Con questo racconto ha vinto il primo premio all’edizione 2007 del La Montagna Valle Spluga Il viaggio in “Valle” A giugno la Pinina, partita da Colico, era sulla strada per Teggiate. Si era fermata come di consueto a Chiavenna. Nella merceria della Prima aveva comperato varie cose che le sarebbero servite. Stava già per uscire dal piccolo negozio quando i sui occhi caddero su una matassa bianca. “La seta”, sospirò. Dopo un rapido calcolo su ciò che le restava nel borsellino:“la compero”, disse. In un sussulto di gioia, quando uscì dal negozio, pensava che avrebbe potuto ricamare lo scialletto da mettere incrociato sul corpino. E ne avanzava anche per la frangia. Una bella frangia, annodata a intreccio, come lei sapeva fare. Lenta si avviò verso il carro dove il Gos (Agostino), suo marito, l’aspettava. Salì, si sedette sull’asse, accanto all’uomo e non disse una parola. Sorrise lievemente, pensando al bell’ornamento e poi guardò la strada e fu presa da tutti i problemi del momento. Incominciò la “muntada” (salita) di Bette. L’andatura del cavallo rallentò, ma non era niente in confronto a quello che sarebbe capitato sui “crang”. Là suo marito sarebbe sceso, per risparmiare fatica all’animale. In certi punti sarebbe scesa anche lei. Non erano ancora giunti alla Madonna di Gallivaggio, quando sentirono qualcuno gridare: “Sü, sü, asasìn, sü” (alzati, alzati, assassino, alzati). Si fermarono. Sul tornante superiore videro un carro stracolmo, fermo. Il cavallo era inginocchiato. Il suo padrone lo strattonava, lo tirava, lo supplicava per farlo rialzare. La povera bestia muoveva il collo, oscillava il capo, ma non riusciva ad alzarsi. “E’ il Gusto; ha caricato troppo”, disse il Gos. Intanto che erano lì fermi a considerare la scena, l’uomo si raddrizzò; con due dita rimise a posto il logoro cappello. Poi lentamente sfilò dalla tasca il borsellino. Lo aprì con circospezione e ne tolse un piccolo biglietto da … (una lira, forse). L’accarezzò per lisciarlo. Poi l’alzò e solennemente promise “l‘è per la Madona de l’alp, s’el caval el va ineenz” (e’ per la Madonna di Gallivaggio se il cavallo andrà avanti). L’animale, forse intuendo che il suo padrone si era acquietato, forse perché lasciato un po’ in pace, riuscì a mettersi in piedi. Lentamente fece qualche passo. Il Gusto, prima incredulo, poi nuovamente in preda all’ira, prese il cavallo per la cavezza, gli sventolò sotto il naso il povero biglietto sdrucito e urlò: “To’, brütt ügiulun de San Casèn, te fee bri ‘n pass, u te se paghièd” (Tieni! Brutto occhiolone di San Cassiano, non fai un passo se non vieni pagato). I due silenziosi testimoni si guardarono sorpresi e poi cominciarono a ridere. Anch’essi presero il loro cavallo per la cavezza, raggiunsero il loro conoscente, lo rianimarono e assieme risero ancora. Lo sconforto del Gusto scomparve. Giunto alla chiesa, si affrettò a mettere nella bussola di pietra la sua lira miracolosa. Anche la Madonna dell’Alpe avrà sorriso a veder la sua povera gente, un po’ disperata, un po’ fiduciosa. Certamente l’avrà guardata con misericordia. La donna si fece il segno della croce e iniziò: “Ave Maria…” “Santa Maria mater Dei…” risposero gli uomini. Intanto il buio si era fatto intenso. I cavalli andavano con il capo chino, seguendo il bianco della strada. Quando giunsero in vista di Campodolcino, la donna era stanca. L’unico sollievo era quella matassa di seta. Il sogno dello scialletto ricamato, con la frangia, la sosteneva. I viandanti si sarebbero fermati per la notte. Prima dell’alba avrebbero ripreso il cammino. Infatti, appena la prima luce scolorì il cielo, la Pinina, infreddolita, prese