La rammendatrice (la rammentatrice)

di

Elena Ruvidi


Elena Ruvidi - La rammendatrice (la rammentatrice)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 70 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-9955

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In copertina: scultura dell’autrice


Silloge II classificata nel concorso letterario Ebook in… versi 2018


Questa la motivazione della Giuria: «Elena Ruvidi, con la silloge “La rammendatrice”, intende districare “l’aggrovigliato filo dei ricordi” per cercare di “ricucire gli strappi” provocati dalla vita e dal dolore dell’anima.
La sua Poesia, ardente e vibrante, è protesa a ricostruire la “trama e l’ordito” con parole che scavano dentro l’abisso per estrapolare la “smaniosa passione per la vita”, tra “gioia struggente” e “compassione”, mentre il tempo si “sgrana” come un rosario nel susseguirsi delle metamorfosi esistenziali che hanno segnato il cammino.
Lei “danza” come “funambola” su un virtuale filo, tra le stelle e il “buio che attende”, magicamente sospesa in un attimo eterno, rappresentato simbolicamente dall’amore immenso per Napoli: “Vado per la strada degli oleandri… felice d’essere / figlia di questa terra antica”, mai dimenticando le sue radici, che sono un destino, il respiro stesso della vita.
E, infine, giunge la confessione da offrire in dono: “Scrivo per vincere la pena / il senso oscuro / d’ineluttabilità / del fluire perenne / in cui / scomparirò anche io”».


Massimo Barile
Presidente del premio letterario «Ebook in versi» 2018


La rammendatrice (la rammentatrice)


Ai miei nipoti
Ai miei figli
A mio marito
A tutti quelli che mi vogliono un po’ di bene


LA RAMMENDATRICE
(La rammentatrice)

Ho districato con pazienza
l’aggrovigliato filo dei ricordi
e sciolto i nodi.
L’ho riavvolto con cura.
A tratti era sottile, come liso,
laddove la memoria mi ingannava
e, consunta, si faceva confusa.
Così son stata attenta
a non tenderlo troppo
per non spezzarlo
e non aver rimpianti.
Ora con questo filo dipanato
cerco di ricucire gli strappi, i buchi
causati dall’usura del tempo,
della vita e dal dolore
nella veste dell’anima.
Devo riunire lembi slabbrati e sghembi,
e riparare gli orli sfilacciati
per farli combaciare.
Ricostruire la trama e l’ordito
tono su tono, come in un ricamo.
Non sempre il lavoro mi riesce
la mano trema; io non credevo
fosse così difficile…
Non pensavo
che sciorinare la mia vita al sole
mi avrebbe procurato
tanta pena ed ancora dolore,
come se rinascessi dentro di me,
ma solo per morire.
Tutti gli eventi compiuti ed incompiuti,
mentre cambiavo,
i volti, le cose, l’emozioni, gli amori
i luoghi e le stagioni dei miei tanti anni,
mi sono apparsi scritti in una pagina,
una pagina sola da voltare.

Ma più di tutto mi hanno spaventato
i ricordi infantili:
i miei occhi, stellati d’universo,
lo possedevano ed io lo ignoravo.
Pure continuo a lavorare
alla veste di velo
e in controluce controllo scrupolosa
che il mio rammendo stia venendo bene.
Solo da un lato, un po’ nascosta,
c’è una toppa vistosa,
non m’è riuscito di riparare meglio
il buco troppo grande, deformato
di tutto quello di cui mi vergogno.


