Atrocità quotidiane e poco d’altro (racconti brevi)

di

Elisabetta Collini


Elisabetta Collini - Atrocità quotidiane e poco d’altro (racconti brevi)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 194 - Euro 14,00
ISBN 978-8831336062

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In copertina: «Apocalisse» – olio su tela, opera di Elisabetta Collini


Opera Segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2019


«Elisabetta Collini propone una raccolta di racconti brevi. La scrittura risulta penetrante e proietta nelle pieghe dell’animo umano, come a scandagliarne le debolezze attraverso una sorta di analisi sulle dinamiche e metamorfosi esistenziali che accompagna i numerosi racconti della raccolta.
La scansione dei tempi è sempre attenta ed il ritmo della narrazione incalzante.
Da sottolineare che, in alcuni casi, il tono ironico tocca vette meravigliose».

Massimo Barile
presidente del premio letterario
J. Prévert 2019 sez. narrativa


Prefazione

Elisabetta Collini propone una interessante raccolta di racconti brevi, dal titolo “Atrocità quotidiane e poco d’altro”, che rappresentano una sorta di personale collezione sulle molteplici manifestazioni e contraddizioni dell’umano vivere, tra vizi e falsi moralismi, comportamenti negativi e falsità, capaci di illuminare la galleria di personaggi che diventano espressione fedele della sua intenzione letteraria.
Durante il processo narrativo emergono lo sguardo ironico e satirico, sovente dal tono tagliente, altre volte pervaso di una feroce critica e, in alcuni casi, cosparso di profonde rappresentazioni della realtà esistenziale nella quale vivono i protagonisti dei racconti: tutto si miscela in un mare magnum composto di egoismo, indifferenza, invidia, avidità, volontà di prevaricazione, opportunismo declinato in vari ambiti, senza tralasciare comportamenti censurabili di politicanti intrallazzatori e corrosi dalla brama di potere con tutto quanto ne consegue.
Come giustamente afferma l’autrice, ci troviamo davanti ad “affreschi” moderni che ritraggono una umanità, indagata nei vari ambienti e sotto diversi aspetti, che viene riportata con parole capaci di scandagliare le fenditure di comportamenti poco edificanti, costantemente aggrovigliati su se stessi, contaminati da continua esaltazione della conquistata condizione sociale, avvelenati da un estremo egoismo, una insaziabile sete di potere e la volontà di predominare sugli altri, rendendo palese l’esito finale di tale operazione: un modus vivendi che nasconde il senso di vuoto interiore dei vari personaggi, l’incapacità di ricercare la sostanza autentica del vivere, rifugiandosi in un mondo falso e artificioso, dominato dall’interesse personale, dall’indifferenza e dall’opportunismo che non conosce confini.
La raccolta si divide in tre parti, “Atrocità quotidiane”, “Roghi delle vanità” e “Le stanze del potere”, strettamente collegate, direi giocate sul filo di un continuo intreccio, come a plasmarsi tra loro, alimentarsi, evolversi, fino a confondersi nella substantia stessa della sua narrazione.
La scrittura di Elisabetta Collini risulta tagliente come bisturi, capace di scarnificare i suoi personaggi fino a ridurli in brandelli; vivisezionare le più recondite regioni del loro animo; indagare ciò che è celato nelle fenditure del reale; prendersi gioco dei fardelli di rancore e risentimento; esplodere in divertenti racconti come quello relativo all’assemblea condominiale, dove si tocca l’apoteosi con logorroici sermoni, bisticci verbali e latinismi d’accatto; mettere alla berlina l’ipocrisia e il servilismo, come nel racconto relativo ai “riottosi” soci di un club che, dopo le elezioni, con estrema facilità si accodano al vincitore; il caleidoscopio d’un continuo agitarsi nei meandri di questioni inutili e l’ossessione nel mettere in risalto la propria personalità, le presunte doti, per apparire ciò che non si è; la consuetudine dei gesti quotidiani e le abitudini stratificate che diventano una sorta di “martirio” e, in ultima analisi, si avverte la volontà di sottolineare un senso di estraneità che domina la vita dei protagonisti dei racconti, dispersi in assurde e grottesche esibizioni e, al contempo, in illusorie convinzioni sulle loro magnifiche doti e virtù.
L’autrice è sempre attenta a fissare in modo perfetto le ambientazioni e i personaggi che si muovono all’interno dei personali microcosmi, risulta fortemente pervasa di potente ironia, di satira graffiante e lacerante, accompagnata da uno sguardo critico nei confronti della società.
La sua parola penetra nelle pieghe dell’animo umano, che viene vivisezionato nei numerosi racconti che compongono la raccolta: perfetta la scansione dei tempi, impeccabile il ritmo della narrazione, magistrale la capacità di fotografare e fissare i lati oscuri dei suoi personaggi.
In conclusione, desidero sottolineare la verve narrativa che si accompagna al tono ironico e alla spietata vena satirica, profusi a piene mani, che, in alcuni casi, toccano vette meravigliose.