posto accanto al marito sul carro, che si avviò, lentamente, sulle ruote cigolanti. La donna avvertiva una certa apprensione. Era la prima volta che si avviava verso la baita del marito. Le nozze erano avvenute a gennaio. Ora aveva cambiato la zona di transumanza estiva. Non più Madesimo e gli Andossi ma Teggiate. Teggiate Il luogo era molto impervio. Non come la Montaneza di Madesimo, dove i suoi avevano una vera casa. Teggiate era su una cengia. Dopo la Val Bianca, ecco, in alto, la baita. Di pietra, il tetto spiovente, la grande trave che lo sosteneva pareva forte. La consolò l’ampio spazio coperto, all’entrata. Tutto il carro era al riparo. Subito sotto, il primo pendio erboso era ripido. In fondo le rocce mostravano l’inizio della parete scoscesa. Su un’altra balconata rocciosa, là dietro i ripidi prati, si vedeva, bianca, la chiesetta della Madonna della Neve. Per raggiungerla bisognava seguire lo stretto sentiero, che tagliava il costone di sbieco. Qualche valloncello si apriva la via tra i dossi. Su un altro sperone roccioso ondeggiava solitario un larice. Alla Pinina, che era abituata alla dolcezza del declivio degli Andossi, tutta quell’erta di prati e di rocce metteva un senso di timore. E sulle balze vide capre, dalle lunghe corna; lei non amava le capre. E baite dirute, circondate da ortiche gigantesche. Sembrava un pezzo di monte in rovina. La giovane sposa sentì un vuoto al cuore. La nuova vita ebbe inizio. I giorni si susseguivano; alcuni sereni senza una nube ed altri pieni di “scighera” (nebbia fitta). La casa del Gos era umida, con una cantina profonda, che metteva i brividi. Quei gradini sconnessi, per raggiungerla, la facevano sempre inciampare. Non riusciva a ricordarsi dove traballavano. La cucina era nera di fumo. La piccola finestra, troppo alta, non riusciva a darle luce sufficiente. L’unico ambiente allegro era la grande stüa, dal pavimento di assi ben uniti con le pareti ricoperte di pannelli di legno. Qui vi era il tavolo, circondato dalle panche. Nell’ampio spazio di lato un bel letto col saccone pieno di foglie di granoturco, soffice e asciutto. Lei ogni mattina infilava la mano nella lunga asola e con rapidi gesti sollevava le foglie. Rifaceva cosi’ il letto in cui aveva messo le sue belle lenzuola di canapa e lino, ricamate nelle sere d’inverno in previsione delle nozze. Il letto era per lei e suo marito. Il “cascìn” (pastore) dormiva sopra, in una cameretta, a fianco di quelle di altri proprietari. La casa infatti non apparteneva tutta alla sua famiglia. La storia del Moch La donna quel giorno era inquieta. La sera prima, la vecchia Nèta (Annetta), dopo il rosario, recitato sulla panca davanti a casa sua, con tutti i vicini, aveva raccontato un fatto, che assieme alla meraviglia dava i brividi. Era la storia del Moch, un vicino del Peder. Entrambi venivano da Isola. A Teggiate avevano quelle due baite basse, unite, sopra il primo precipizio. La Nèta li aveva conosciuti quando ancora era bambina. Il Peder era forte, i capelli neri, arruffati. E portava sulla camicia un gilet di grossa lana grigia. Parlava sempre con voce grossa e sollevava la testa rapido, per guardare chi gli era vicino. Camminava piegandosi di lato, mai curvo in avanti. Il viso era rosso, i baffi lunghi. Poi un giorno era morto. Gli avevano fatto il funerale, come si fa con tutti. Lo avevano seppellito nel cimitero di Isola. Ma una sera, di forte temporale, in cui l’acqua batteva sulle piote del tetto come se volesse romperle, si sentì galoppare un cavallo. Galoppava non sulla strada. Si era proprio sicuri. Galoppava sulle cenge, da una all’altra. Saltava e i ferri facevano