IO

nei ricordi


ADOLESCENZA

Il sole quell’estate aveva braccia
tanto grandi da circondare il mondo,
ma stringeva me sola
e mi baciava tenero la faccia.
Il mare ad ogni alba
mi donava in segreto
le tintinnanti lune
d’argento e d’oro
rubate nella notte.
Raccoglievo conchiglie
di rosea carne nuda
grevi d’odori, di sussurri molli
e, turbata, le celavo nel petto.
Io dividevo l’aria con gli uccelli
e i prati coi papaveri fratelli,
fatta di piume e linfa come loro.
Mai più ho visto le spighe, lance vive,
splendenti in mezzo al giorno
levarsi aguzze ed alte
contro il cielo indifeso per ferirlo,
con voluttà dolcissima e crudele.
Né gli alberi di sera danzare piano,
tenendosi per mano,
con passi lievi appena percettibili.
All’ombra afosa d’oziosi pomeriggi
dondolanti sull’amache del niente,
mi guardavo riflessa
nello specchio dell’acqua
e, come persa, mi chinavo piano
fino a bagnarmi le trecce e il viso,
nella mia stessa immagine annullata.
Le cicale stridevano gelose.


AMORE ANTICHISSIMO
(dedicata al satiro danzante di Mazara del Vallo)

Amo un satiro
ripescato danzante in fondo al mare.
Ne ho accarezzato i capelli di rame
torti e grondanti come alghe lucenti,
gli occhi annegati, le labbra piene.
Insieme abbiam danzato, fluttuando,
sui fondali nascosti da coralli ed anemoni
in giardini segreti ed incantati.
Giravamo follemente su noi stessi
fino all’estasi, per cogliere il mistero,
e scuotevamo il tirso, ebbri
di una bellezza giovanile perfetta e incorruttibile.
Ci trasportavano le correnti incupite
di verdeazzurro dei desideri,
venivamo trafitti dolcemente
dai raggi luminosi che filtravano
nell’acqua trasparente, come dardi di sole,
ci cullava la luna in un liquido sogno senza fine.
Ci siamo persi in destini diversi, ma io
l’amavo prima ancora di venire alla luce,
come lui, dagli abissi del tempo.
Il mio amore è antichissimo.


GLI ALTRI

e le cose


AD UNA BALLERINETTA

Ballerina dalle piume di struzzo
sei cresciuta troppo in fretta,
come una palma snella,
una magnolia splendente
di superbia
ed ora ondeggi incerta,
per non farti spezzare
dagli sguardi.
Ballerina dai piedi di seta,
tu non sapevi
quanto fosse difficile
disegnare col corpo
filigrane di musica
reggendoti alle punte.
E ti raccogli su te stessa,
stanca di grazia,
il collo reclinato.
Ma poi ostinata ti alzi,
continui a slanciarti
più leggera, più in alto
fino a librarti, vibrante d’armonia,
e puoi volare.
Le braccia esili
sono le tue ali,
i tuoi piedi di seta
ricamano l’aria.


AMICO MIO

Scrivo per celebrare
i tuoi occhi di cane,
amico mio,
gli occhi che avrei voluto io
e che non ho.
Occhi che si abbandonano
senza pudore ai sentimenti,
occhi allegri, occhi attenti
e di miele dolcissimo
che leniscono l’anima.
E la tua mano
forte e nervosa
che appoggio sul mio corpo,
per sentirmi preziosa.
Il tuo dorso possente
appena curvo sulla vita snella,
e le natiche strette
perfette come quelle,
scolpite nella pietra,
di antico lottatore.
Le tue braccia robuste
da nuotatore,
discoste un po’ dal corpo.
E le gambe arcuate
dal lavoro pesante
e dai pesi portati,
schiavo bambino,
sulla piccola testa.
Il tuo ovale affilato,
i tratti aguzzi
d’antico etrusco,
ed un sorriso
largo e arcuato
che ti taglia il viso
come una ferita
di gioia.

E poi il tuo riso
che ti nasce dentro
sicuro e alto
come il trillo estasiato
di un uccello
d’estate.
Ed io,
amico mio,
che non ho
né i tuoi occhi
invidiati,
né il tuo riso,
né il tuo viso felice da etrusco,
io scrivo per esistere,
così come respiro.
Altrimenti non sono.

[continua]


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