Illusioni in versi - Lo sfarfallio dell’anima

di

Elena Martino


Elena Martino - Illusioni in versi - Lo sfarfallio dell’anima
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 62 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-5551

eBook: pp. 73 - Euro 3,99 -  ISBN 978-88-6587-579-7

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In copertina: elaborazione grafica di Roberto Merone


Elena Martino autrice emergente, propone una serie di poesie in cui esprime tutta la sua verve poetica ispirata da appassionate osservazioni della vita quotidiana.
La scrittrice, già autrice del romanzo: «Destini incrociati» e del suo proseguimento: «Destini incrociati, il sincronismo dell’anima» editi da Albatros, fa esplodere in questo album tutto il suo estro poetico, fornendo prova di profondi sentimenti, di grande amore, di estreme passioni vissute anche in prima persona.


RINGRAZIAMENTI

Un caldo e sentito ringraziamento al mio grande amico Roberto Merone, che ha curato, ancora una volta, le immagini di copertina riuscendo ad interpretare il mio pensiero.
Alla signora Maria Forina esprimo immensa riconoscenza per aver curato l’introduzione e recensito, in modo impeccabile, questa mia terza Opera.
Ringrazio affettuosamente la signora Geny Ungolo per la sua preziosa collaborazione alla revisione del testo.


PREFAZIONE

Cos’è la poesia se non un afflato dell’anima, un coniugio felice e talvolta sofferto di quella creatura invisibile che cede il suo canto alla parola per essere decantata, sognata, assaggiata?
Sì, assaggiata. Perché la poesia è quel nutrimento che ogni creatura vivente sente come necessaria. Non si tratta di una licenza poetica, arbitraria, ma di un gioco di suoni che come vettori, creano melodie e insieme significato. L’uomo, uno strumento.
Celano messaggi, che la voce non sa esprimere, ma che la fioca fiamma di quest’arte riesce a far emergere, rendendosi visibile, tangibile. La poesia è capace di portare fuori, di viaggiare. Chi compone, ad essa si sottomette, come colto da un impulso presta la sua mano, posseduto dal suo spirito libero.
C’è poi chi nell’ascoltare quei suoni, vi entra con un proprio codice di accesso e si lascia cullare dalla voce che interpreta, teatralizzando ogni strofa, come a darle vita. Non v’è errore in quest’arte, perché la poesia è viva.
È innegabile che si tratti di commistioni fra significato e suono. Tanto il suono quanto il ritmo, nonché la poesia è venuta al mondo prima ancora della scrittura, nell’oralità la sua potenza, che l’ha resa longeva al tempo e al suo logorio.
La poesia ha un suo senso, è un mundus vivendi. Anime elette? Forse. Quel che conta è che la loro capacità di essere “poeti”, ha influenzato il mondo letterario nel corso di interi secoli. Fedele solo a se stessa veste i tempi, li cavalca, scegliendo i suoi cadetti, che loro malgrado si lasciano sedurre.
Ma qual è il senso del poetare? È forse voce di una individualità che nega il maschile e il femminile, dato che la poesia è asessuata e canta stile e bellezza non classificandosi ma consentendo ad ognuno di essere gravida di sé, di essere partorita?
Di fatti mentre l’uomo la differenzia per genere, lei si decanta con determinatezza. L’utero che sceglie, non è un organo, una sacca amniotica, ma un luogo altro, celato alla coscienza, ma consapevole all’anima che, intangibile eppure presente, chiede con insistenza di divenire.
Giunta alla soglia, si affaccia, respira e dal quel momento vive.
È officina di idee in continuo moto.
Loda il mondo, lo chiama, lo legge, lo presenta ad una umanità distratta.
Lodando, riconosce la presenza di una divinità, la stessa divinità che l’ha creata, generata e che canta la passione e l’amore, il dolore e il pianto, la gioia e la profondità delle cose, dell’essere.
Canta perché tu sia pieno. La poesia libera, la senti venire alla luce come un mormorio di voci… voci che compongono e creano un’emozione, una reazione, un risveglio.
La poesia chiede di essere saliva, voce, corpo. La poesia è culto del vivere, del sentire e dell’udire. Vuol essere bocca, che dice. Vuol essere considerata pensiero che ti veste e ti restituisce al mondo, pur non essendo di questo mondo.