scintille sui sassi levigati e avrebbero potuto bruciare l’erba, se non ci fosse stata tutta quell’acqua. I bagliori lunghi dei lampi rasentavano i dossi e le rocce. Udivano tutti, nei loro giacigli: “Dach quel toch al Moch” e “... och” ripeteva l’eco, sull’onda dei tuoni e dello scalpitio del cavallo. La Pinina quella sera, intanto che cercava il conforto del riposo nel suo bel letto, risentiva la voce tremula della Nèta. E tra la prima pioggia battente pensava a quel grido. Ascoltava bene, era solo la pioggia, poi un lampo… e poi un tuono che andava a prolungarsi nella valle. Com’era confortevole la sua stüa! Ma là, dietro a quelle balze rocciose, chissà chi c’era. Tutto quel buio, rotto dai lampi, le metteva soggezione. Non voleva accendere la candela. Si disse che non voleva sprecare il fiammifero, o forse per non vedere la piccola fiammella tremolante sotto l’acquasantino. Il Peder cosa aveva fatto? Aveva spostato i termini del suo magro prato, ai danni del suo vicino, il Moch. Ora, dopo morto, chiedeva ai sui eredi di fare giustizia, di restituire al proprietario ciò che gli era stato tolto, altrimenti sarebbe stato dannato. La Pinina fece un rapido esame delle proprietà di suo marito. Lei era nuova, un’estranea. Suo marito non aveva prati su quei dossi. Ne era sicura. Il suo Gos, poi era un uomo preciso, non tagliava neanche le “cimose” del sentiero per non danneggiare il vicino. Eppure un brivido, prima di dormire, le tolse sicurezza. Allora rapida cominciò a recitare di nuovo le preghiere. E non seppe fin dove era arrivata, nel rito abituale. Si svegliò che era mattina, ed era già ora di alzarsi, per tutti i lavori del giorno. Nessuna nube nel cielo, nessun resto del temporale notturno, nessun segno della pena del dannato. Guardò verso la Madonna della Neve, la chiesa era là, piccola e sperduta, tra una roccia e le case diroccate. Ogni cosa era al suo posto. Allora la Pinina guardò la strada. Forse qualcuno degli Andossi sarebbe passato per scendere verso Colico. Intanto il sole splendeva. Era un piacere stare sulla panca sotto la finestra a sferruzzare. Alla Pinina venne in mente che, in una giornata così, era meglio pensare al bucato. Riempì quindi la gerla di biancheria. La pressò per farla entrare bene. Prese dalla mensola, in cucina, un pezzo di sapone. Lo accarezzò piano. Era piccolo, col segno delle mani nel mezzo. Sarebbe bastato per il bucato. Lei aveva tanta energia e l’acqua che scendeva dalla valle era molto buona. Passò le braccia nelle bretelle di salice della gerla e fu in piedi. Eccola già sul pendio, con la gonna rialzata ai lati, verso il torrente che scorreva a fianco della chiesetta. Intanto che camminava, guardava l’erba e i piccoli fiori. Cercava con l’occhio vigile qualche “pèt” (fungo bianco). Dopo il temporale della notte forse qualcuno era spuntato. Quello era un posto buono. Un giorno ne aveva trovato uno tanto grosso che, ben cucinato, era bastato per tutti come pietanza. Camminava e intanto le veniva ancora in mente il temporale della notte. Era su quelle balze che galoppava il Peder. Volle fare una risata, perché lei non aveva paura. Ma non riuscì. Affrettò il passo, vide il recinto pietroso dissestato delle capre. Andò dritta alle rocce levigate dove scorreva l’acqua, si avvicinò alla pozza dove le donne erano solite fare il bucato. Tentò rapida la lastra di pietra su cui avrebbe lavato. Raddrizzò l’altra a gradino, su cui poi si inginocchiò. Cominciò col lanciare un lenzuolo sull’acqua, sollevato dalla corrente nel mezzo, si chinò per avvicinare il lembo lontano, bagnato. Intanto il gorgoglìo dell’acqua la distraeva. La sua freschezza sulle