Massimo Barile


Atrocità quotidiane e poco d’altro (racconti brevi)


“Quodcumque sibi imperavit animus, omnia obtinuit”
Lucio Anneo Seneca


Per Maria pittrice di spazi interiori


Atrocità quotidiane

IL SACELLO

Era quasi mezzogiorno quando lo zelante mediatore di immobili, il presumibile acquirente e il proprietario si addentrarono nel mare di ulivi che circondava la masseria. Le forme mutevoli dei tronchi si dissolvevano nella luce meridiana, una quiete densa, palpabile, si spandeva nell’aria liquefatta dal calore. I viottoli scomparivano fra l’erba giallastra, lo stridio delle cicale si alternava al nulla, un bagliore accecante inghiottiva la villa, solo rari coni d’ombra partorivano lacerti di pietre consunte. Esili crepe percorrevano il maestoso edificio acquattato fra il verde degli aranci.
Un tempo circolare, senza giorni né mesi si annidava fra le sue mura. Le vite che si erano sdipanate in quel luogo ancora vi dimoravano, le loro rarefatte esistenze lo permeavano. Parole e gemiti, risa e grida celati nei più riposti cantucci mantenevano la memoria di coloro che li avevano profferiti. Le loro storie si inanellavano le une con le altre e sciamavano fra gli alati piccioli e i fiori bianchi. Miriadi di sguardi vivevano in quel chiarore, le loro impronte permanevano quali silenziose ammoniti in attesa che la mano di intrepidi lapicidi sfiorasse la roccia e rivelasse i loro volti.
Dalla porta dischiusa si intravedeva l’occhio splendente dei recipienti di rame che riempivano le scansie del camino, cumuli di cenere gremiti di nere ferite giacevano negli angoli. L’oscurità svuotava il visibile di ogni mera apparenza e attraeva a sé tutto ciò che sfiorava. Le finestre si aprivano con un cigolio lacerante e un fiume sfavillante invadeva gli anditi. Di fronte a tale inesorabile incedere le ombre si ritraevano, si sgretolavano, si dissolveva il loro muto dominio, la memoria delle loro vaghe forme.
Un dedalo di corridoi sempre più stretti conduceva ai locali abitati in vita e in morte da Sibilla, una lontana prozia, che ora scrutava i visitatori dal suo vitreo sacello. Tre sedie, che un giorno erano state rosse, erano poste di fronte alla poltrona sulla quale era solita indugiare. Schegge luminose si addentravano prepotentemente dalle persiane accostate e correvano da un capo all’altro della camera, un pulviscolo dorato si attardava nell’aria.
Ella si aggirava ancora di fronte alle proprie sembianze malamente sistemate nella teca. Il movimento lieve delle sue ossa avvolte in fruscianti sete riempiva lo spazio. Di tanto in tanto sfiorava gli ospiti poi riprendeva la sua inquieta erranza. La sua immagine era un aculeo che sporgeva, un pensiero che implacabile si faceva strada nelle loro anime.
A volte l’intreccio che catturava le sue mani affilate, fatte di tendini e unghie, pareva allentarsi e una parola si formava, prendeva una consistenza quasi tattile, ma subito quella pallida larva spariva. Il volto magro, il mento aguzzo, gli occhi scintillanti che avevano dentro un lume quasi nero afferravano il cuore e lo trascinavano giù a capofitto in una cavità oscura.
Un tempo si era ritirata in convento poi era tornata nella sua antica casa e, mantenendo sempre l’abito monastico, aveva trascorso la vita in quella stanza appartata. Prima di indossare quel cilizio l’avevano trovata un giorno con il volto arrossato, le labbra turgide che ancora fremevano per i saporiti morsi del suo sconosciuto amante. Le vene gonfie le deformavano le tempie, fonti di sangue odoroso affluivano nelle rotondità del suo corpo, la pelle lucida si beava delle calde sorgenti che la percorrevano, il cuore era perso in un’isola di fragranti aromi.
Il gesuitismo imperante l’aveva confinata in tale luogo. Essi avevano chiuso quella porta ma attraverso infinite fessure Sibilla non aveva mai cessato di narrare la sua storia continuando a risucchiare nello spazio che le era appartenuto, gli incauti visitatori. La sua ombra scivolava muta accanto a loro e, remota come il riflesso dell’astore che silenzioso solca i cieli, si affacciava per un istante al sogno dei vivi.