Maria Forina


INTRODUZIONE

È questo il tempo del virtuale, del culto dell’apparire e della globalizzazione di ogni informazione. Eppure, ci si chiede se sia ancora possibile fermarsi a riflettere, per dar voce semplicemente al dubbio. L’originalità oggi non sta nell’essere uguale tra disuguali, quanto il riconoscersi voce fuori dal coro.
Masse omologate che negano la loro umanità, ormai schiave della tecnica, capace di scorporare ogni anima dal riconoscersi pensante.
Era il 1975 quando Eugenio Montale a Stoccolma, in occasione del premio Nobel per la letteratura, realizzò un discorso amaro quanto la sua analisi sulle società odierne, e sui giovani schiavi del consumismo e dello spettacolo. Vittime di un progresso implosivo.
Alla domanda ripetuta più volte, se la poesia è ancora possibile, il poeta non fornisce alcuna risposta, ma carica di ogni scetticismo i concetti di seguito espressi.
“Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L’arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L’esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l’orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso?…
Mi fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità…
In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?…
Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte…
Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi).”
Si tratta sicuramente di un discorso sofferto, di una civiltà apparentemente in movimento, che cela la sua sconfitta più grande: la perdita di un’arte tra le più belle in assoluto del mondo letterario.
Eppure da sempre la poesia è stata testimone e voce della memoria, del tempo, capace di celebrare l’esistente, il divenire, gli affanni del cuore, i miasmi del tedio, i luoghi dell’infanzia, il susseguirsi delle stagioni, la perdita di un affetto attraverso moduli di grande sintonia col ritmo.
L’uomo di oggi si guarda allo specchio e l’immagine riflessa soccombe al caos dentro e fuori dal sé.
Montale è un precursore del disagio che la nuova era ha generato. Persino i poeti più sensibili non si riconoscono in questo tempo.
C’è chi afferma che la poesia sia morta, niente di più falso.
Nessuno sbiadito ricordo potrà cancellarla. Essa è universale e insieme intramontabile creatura che testimonia ieri come oggi che questo tempo, anche questo tempo è affidato all’eternità delle parole, delle strofe, dei versi.
La Martino, ha avuto questa capacità.
Ogni poesia sembra muovere in crescendo, con stati d’animo che si alternano a dar senso e significato alla sofferenza, quanto al ricordo, al rimpianto. Non si nega alla realtà, che anch’essa vede cambiata.
L’anima parla sempre, scuote e fa scuotere, vibrare come corda di violino ogni singola lettera, ogni parola compiuta.
Non un delirio il suo, ma un graduale canto. Almeno quanto quello del Pascoli nel cercare rifugio nel nido; del D’Annunzio che mistificò se stesso. E che dire dei Crepuscolari, degli Ermetici.
Montale parla di un’anima ormai informe, capace di dire solo ciò che non è.
La poesia che nasce come riflessione solitaria, movimento intimistico, stona con le esigenze di questo nuovo mondo. In questo contesto, alla parola poetica, non resta che vivere ai margini.
La poesia non può essere di pochi cultori, necessita di essere espressa in ogni luogo, in ogni dove.
Fa bene quindi la Martino a scegliere luoghi diversi per dar voce alla poesia, al cuore e alla riflessione.

La poesia non è morta, né mai morrà. Se mai accadesse assisteremmo ad una atrofia della lingua o delle lingue che riesce a parlare, che riesce a sdoganare dal quotidiano morire del pensiero.
Oggi la poesia non è un rischio letterario, un azzardo.
La poesia è tornata in auge, fermenta animi e coscienze.
La Martino, esorta a rivoluzionare quest’arte, a farne ancora uno strumento del bel canto.
Se in passato la poesia era cantata al suono della cetra, lasciamo che oggi canti da sola. Oh! quanta meraviglia e quanto stupore porterebbe con sé!
Lasciamo che si intraveda e che ci mostri ancora di cosa è capace, quando scevra da condizionamenti e condotte omologante spinge, per venir fuori.
L’unica possibilità che la poesia possiede, è quella di ritagliarsi un futuro, superando se stessa, irrompendo in modo anche violento, virile nella scrittura in prosa.
Sì… la poesia deve divenire un evento raro, speciale, quanto meraviglioso.
Alla Martino, va riconosciuta una virilità della parola, dove per virilità si intende verticalità della parola, tensione alla vita, alla forza e al coraggio.
Lasciatevi sedurre dai suoi suoni, dal suo adoperarsi, per quest’arte
La poesia, la sua poesia è pulsione, non idealizzata della bellezza, ma concreta testimonianza che non morrà con il crepuscolo.
Non c’è fine alla poesia, perché risorgerà sempre, finché una mano ne darà forma e contenuto e un cuore abilitato all’ascolto ne comprenderà il senso.