mani la faceva rabbrividire. Intanto che sollevava il panno attorcigliato si raddrizzò, guardò in alto. Vide quelle rocce, da cui scendeva l’acqua, concave e lisce. Le sembrò che potessero parlare, così ravvicinate, un po’ tonde, un po’ allungate, con forme quasi umane. E vide la scena che le era stata narrata: il Peder che faceva saltare il suo cavallo da una rupe all’altra, nella tempesta, tra i lampi. Si affrettò a dire un’ “Ave Maria”. Così aveva fatto anche la sera prima. Ora però non poteva dormire. Sentì un fischio di richiamo. Qualcuno cercava il suo cane, mentre saliva lento il sentiero da Isola. Respirò di sollievo, ma quel luogo desolato le dava tristezza. La sera precedente, aveva visto, negli occhi chiusi, un uomo che non si curvava in avanti, ma si piegava da una parte, mentre cavalcava, con i capelli irsuti ed il viso rosso. Intanto i panni insaponati facevano una bella schiuma, che si cercava la via tra un sasso e l’altro. La Pinina pensò che se avesse lavato in fretta i panni e li avesse stesi sul muretto sconnesso, li avrebbe portati a casa quasi asciutti. Sarebbe stato un bel lavoro: questo contava, non le favole raccontate di sera. Lei non credeva che le anime dannate ritornassero nel nostro mondo, ma molti ci credevano. Radunati i panni asciutti si avviò verso casa. Camminava curva sotto la gerla, cercava con l’occhio il punto dove mettere il piede per non scivolare. Respirava quell’aria profumata, con sollievo. Il vitello ferito Un mattino la Pinina aprì la porta e guardò la valle: i torrenti scendevano dalle montagne di fronte con un mormorio uguale. Le vette erano disegnate nel cielo immobile. Neanche un nube. La donna chiamò il Tino, il pastorello, perché venisse a mangiare lo “scotamüs” (latte bollente con la polenta del giorno prima) e si affrettasse poi a portare le mucche sull’alpe. Venne di corsa il ragazzetto, tutto contento. Intanto chiamava le mucche: “too, Chièrina! Too, Lena! Too, Fula!” e i vitelli, soprattutto il Güs (guscio), così svelto e leggero, sempre fuori dal gruppo. Il pastore, col suo bastone lisciato si avviò verso il pendio, attento e rapido. Fischiettava felice. Gli piaceva stare lì sull’alpe. La Pinina era buona, allegra: un po’ sorella, un po’ mamma. Lo lasciava riposare, gli dava da mangiare finché ne voleva. Beninteso, non doveva sciupare niente. Doveva dire le preghiere sera e mattina. Per il resto era libero di ridere e scherzare. Non era così in tutte le case. Lui aveva nostalgia della sua famiglia, ma a Teggiate si trovava bene. Quel mattino era allegro, sentiva la forza della montagna nelle gambe. Poteva correre, superare la mandria, tornare indietro e superarla di nuovo, sul pendio ripido, senza il minimo sforzo. Aveva le gambe di elastico. Così dicevano di lui. “Oggi vado sopra i Cascestri” disse. Chiamò ad una ad una le sue bestie: “si va in alto, dove l’erba è più bella”, le informava. I campanacci oscillavano veloci, i rintocchi si spandevano nella valle e l’eco lontana rispondeva. Su, su, tutto il dosso era fiorito. Il ragazzo girò la cengia. Su ancora. Poi si sdraiò a guardare il cielo, mentre le mucche brucavano soddisfatte. Vide una nube bianca che passava veloce sopra i suoi occhi. “Schiuma di latte” disse. Ed ebbe sete. Intanto sentiva il richiamo degli altri pastorelli. Li vedeva più in basso, e li raggiunse. Incominciarono a discutere per preparare il gioco della “zòca”. Si divertirono per un buon tempo. Quando le mucche si sdraiarono, i ragazzi scesero di corsa verso le baite, per consumare il pasto. Non vedevano neanche i dossi, non erano intimiditi da nessun pendio, da nessuna sporgenza rocciosa. Il