Inter-City

di

Elisa Granetto


Elisa Granetto - Inter-City
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 224 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6037-5728

Libro esaurito

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Prefazione

Il cuore diviso dal testo

Il filosofo Jean Paul Sartre afferma che lo scrittore Jules Renard ci ha presentato una sorta di letteratura del silenzio. Nei suoi testi, sembra che le parole vadano ad annullarsi l’una con l’altra.
A tal fine, Renard cerca di scrivere una serie di discorsi sempre molto brevi e optando per la brevità del periodo grammaticale, ha compiuto una vera e propria “operazione divisionistica”.
A tal proposito, noi affermiamo che la stessa Elisa Granetto ricusa la subordinazione sintattica, mentre le frasi possono ricordare una vera e propria “asserzione del senso”. Ma ciò vale persino a livello puramente narrativo: basti ricordare la suggestione del viaggio in treno (citando l’immagine più importante del libro: quella che torna continuamente, per presentare ogni nuovo personaggio). Evidentemente, quando l’intercity giunge in ritardo, accade che ciascun “programma di vita” vada subito a “saltare”.
Così, la storia di ogni personaggio, pare giocoforza suddivisa, se il caso può intaccare qualunque progetto individuale. Va anche detto che ciascun treno si carica (da sempre) d’una simbologia altamente ripetitiva. Dunque, quando Elisa Granetto decide di ricominciare ogni storia personale solo a partire dal medesimo treno, tale metafora ci pare assolutamente coerente.
Certo, qualche imprevisto può spezzare il tran-tran quotidiano (cui ogni personaggio deve attenersi, almeno inizialmente). Tuttavia, nel racconto di Elisa Granetto accade che il divisionismo narrativo (ad accompagnare quello appena sintattico) riguardi più persone in gioco, e nel medesimo tempo. Nella stazione ferroviaria, ad esempio, avviene che Martino “subisca” il ritardo del treno per Venezia, proprio mentre Andrès ha (altrettanto per caso?) perso la madre. Diversamente dai libri di Renard, insomma, ci pare che in Inter-City sia ammissibile il tentativo di “ricostruire” un nuovo senso complessivo (ben al di là del chiaro divisionismo letterario).
Ad ogni modo, l’autrice dichiara (in varie occasioni) che qualsivoglia arte abbisogna di farsi percepire in silenzio. Qui, possiamo citare le parole del pittore Andrès, che, posto di fronte al quadro, sembra rinunciare a capirlo (in via razionale). Lui preferisce che vi si viaggi con la mente, come se la nostra comprensione non riuscisse a dire assolutamente niente.
Qualcosa di simile accade pure nel più noto “apologo” sulle stelle del mare, laddove il merito del salvatore concerne la chance di rivitalizzare proprio il singolo morituro.
Forse, solo Martino tende a pensare in modo pessimistico. Ad esempio, egli ci svela che non è in grado di amare nessuno, (ben oltre se stesso). Guarda caso, alla fine il lettore ipotizza che Martino resti l’unico a mancare di “riscattare” la propria vita.
La sconfitta del suo razionalismo (poiché lui è il personaggio indubbiamente più riflessivo del gruppo?) oppure si tratta di registrare la vittoria del fatalismo? Di sicuro, Martino resta il personaggio più ambiguo e problematico.
Secondo la visione di Renard, la Realtà è solo impressionale, conseguentemente, egli sostiene che la sua scrittura debba darsi per file di annotazioni. Ma non c‘è dubbio che anche Elisa Granetto faccia questo.
