda, è il sapere di poter cogliere le opportunità che ci vengono offerte, è un respirare involontario e indolore.
Ci sono circostanze però nelle quali le promesse del vivere non vengono soddisfatte ed in cui anche il solo e semplice risveglio diventa un indicibile dolore, tanto che è preferibile una notte infinita ad un giorno di sole.
La vita di Famine esprime questa condizione, mostra l’incompatibilità di una persona al vivere e di conseguenza presenta la sofferenza del sopravvivere.
Erano le dieci del mattino del 30 gennaio 2013 quando io capii che la storia di questa apparentemente comune ragazza doveva essere raccontata non perché fosse più meritevole di altre o straordinaria, ma perché vera e comune a quella di tante altre persone che come lei soffrono di un male invisibile e alienante chiamato “disturbo alimentare”.
CAPITOLO 1
In ogni istante della nostra vita abbiamo un piede nella favola e l’altro nell’abisso.
Paulo Coelho
“La piccola principessa”
Conobbi Famine cinque anni fa, in un piccolo parco giochi di Pontenure, in provincia di Piacenza, all’ombra di una quercia, mentre si dondolava su un’altalena.
Per motivi di lavoro, mi ero appena trasferito da Milano con la mia bambina di cinque anni, Alice.
Dopo la fine del mio matrimonio, avvenuto l’anno prima, desideravo crescere mia figlia nella tranquillità di un piccolo paese, per evitare la dimensione caotica che la vita in città impone.
Fu mia figlia a notare per prima quella giovane e misteriosa ragazza che sembrava tutt’uno con l’altalena.
Bastò che mi distraessi un solo istante per far sì che Alice corresse via da me per andare alla scoperta di quella affascinante quanto misteriosa figura.
Giunta dinnanzi all’altalena, immediatamente si rivolse a lei per chiederle, incuriosita, la ragione che spingeva una “ragazza grande” a trovarsi in quel posto e se le sarebbe piaciuto coinvolgerla nei suoi giochi.
La giovane si fermò immediatamente e, con mia grande sorpresa, indirizzò la sua attenzione verso Alice, sfoggiando un dolce sorriso.
Ella le raccontò che quello era il parco che più amava al mondo e che da bambina sognava di riuscire a toccare la foglia di una pianta molto alta situata sopra l’altalena.
Era persuasa del fatto che dondolando sarebbe riuscita, prima o poi, a realizzare il suo desiderio, sicura che non si sarebbe arresa prima di riuscire a farcela.
Alice non riusciva ad interpretare quell’enigmatica figura ma era contenta di aver incontrato qualcuno che amasse quanto lei giocare.Per questo, le si mise seduta accanto.
Non volli raggiungerle subito perché l’intesa che si era creata, in un arco di tempo così ristretto, mi affascinava e volli osservarle da lontano, come uno spettatore, che assorto, assiste ad una rappresentazione teatrale.
Percepii alcune battute della loro conversazione e rimasi estasiato dall’ammirazione che leggevo nell’espressione di Alice.
La ragazza, il cui nome è Famine, le mostrò un piccolo cespuglio dietro al quale erano nascoste tante piccole fragole e more.
Il sorriso che apparve sul viso della mia bambina era indescrivibile, sembrava avesse trovato il tesoro più prezioso al mondo e da quel giorno in poi si convinse che la sua nuova amica fosse una principessa dai poteri magici.
Alice, armata delle sue convinzioni, le chiese immediatamente se conoscesse le principesse di Walt Disney, se avesse mai vissuto in un castello e se fosse mai stata salvata, chissà, da un principe; immediatamente Famine colse l’idea che la piccola si era fatta di lei e inutili furono i tentativi della ragazza di convincerla che nulla aveva a che fare con il mondo della fantasia. Eppure, accortasi dell’incapacità di persuadere la bambina, decise di assecondare la sua immaginazione ed iniziò a raccontarle una storia che mi spinse a volerla conoscere.
Sussurrandole delicatamente all’orecchio, le rivelò di essere la principessa di quel parco che in passato disponeva di un bellissimo palazzo, adiacente ad esso.
In tenera età era amata e coccolata da tutti gli abitanti del piccolissimo regno di Pontenure e non trascorreva giorno senza che la intrattenessero con i più svariati giochi; ogni suo desiderio sembrava poter essere realizzato e nelle più piccole cose trovava la felicità.
Dal momento che i genitori avevano il dovere di amministrare il castello, ad occuparsi di lei era una fata, Cia, la miglior cuoca di tutti i regni assieme al suo fedele aiutante, Giorgio, che aveva lo straordinario potere di poter donare un sorriso in cambio di una lacrima.
Non poteva desiderare più di quello che aveva e la sua unica paura era crescere e dover rinunciare a quel mondo utopico.
Un giorno però, durante i festeggiamenti per il suo quinto compleanno, uno stregone geloso della felicità che avvolgeva il piccolo parco, scagliò un maleficio su di esso e sul palazzo, costringendo Famine e la sua famiglia ad abbandonare quel posto fatato.