Maria Forina


Illusioni in versi - Lo sfarfallio dell’anima


A Gianni, Raffy e Milly che mi hanno sempre ispirata
e motivata nel credere che i sogni, prima o poi, si realizzano
sempre. Il loro impulso positivo si è rivelato vincente.


CANDIDE MURA

Voi, che guardate dall’alto dei vostri bianchi colli
le dimesse e inespressive zolle di terra incolta;
voi che con i vostri lodevoli sguardi dorati,
degnate di onore quei miseri disgraziati incapaci
di sollevare a voi gli occhi;

Voi, che sprezzanti e gonfi di orgoglio
vi irrobustite nelle vostre candide mura
accuratamente agghindate da pregiati marmi
riuscendo, con la vostra perenne presenza a
colmare l’infingarda pochezza che vi circonda;

Voi, che celate malamente la vostra possente superiorità
con agevole istrionismo
e, simulando amore e dignità vegliate sulle
piccole minuscole menti ritardate delle
laide dune che, pur in qualche misura, osano
sostare sulla vostra luminosa scia per
pochi istanti;

Voi, che lusingate la loro molesta presenza con occhi
accomodanti;
voi, che con la vostra maestosa bellezza estendete l’iridescenza
in tutta la valle infuocando anche quei lembi aridi e brulli;

Voi… Voi…!!!!
Voi, che schiacciate gli anonimi, spezzandoli, annullandoli, sterminandoli
così che il vostro bagliore possa risplendere in eterno
ed i vostri loculi tingersi, finalmente, della tetra luce carminea
nei pallidi cieli ed essere così schivati dalle anime neghittose
che volessero impiantare i loro ossari nei vostri pressi.

Risplenda di luce inesauribile il vostro bastione perché
possiate inebriare i morbosi sensi dei meschini e foschi
lucignoli dell’abisso.

Via dalla nostra fiera terra e vagate,… vagate nella vostra
in cerca del bel fascio di luce
che beffarda si cela in ogni dove;
piccole e infime marionette!
Giocate con lei per tutta la vostra miserabile esistenza,
ma dileguatevi e svanite come nebbia evanescente
perché, oltre noi,
mai nessun altro possa sopportare questo terribile tormento.

Via! Via!…
E che l’oscurità possa aver pietà di voi
e dei vostri innumerevoli peccati.


L’autrice, in questa poesia fibrosa, perfida e, alquanto sprezzante, riporta la vita vissuta da personaggi potenti ed autorevoli oltre la morte associando, metaforicamente, la loro esistenza di sfarzi e ricchezze al candore dei propri loculi e che, nonostante tutto, pensano di possedere ancora. Ne osteggiano il proprio predominio, vacuamente convinti, di poter imporre la loro supremazia anche su quella tetra valle che, nel frattempo, si è completamente dileguata in una nebbia che li accompagnerà nei loro più terribili tormenti.


CAMPANE

Sorde campane
dai muti rintocchi
che spargete
l’oblio nelle menti
come venefici semi
che insinuano le genti.
Non v’è canto che riecheggi
nella fitta nebbia
che tutto avvolge.
Ombrosi spioventi
riparano i tristi volti
da un albore che stenta
ad emergere dalla spessa foschia
e che rende l’etere asfittica.

Squillanti sinfonie
d’impagabile maestria,
propagate le dolci soavità
di rallegranti note aculeate
che assordino i timpani
di questa solinga etnìa,
non più ignara
delle loro regressioni.
Rimesciate gli sguardi,
l’onore e gli odori di ogni popolo,
perché abbia fine
il vile gioco delle disparità
e, issata venga l’egida
come effige di equità.


Parla di un popolo alla deriva avvolto da una fitta nebbia e da un assordante silenzio che trasforma quegli esseri, un tempo audaci e temerari, in cuccioli privi di midollo, inermi ed impauriti che vagano, senza alcuna meta, in un mondo che nulla può più donare. Il suono di quelle campane è l’ultima speranza di salvezza per le loro coscienze.