A tal fine, ci basti citare lo stesso incipit del libro. Così, vi leggiamo che pochi secondi possono cambiare la vita di un uomo, mentre questo accade per via d’un gesto compiuto senza pensare. La prosa di Elisa Granetto risulta assai “psicologistica” (nella misura in cui pure le parti descrittive o narrative sono quasi sempre filtrate con la mente d’un certo personaggio). Però, la sua propensione filosofica si percepisce altrettanto chiaramente. Anzi, dalle parole del pittore Andrès si capisce che la stessa produzione d’arte si pone in modo del tutto istantaneo, frazionato ed impressionale.
Essa non fa che rappresentare la Realtà: ma questa è essenzialmente “scomposta”.
Ce lo dice proprio un artista, Andrès (tramite la sua comparazione con il puzzle: una metafora alquanto indicativa). Egli giunge persino a rimpiangere d’aver vissuto in qualche città incapace di ispirare a dovere lo scorrere del Tempo. Anche Martino (l’intellettuale del gruppo) si sforza di dominare la brevità della vita, egli percepisce la discontinuità dell’esistenza in modo molto nichilistico. Per converso, ci sembra che la sceneggiatura di Jah si carichi d’una vena speranzosa.
Utilmente, va rammentato che Elisa Granetto tende (come Jules Renard) a scrivere con la comparazione. Lo si veda nel passo in cui si cita l’aneddoto (celeberrimo) che distingue la Tela di Penelope. Una comparazione assai interessante, perché tale eroina greca si trova a frammentare la propria vita, attraverso la scelta di “fare e disfare” la sua speranza (quella che riguarda il ritorno a casa di Ulisse). Si tratta, insomma, di notare una nuova suggestione divisionistica. Addirittura, ci sembra che Elisa Granetto assecondi la stessa volontà di Myrtle, quando questa si propone di fuggire dalla propria casa, ove tutti i pavimenti le diventano quasi sconosciuti (sino ad innervosire l’anima). Così, tale personaggio va dichiarando (implicitamente) una certa predilezione per le cose più essenziali.
Addirittura, esattamente come accade nei libri di Jules Renard, si ha la sensazione che l’autrice cerchi di invitare il lettore ad immaginare tutte le parole stampate. In fondo, basta che riportiamo la tesi del personaggio Marcel, per cui qualsiasi fotografia, che proprio questo va scattando, è un riflesso di se stesso.
Quando Martino va dicendo che si cade in errore quando ci si convince di poter trasmettere a qualcuno che si ama una natura che non gli è propria, il lettore deve subito domandarsi se Elisa Granetto abbia respinto o meno la sua “rassegnazione razionalistica”. Ivi, la nostra riposta è di certo positiva… il giovane pittore Andrès, ammette infatti che bisogna tornare a dipingere l’anima (il cuore).
Quel cuore che divide il testo, che divide anche lo stesso titolo, il quale si carica di un duplice significato, grazie alla suddivisione volontaria della preposizione inter (dal latino: in mezzo a, fra) e del sostantivo city (dall’inglese: città) che lo compongono, stando così a designare sia una tipologia comune di treno, sia, più implicitamente, lo stare dentro un luogo, il passarvi attraverso, scandagliando le città e le esistenze negli angoli più profondi, tra le calli di Venezia ed i quartieri di Parigi. Cosicché ogni via ed ogni luogo si arricchiscono di un significato più complesso, diventando anche luoghi interiori.
Non è casuale la scelta di una parola, intercity, composta sia da una lingua antica, originaria, sia da una lingua moderna, forse la lingua della contemporaneità e della tecnologia per eccellenza.
Si è quindi voluto dividere il presente dal passato, o solo diversificarli?