Il dolore che si originò fu immenso e da quel giorno la piccola principessa smise di sorridere, ma non di sognare; continuò a cercare quell’amore puro che aveva conosciuto, negli angoli oscuri della sua mente, sperando, un giorno, di poter spezzare l’incantesimo.
La sua disavventura però non era ancora giunta al termine, infatti, il malvagio stregone, consapevole e spaventato dalla possibilità che una volta cresciuta la piccola principessa potesse sconfiggerlo, decise di intrappolare Famine in una bolla opaca, non visibile da altri esseri umani, che le impedisse di sognare ed immaginare, perché perennemente tormentata da molteplici “cattivi pensieri” che non l’avrebbero mai abbandonata, distorcendo la sua visione della realtà.
Ciò che accadde fu che la piccola principessa crebbe con la sofferenza nel cuore.Tuttavia, nei rari momenti in cui riusciva ad ingannare il mago e a ritornare, per pochi istanti, nel suo parco, sentiva ancora quel caldo avvolgente, frutto di una serenità profonda, sfiorarla per brevi indimenticabili istanti.
Cosa era potuto accadere a quella giovane ragazza perché si descrivesse vittima di un incantesimo?
Cosa si celava dietro quello sguardo giovane eppure apparentemente così provato, simile a quello di coloro a cui sapevo la vita non aver risparmiato colpi bassi?
Decisi di intromettermi nella conversazione, dovevo conoscere quella “principessa”.
Non lasciai il tempo ad Alice di terminare la domande che le stava prontamente ponendo riguardo ad un ipotetico principe, capace di rompere il maleficio, quando, maldestramente, con il pretesto di volermi scusare del fatto che la bambina la stesse disturbando con la sua curiosità e sfrontatezza, mi presentai a lei.
Sembrava incuriosita e un po’ spaventata dalla mia forse troppo eccentrica presentazione; mi sentivo come un fan che si trova davanti al suo idolo e che vorrebbe parlargli dei più svariati argomenti ma che, per paura di farlo andare via, si cela dietro un finto controllo che lascia però trasparire una buffa irrequietezza.
Famine era una ragazza dai tratti fisici molto comuni, non particolarmente alta, di media corporatura, vestita in modo curato, labbra carnose e sguardo intenso; anche quando non diceva nulla, i suoi occhi sembravano parlare per lei e apparivano intenti a studiarmi.
Dinnanzi a lei mi sentivo privo di protezioni, spogliato delle mie certezze.
Mi trovavo in estrema difficoltà; come potevo chiederle di lei senza spaventarla e soprattutto, in che modo avrei potuto farle comprendere che il mio insensato interesse nei suoi confronti era autentico e privo di secondi fini.
Dopo alcuni istanti di imbarazzante silenzio, fece il gesto di andarsene e fu allora che un coraggio del tutto inaspettato si impossessò della mia persona e mi spinse a fermarla.
Mi scusai per la mia irruenza e la supplicai di ascoltarmi e di credermi anche se ciò che le stavo per chiedere poteva apparire folle e inopportuno.
Con il cuore in gola, le confessai che, senza una valida ragione, avevo bisogno di conoscere la sua storia e le chiesi di riporre fiducia in me, uno sconosciuto incontrato al parco, per permettermi di diventare il suo narratore.
Le parole mi uscirono dalla bocca senza che ne avessi il controllo ed ero sicuro che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto quella misteriosa persona; del resto chi non sarebbe fuggito dopo aver sentito quello sgangherato discorso.
Stavo per distogliere lo sguardo, rassegnato, quando, con mia grande sorpresa mi accorsi che ella rimaneva ferma, davanti a me, con lo sguardo perso nel vuoto; io non riuscivo a codificarla, non ero in grado di prevedere le sue intenzioni ma ad un certo punto, con una tonalità di voce quasi impercettibile, mi disse che mi avrebbe raccontato tutto ciò che la mia mente era curiosa di conoscere.
Incredulo mi girai di scatto alla ricerca del volto della mia piccola Alice, quasi con l’intento di volerla ringraziare per aver visto più lontano di quanto avessi fatto io, ma lei non c’era.
Come potevo aver perso di vista mia figlia? Era possibile che quella ragazza avesse assorbito tutta la mia attenzione? Ma soprattutto, perché non ero preoccupato dell’assenza di Alice?
Sembrerà impossibile, ma sebbene non riuscissi a vederla non ero preoccupato e continuavo a sentirla inspiegabilmente accanto a me.
La sua presenza non era percepibile dai miei sensi ma non per questo mi appariva meno reale.
Riposi nuovamente la mia attenzione su Famine, senza che ci fosse un valido motivo per farlo, come per volermi assicurare che non si fosse allontanata da me; ero terrorizzato all’idea di perderla.
Si alzò dall’altalena con uno scatto tanto veloce quanto elegante e con un cenno della mano accompagnò la promessa di un rinnovato incontro.
Ci congedammo così, senza neppure presentarci, ma con la consapevolezza, o almeno per me era così, di conoscerci.
Ci saremmo incontrati per sei giorni consecutivi, allo stesso orario, le 18 in punto, sotto un pergolato del piccolo parco, scenario di quello che sarebbe stato l’incontro che avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
[continua]
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