FUOCO

Lì, nei suoi bagliori fluorescenti,
in quegli esigui, eppure, crepitanti zampilli di luce
vorrei riporre il mio corpo spento.
Non v’è ritaglio di vita nella sua
imponente coltre di glaciale aridità.
Non v’è traccia di pulsazione
che possa innescare tensione
nel fitto intreccio di questi fili, ormai, indolenti.
Non v’è appiglio a cui far leva
se non quel rogo che mi solleva.
Piccoli lapilli incandescenti
in grado di sgretolare
questa carcassa di neve carbonica
per poterne assaporare il dolore,
quello fisico, e rinsavire all’istante.
Il rigore abulico
di quel guscio senza nucleo
si discioglie, delicatamente,
nel suo fluido incandescente
riscoprendo sensazioni sorprendenti.
Porre fine alla tediosa nebulosità
di una mente avvilita
ustionando il suo corpo, ormai, ignavo
ed imperturbabile
acuisce la speranza
di riacciuffare la propria vitalità.


“Fuoco” parla della depressione, una malattia che ti annulla, completamente. Ti senti morto dentro e nulla può rinsavire quell’entusiasmo all’infuori, forse, di un incendio. Un fuoco così violento da scatenare, non solo, il dolore fisico ma anche quello dello spirito; l’unico in grado di poterti riportare in vita. È chiaro che il “Fuoco” è inteso come metafora riconducibile alla nascita del vero amore che può far rifiorire un corpo morto.


ERA LÌ…

Era lì, nel suo castello fatato
ferma a guardare con il suo sguardo tenero e ovattato,
la vita che scorreva inesorabile e frenetica
speranzosa che la sua esistenza fosse sempre identica.
Nell’amore pose le sue radici
certa che nulla mai potesse spezzare
l’illusoria persuasione
che eterna fosse quella tenera passione.

Dubbi e interrogativi
a volte facevano capolino
ma venivano rituffati
lì, dove nessuno poteva riacciuffarli,
seppellendoli sotto svariati
strati di menzogne e false verità.

Era bello stare alla finestra a guardare
l’azzurro cielo
da nubi sgombro e da fulgidi raggi inondato
che avvolgevano in un caloroso abbraccio
la sua complice e apparente felicità.

E, quando il sole veniva oscurato da tetri nembi
ed il vento di libeccio
fuggiva da quell’intreccio,
rattristata e spaurita
chiudeva i battenti…
riparandosi l’anima…
perché non andasse in frantumi.

Il suo castello
l’aveva costruito con fatica e dedizione
e, dopo averlo adornato
con fregi di preziosa fattura,
a nessuno avrebbe permesso
di porlo in frattura.

Quella nuvola,
intrisa di abbondante pioggia,
sarebbe passata ed il suo castello,
lo scrigno in cui custodiva
le sue illusorie certezze,
sarebbe rimasto indenne
e più che mai possente.

Tutto poteva essere annientato
ma non il suo castello fatato.

E, quando la tempesta terminò
ed il sole ricomparve
nell’azzurro dei cieli,
lei era ancora lì,
alla finestra
ferma a guardare.


L’autrice constata, amaramente, quanto il mondo di oggi sia gremito di individui che, per la vana speranza di non soffrire, si celano nel proprio egoismo serrando gli occhi per eludere il susseguirsi di eventi che sentono abbattersi, minacciosi, nella loro vita. È più confortevole chiudersi dietro le possenti corazze delle proprie convinzioni, anche se errate, piuttosto che aprire quei battenti alle evidenze degli avvenimenti con proba obiettività.


GIORNI

Ci sono giorni in cui la mente deraglia
tra le fitte nebbie dei pensieri
che, come sottilissimi strati si accalcano
formando una coltre indissolubile.

Giorni interminabili che non hanno gambe
per correre verso l’uscita.
Soffocanti e palesemente invadenti
affondano le loro invisibili radici
insidiando le timide eppur fulgide e soavi speranze.

Affacciarsi ad una realtà ovattata tinta
da toni striati e nebulosi mi sconforta,
riportandomi indietro nel tempo
quando l’incoscienza e l’inconsapevolezza
davano l’unico senso alla mia esistenza.

Nulla può essere riportato all’origine
poiché nulla è indenne dalle esperienze di vita vissuta.
Il rimpianto di non poter custodire e coccolare i ricordi
ti svuota e diventi improvvisamente evanescente.


Quando si diventa grandi e si acquisisce la consapevolezza della realtà, si entra, nostro malgrado, in un circuito colmo di ostacoli duri ed impervi che, come nodose radici si inerpicano fin negli strati più profondi soffocando anche l’ultima speranza di poter intraprendere un’esistenza diversa. Un attimo, e i ricordi ci riportano all’infanzia quando l’incoscienza rendeva tutto più plausibile e fulgido, ma è solo un attimo, adombrato, velocemente, dalla opprimente tangibilità dei giorni che si susseguono nella loro monotona replica.


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