Paolo Meneghetti


Premessa

Fin dall’inizio di questo romanzo, ho desiderato sottolineare quei pochi secondi che cambiano la vita di un uomo, quello scarto di tempo, inavvertibile e leggero come la scelta di un istante, la parola di un attimo, un gesto compiuto senza pensare.
Ed al di là della nostra consapevolezza, la vita prende una piega diversa, poiché qualcosa devia il suo corso per andare verso una direzione nuova, e perché le rotte del destino e del tempo sono un continuo, infinito intrigo mutevole.
Questo è il filo conduttore dell’intero libro: quel minuto che può cambiare l’intero corso dell’esistenza, nostra e degli altri.
L’uomo dovrebbe ricordare che tutto ciò che fa, porta con sé una conseguenza, un tempo nuovo che inizia a scorrere in ogni istante in cui prende una decisione. A volte si pente delle scelte fatte senza chiedersi se, avendo agito diversamente, forse non avrebbe sbagliato comunque.
Spesso, nonostante tutto, ciò che gli è destinato accade, qualunque sia la via sulla quale sta errando, mille strade diverse portano ad un unico orizzonte, irraggiungibile od oltrepassabile, questo lo si può sapere solo correndo verso di esso, ed è proprio questo che ho voluto fare insieme ai miei personaggi, andare verso quel punto, in cui tutto confluisce e si dispiega consentendoci di capire un po’ di più il presente, partendo dal passato per poi procedere oltre.
Vorrei che i lettori non si aspettassero di cogliere messaggi univoci e prestabiliti in quanto tutto ciò che accade è sempre interpretabile secondo logiche personali e soggettive. Vorrei che queste storie fossero per loro solo un frammento, un’idea sul tempo che scorre, su quelle strade che solo per un attimo si sfiorano, su ciò che resta e ciò che muta, e sulle cose che non cambieranno mai.