Tino, sudato, entrò nella baita, si sedette sulla panca, intanto che la Pinina gli dava la scodella. Con la fame di chi vuol saziarsi in un boccone, mangiò la polenta col formaggio. Poi un altro pezzo, e un altro ancora. Alla fine mangiò quel che restava. Era pronto, già sulla porta, vigile al richiamo dei compagni. Ora insieme salivano lenti, si giravano, parlavano di chi era appena arrivato dal piano, di quel che avevano udito. Il pomeriggio passò uguale agli altri. Ma quando fu l’ora di radunare gli armenti, per scendere, il Tino ebbe un tuffo al cuore. Mancava il Güs. Lo chiamò e lo richiamò con la mano alla bocca per dare più forza alla voce. Salì sui dossi interni e su quelli esterni. Anche i compagni, coinvolti nella ricerca, intuirono la sua pena. Il Güs mancava. Il Tino affidò le sue mucche agli amici e corse sulla cengia. Non respirava neanche, tanto intensa era la sua ansia. Guardò giù. Niente. Guardò tra una roccia rotta e una scarpata: il Güs era lì. Sollevava la testa, ma era immobile. “Oh Güs, Güsìn” supplicava il ragazzo, “cos’hai fatto? Vieni!” Il Vitello era lì, gli occhi umidi, velati. A fatica il ragazzo scese la rampa. Guardò la bestia, la toccò e vide la ferita: una lacerazione diritta, dall’anca al ginocchio. Allora corse giù fino al sentiero e cominciò a gridare aiuto. Corsero quelli delle baite vicine, lì ai Casìn. Arrivarono prima le donne, poi due uomini. Uno, deciso, andò a prendere il carro. Quindi staccò una sponda: sarebbe servita da barella. Bisognava far arrivare il vitello sul sentiero, ai piedi della cengia. Il Tino piangendo andò ad avvertire la Pinina. La incontrò poco sotto. Aveva già sentito dagli altri ragazzi l’accaduto. Non conosceva i particolari. Le donne la incoraggiavano, gli uomini la rassicuravano: la ferita non era grave, il vitello non era da macellare. Nel modo ingegnoso dei montanari, con l’aiuto di tutti, la bestia venne caricata sulla barella e portata al carro. E poi giù fino alla baita della Pinina. Il Güs venne messo su una lettiera fresca. Si pulì la ferita con degli asciugamani intinti nell’acqua fresca e ben ritorti. Si diede da bere al vitello, da bere quello che le donne sapevano preparare sia per le bestie sia per i cristiani. La Pinina, intanto, con decisione, attuò il suo piano. Prese un lungo ago, la lesina e la sua bella matassa di seta bianca, quella per la frangia dello scialle della festa. Si inginocchiò vicino al vitello, chiamò il Tino e gli chiese di portare dell’acqua pulita, gli asciugamani e tutto l’aceto. Decisa, disinfettò la ferita e incominciò ad accostare i lembi di pelle, con precisione, vicini. Con la lesina bucava la forte cote e poi introduceva l’ago e col filo di seta cuciva, un punto dietro l’altro. Il vitello immobile. Gli occhi velati, sembrava capire che lo volessero aiutare. Non un gemito, non una mossa. La Pinina andava avanti nel suo lavoro, mentre il sudore la avvertiva della fatica e dell’ansia. I vicini, senza far rumore, si erano messi intorno, per vedere e restavano meravigliati per l’energia della giovane, e per la mansuetudine del vitello. Alla fine espressero la loro approvazione e nella voce c’era la gioia di chi ha vinto un pericolo, una minaccia. Era la vittoria di tutti. Tutti si sentivano partecipi di quella riuscita. “Brava Pinina, bravo Güsin”. Così era la solidarietà nelle case sulla montagna: il male e il bene di uno, lo era di tutti. Il vitello guarì e la vita continuò. p.s.: i fatti narrati risalgono alla seconda metà del XIX secolo, e sono stati tramandati in famiglia fino a noi. Contatore visite dal 23-02-2009: 8480. |
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