l’Autrice



Inter-City

A Marta, Marco ed Anna
treni… l’importante non è dove vanno,
ma è decidere di prenderli.

(R. Zemeckis)


PARTE PRIMA

Ci sono giorni in cui la senti… la senti davvero, e lo sai che non esiste, ma il bello è proprio questo, che la senti e non esiste, la perfezione.
Sono quei giorni, in cui, nella vita senti un treno arrivare. Lo senti.
E senti che devi prenderlo.
Oppure senti che devi perderlo.
Sono quei giorni grigi in cui ti sembra davvero di essere di troppo nel mondo.
Quei giorni in cui ti svegli al mattino pensando che tutto sarà uguale a ieri e poi… il treno è in ritardo.
Intercity per Venezia in ritardo di dieci minuti.
Un elegante giovane vestito di beige con un libro in mano si accende una sigaretta, una camicia bordeaux di seta s’intravede sotto la giacca leggera.
Ha gli occhi chiari, d’un colore indefinibile, sfumature tra il grigio e l’azzurro, e i lineamenti dolci, quasi infantili.
La gente nel vederlo non riesce a staccare lo sguardo dalla sua figura, a volte si ferma ad osservarlo, o si volta rapida per seguire il suo percorso.
Tu distogli lo sguardo.
C‘è una ragazza, sta arrivando di corsa.
Probabilmente non sa del ritardo di questo treno e si stupirà di non averlo perso… arriva al binario e sorride.
Un sorriso che resta sospeso, anche quando scompare dalle sue labbra.
Resta lì, nell’aria, e non si toglie, non si cancella.
Intercity per Venezia in ritardo di dieci minuti.
E così, decidi di fumarti una sigaretta, di solito funziona no?
Appena la si accende il treno arriva! Pensi sorridendo. Affondi la mano nella tasca ma… non ne hai, cavolo, hai finito le sigarette, proprio ora, ci mancava solo questa!
Il binario quattro è vicino alla tabaccheria, ci metteresti un attimo, e poi hanno anche annunciato un ritardo.
Ti allontani, perché sì... ce l’hai il tempo di andare a comprare le sigarette!
Dovresti riuscire ad andare e tornare perfettamente in dieci minuti…
Sei quasi arrivato, noti con piacere che non c‘è coda alla tabaccheria, stranamente.
Hai già il portafoglio in mano, ma… c‘è un bambino che piange disperatamente seduto lì fuori, sembra pianga da molto tempo.
Ti guardi intorno, cercando una figura adulta lì accanto, qualcuno che possa assomigliare ad un padre o ad una madre… ma niente.
Non può essere solo, pensi.
Ma non c‘è davvero nessuno.
Decidi di stare un attimo a guardare, aspettare giusto un secondo che arrivi la madre, magari è corsa in biglietteria e il figlio si è perso, o magari gli ha detto “aspettami qui un secondo” e ora ritarda perché c‘è un bel po’ di coda.
Il bimbo è esasperato.
Aspetto giusto un minuto, pensi, giusto un minuto.
Ti avvicini un po’.
Avrà al massimo quattro anni.
– Ehi, che c‘è? Dov‘è la tua mamma?
– L’ho persa!
– Hai perso la mamma?
Eh sì... quel bambino ha perso la madre, e tu hai perso il treno.
Hai perso il lavoro.
Hai perso anche i sensi.
Perché la madre di questo piccolo urlante è la donna più bella che tu abbia mai visto; arriva esausta dopo la disperata ricerca del figlio.
Ci sono momenti in cui…
Ci sono momenti.
Ci sono.
Ci.
C.
I.
È come se sapessi già chi è, com‘è. Lo sai già. Sai già tutto, e vorresti dirglielo, ma non sai come fare.
Come si fa?
Non si può andare a dire ad una persona – Ciao… ciao, guarda… io lo so che staremo insieme, io so già tutto, so già come sei – .
Non puoi un giorno per caso entrarle nella vita così, senza preavviso.
O forse sì?
Ci sono giorni in cui rischi tutto, con il coraggio di chi da perdere non ha davvero nulla.
Giorni in cui ti giochi fino all’ultima carta, sapendo che se perdi non ci saranno più partite.
Ci sono giorni così.
In cui la senti… la senti davvero, e lo sai che non esiste, ma il bello è proprio questo, che la senti e non esiste, la perfezione.
Sono quei giorni, in cui, nella vita senti un treno arrivare. Lo senti.
E senti che devi perderlo.
Ci sono storie che iniziano così.
E quella di Martino iniziò così.


Vol. 1

A casa

La casa di Leda era piccola e borghese, colori caldi e grandi lampade in vetro dipinto, creavano un ambiente dolce e protetto.
Andrès scorrazzava qua e là, nel giro di pochi minuti aveva macchiato tutto il pavimento di colori a tempera.
La madre non fiatava.
Martino sapeva che non era come tutte le altre madri, questo l’aveva capito dal momento in cui l’aveva vista alla stazione. Non era come le altre, ma nonostante questa certezza, faticava a credere che non avesse alcuna intenzione di rimproverare il figlio, che non avesse la tentazione di prendere uno straccio e levare il colore mentre era fresco.
Il bambino continuava a sporcare tutto ciò che lo circondava, mobili, oggetti, pareti, con una lentezza indicibile e affascinante.
Non somigliava alla madre, aveva gli occhi scuri e grandi.
Dopo aver ritrovato il piccolo, Leda aveva invitato Martino a casa sua, per bere qualcosa, per ringraziarlo, perché il destino voleva così, chissà.
Martino non riusciva a fare domande, ma la cosa che più al mondo desiderava in quell’istante era sapere se quella donna avesse una vita normale, avrebbe voluto conoscere immediatamente tutto ciò che la riguardava, il suo passato, cosa faceva da bambina, il suo piatto preferito, che genere di film amava guardare, se aveva un marito, se aveva qualche passatempo particolare.
Chiedendosi ciò, il ragazzo si fermò ad osservare i movimenti delle piccole mani di Andrès, incantato dal modo in cui teneva il pennello.
Era un tocco leggero, semplice, quasi fosse già chiaro come ogni tratto di colore dovesse essere delineato, come se fosse già palesemente nota l’intensità di ogni pennellata.
– Chissà che cosa gli passa per la testa… – pensò Martino, ma il denso susseguirsi dei suoi pensieri fu bruscamente interrotto dalla voce di Leda.
– Sono un’attricetta da quattro soldi, il padre di mio figlio un pittore, cos’altro vuoi sapere di me? –
Martino si vergognava di aver lasciato trasparire tanta curiosità, e quella donna sembrava aver compreso perfettamente i suoi pensieri.
– Nulla…
– È scappato, e non si è mai più fatto vedere, non sa nemmeno di avere un figlio perché è fuggito molto prima che Andrès nascesse. So che ha una moglie ed una figlia da qualche parte, ed ora non so nemmeno se sia vivo o morto. Ma non m’importa.
– Mi dispiace.
– A me no. Non ora almeno. Se vuoi rimanere qui, mio figlio sarà sempre più importante di te.
– Capisco.
– No non capisci…
Infatti Martino non aveva capito.
Andrès non era come gli altri bambini: dipingeva e frequentava una scuola speciale.
– Quando aveva quattro anni lo portai al Louvre, scappò e non riuscii a trovarlo per ore. Poi lo vidi davanti alla Zattera della Medusa che piangeva. – Spiegò Leda.
– Piangeva?
– Sì. Piangeva. E tu che fai nella vita?
– Scrivo.
– Cosa?
– Storie.
– Storie?
– Sì... le storie della gente… Sai ci sono persone che portano scritto nel volto il loro destino, come libri aperti sulla strada, hanno il passato scritto negli occhi, il presente chiuso in qualche gesto, qualche piccola movenza, in cui per caso scivolo io, con il mio inchiostro. Insomma sono un romanziere a caccia di racconti interessanti.
– Inizia a scrivere Martino, inizia ora.
Martino la scrutò per un attimo, non ci aveva ancora capito niente di tutta quella giornata, non sapeva chiaramente il motivo della sua presenza in quella casa, in quell’istante, e non aveva idea di cosa rispondere. Guardò Andrès.
Anche il bambino lo fissava serio.
– Vieni qui! – disse Martino.
Il bambino gli salì sulle ginocchia.
– Hai finito di dipingere i muri?
– Sì – Andrès si mise a ridere, mentre Martino gli faceva il solletico.
– Questa casa è già un atelièr, non oso immaginare quello che diverrà tra qualche anno.
Leda parlava osservando il pavimento incrostato di colore, poi fece alzare Andrès e lo portò a letto, il bambino non si oppose, e attraversò il corridoio in silenzio.
Martino si alzò dopo poco e li seguì senza fare rumore, senza pensare a nulla, accorgendosi che più si avvicinava alla stanza da letto, più le pareti si privavano di quelle scomposte ed insensate macchie che Andrès aveva dipinto fino ad un attimo prima, per riempirsi invece di disegni a carboncino, disegni di grande perfezione: animali, oggetti, volti. Vi erano anche innumerevoli ritratti di Leda.
Una sensazione di straniamento pervase il ragazzo, si sentiva smarrito, aveva l’impressione di essersi addentrato in un mondo di sogno… sfiorò con un dito un segno nero sul muro, il dito si annerì. Era tutto reale.
Sentì le voci di Leda ed Andrès provenire dalla camera da letto, la donna stava raccontando al figlio una qualche fiaba e Martino si chiese per l’ennesima volta cosa mai lo avesse portato in quella casa, quel giorno.
Fu inghiottito dalla strana situazione in cui si trovava, era confuso e non riusciva a riordinare i pensieri.
Dopo poco arrivò Leda. – Che c‘è?
– Niente…
– Ti stupisci per questi disegni?
– ...Sono meravigliosi ma…
– Sì, li ha fatti Andrès se è questo che vuoi sapere.
– Non ci posso credere.
– Oh, sì che puoi… puoi crederci! – E sorrise.
– ...
– Quando inizia a fare macchie di colore in giro per casa non è il caso di disturbarlo, sta solo provando i colori, poi si mette a disegnare in questo corridoio, qui come vedi ha iniziato ad usare anche carboncino e sanguigna, glielo hanno insegnato alla scuola che frequenta, quella speciale, costa un sacco di soldi… ti spiegherò un’altra volta.
– È pazzesco.
– No, non direi, basta farci l’abitudine.
– Perché non usa gli album da disegno?
– Non ha una grande simpatia per gli album, li usa solo a scuola, dice che non c‘è abbastanza spazio.
– Non potrà dipingere per sempre sulle pareti.
– Ogni cosa a suo tempo.
– Leda, io non so se…
– Andrès sarà sempre più importante di te.
– Ora capisco.
– Lo so.
– Buonanotte Leda, a presto.
– A domani. Ah, Martino…
– Dimmi
– Inizia a scrivere.
– Lo farò.
– Non ne troverai di storie come questa.
– E tu come lo sai?
– Fidati di me.


Vol. 2

Troppo presto

Leda stava al centro del palco, i suoi occhi grigi erano rivolti ad un cielo inesistente, invocava qualcuno, urlando.
Martino non aveva idea di che parte stesse recitando, ma era la scena finale, ed il sipario si chiuse immediatamente.
Era arrivato troppo tardi, come al solito, decise così di raggiungerla dietro le quinte, e le portò un the freddo.
Leda si stava struccando lentamente, stanca, quando lo vide sorrise appena.
– Hai visto tutto?
– No, sono arrivato tardi, ho visto la scena finale.
– Ah.
– Sono venuto a salutarti.
– Parti?
– No…!
– Oggi non ho recitato molto bene, non riuscivo ad entrare nella parte.
– ...
– Sai, ho parlato con il maestro di Andrès, dice che non ha più senso mandarlo a quell’accademia di giovani pittori, il suo livello è troppo elevato, non perfezionerebbe nulla lì. Dovremo aspettare che raggiunga l’età per entrare all’Accademia delle Belle Arti, o comunque fare una richiesta perché venga ammesso con un largo anticipo, ora in ogni caso è troppo piccolo per qualunque cosa. Il maestro mi ha anche pregato di viaggiare molto, di portarlo a visitare i musei più importanti del mondo per permettergli di conoscere l’arte di tutti i tempi, è l’unica cosa che si possa fare ora, l’unica cosa che gli gioverebbe. – Dici che non ha altro da imparare nella scuola che frequenta ora… ma non può continuare a dipingere sulle pareti, deve comprendere che l’infinito si crea nel finito di una tela, questo non glielo hanno insegnato? Dovremmo accompagnarlo in molti luoghi Leda e dovrà iniziare a ridurre il suo spazio di creazione.
– È troppo piccolo! Non ha ancora sei anni.
– Mi hai detto che è già stato al Louvre…
– Sì, circa due anni fa, andai a Parigi a trovare un’amica e decisi di portarlo a visitare il museo.
– E…?
– Fu un disastro…
– Dovremmo essere più cauti.
– Ho paura Martino, ma tu, tu sei sicuro di volerci seguire?


Vol. 3

Un bel sogno

Martino e Leda iniziarono presto a viaggiare con il piccolo Andrès.
Aveva bisogno di conoscere il mondo dell’arte e di comprendere a fondo le origini della sua innata creatività.
A sette anni conosceva a memoria quasi tutti i movimenti artistici della storia, ad otto iniziò a dipingere con i colori ad olio, a nove aveva già visitato più volte il Louvre, L’Orsay, la Tate Modern Gallery, il Moma, il British, il Guggenheim, la Galleria degli Uffizi, il Centro Pompidou, il Van Gogh Museum, il Pushkin, il Pergamon, i Musei Vaticani, e il Museo del Prado, a dodici riproduceva le Madonne di Raffaello a matita con una precisione stupefacente.
Ma di tutto ciò egli non si rendeva conto, era convinto che chiunque lo circondasse fosse dotato della sua stessa capacità, ciò era un bene in quanto gli impediva di sentirsi diverso, ed era un male, poiché egli non era consapevole del suo talento, e spesso non riusciva a comprendere il motivo per cui gli altri non fossero in grado di fare cose che a lui parevano così scontate.
– Voglio diventare un pittore Martino! Un pittore come mio padre. Mamma dice che mio padre era un pittore famoso. – Esclamò il bambino un giorno, in treno.
– Ma tu sei già un pittore.
– Non è vero!
– Sì. Io non sono capace di disegnare i cavalli come fai tu!
– Non ci credo.
– Ah no? Dammi quella matita.
– Quale?
– Quella!
Martino cercò di disegnare l’animale.
– Hai visto che lo sai fare?
– È orribile Andrès!
– È solo perché non ti piacciono i cavalli.
– E come lo sai?
– Sì vede dalle linee.
– Come sai che odio i cavalli? Te lo ha detto tua madre?
– No.
– Da piccolo sono caduto da cavallo, e da allora non mi sono mai piaciuti.
Leda aveva gli occhi chiusi, sembrava dormisse, ma stava ascoltando ogni cosa e non poté fare a meno di sorridere: suo figlio era un genio.
– Guarda Martino, mamma sta ridendo!
Starà facendo un bel sogno Andrès… un bel sogno.

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