Roghi delle vanità

LA SCRITTRICE SI RACCONTA

Appoggiata allo stipite di una porta, una gentildonna scrutava la platea. Indossava un paltò nero e un ampio cappello amaranto la cui forma era la perfetta riproduzione di un catino rovesciato. Di lì a poco avrebbe presentato il suo ultimo libro.
Le due relatrici, chiamate a cimentarsi in impegnative orazioni al fine di tessere efficacemente le lodi del volumetto si erano già sedute, in mezzo si assise la scrittrice. Con il collo immerso in un finto struzzo color panna e la bocca spiegazzata come un merletto stirato male, esitava sul crinale del sorriso e assentiva soddisfatta.
Esse iniziarono col ripercorrere le vicissitudini occorse all’autrice nel corso dei suoi viaggi. Una delle due infaticabili conferenziere pronunciò ben 36 volte, nell’arco di un quarto d’ora, la parola “bellissimo” riferita alle inconsistenti vicende ivi raccontate. Ai brani ritenuti più significativi fu data ampia lettura. Imperversavano colonne che si precisava essere “verticali” forse per sottolineare che per il momento, non erano ancora crollate, e cieli azzurri, spalmati sopra le medesime, unitamente a piastrelle celesti di templi persiani, perfettamente intonate con l’aere cilestrino e con il cesio degli occhi. Tutto era di un azzurro allarmante. Impronte di figure sciamavano silenziose mentre la perspicace e perplessa viaggiatrice si interrogava su quali potessero essere i pensieri che le animavano, come se si chiedesse su cosa riflette un ratto che si dilunga sulla via in attesa di riguadagnare la sua tana.
Nel suo errare fra cieli di lapislazzulo, in ogni paese, aveva avuto la certezza di incontrare “l’uomo giusto”, la cui figura, in un’inesorabile escalation, era stata ogni volta ed in breve lasso di tempo, ridimensionata e successivamente rubricata come “l’uomo sbagliato”. Solo uno dei numerosi “uomini giusti” aveva potuto “ab aeterno” fregiarsi di tale appellativo, in quanto, essendo molto opportunamente morto anzitempo, non aveva potuto deluderla ed era divenuto oggetto di un culto assiduo messo in atto con grande tenacia dalla provetta seduttrice.
Tutto sembrava svolgersi secondo uno sperimentato copione. La loquace avventuriera aveva appena terminato il suo racconto e si asciugava una lacrima rimasta impigliata fra le ciglia quando il redivivo spuntò fra la folla e le andò incontro a braccia aperte rovinando definitivamente il ricordo che ella tenacemente tratteneva. Esterrefatta e delusa per tale inopportuna apparizione che metteva in discussione anni di pacata devozione e incrinava pericolosamente la perfetta impalcatura che sosteneva la sua narrazione, si avviò stizzita verso il buffet senza degnarlo di uno sguardo.


Le stanze del potere

PRIVILEGI

L’onorevole Ennio Milzadella era incorso in alcuni spiacevoli contrattempi a seguito dei quali aveva subito svariate condanne. All’epoca della contestazione dei fatti si era immediatamente dichiarato innocente ma, nonostante avesse negato fieramente ogni addebito, prove schiaccianti avevano sancito la sua colpevolezza.
Quella mattina si apprestava ad entrare nel prestigioso anfiteatro di Montecitorio per sottoporsi al giudizio dell’eletto consesso che aveva l’arduo compito di riaccoglierlo nel suo seno quale novello figliuol prodigo, o estrometterlo per sempre. Egli bramava trattenersi in siffatto luogo vita natural durante, ma un fato crudele l’obbligava ora a sottoporsi a tale autodafé.
In lui l’aspetto fideistico aveva salde radici essendo fermamente convinto che la dimensione escatologica ultima dell’uomo fosse il paese dei balocchi, luogo nel quale aveva sempre vissuto in letizia. Dunque era incline a credere che il bengodi non sarebbe mai finito, confidando ostinatamente nell’eternità di tale condizione.
La sua fiduciosa attesa di una nuova età dell’oro non andò delusa, infatti, la grande famiglia che ivi dimorava fin dal carbonifero dopo aver riflettuto sul noto versetto dell’ecclesiaste che proclama: “Hodie mihi, cras tibi” deliberò di assolvere e riammettere il Milzadella al suo interno. Tale verdetto dimostrava che il potere effonde un sortilegio che sottende un’approvazione incondizionata persino sui misfatti, che spalma un tacito consenso tale da rendere indolore il passaggio dalla concussione, appropriazione, rapina ben visibile a quella anonima e sotterranea.
E così Ennio fu riabbracciato, amici, nemici, vittime, persecutori si amalgamarono in un catartico amplesso dando il loro fattivo contributo alla creazione del miglior minestrone che mai l’Artusi avesse partorito. Pugnelli di paggi freschi, appena eletti, adibiti a portaborse ma in attesa di essere designati ad alti incarichi, si mescolavano a stagionati cefalopodi difficili da staccare dalle poltrone, a striscianti e taciturni lombrichi, nonché ad alcuni esemplari di suiformi, il tutto amalgamato nella grande cazzaruola del palazzo. Ma, già a suo tempo, la buonanima dell’Artusi ci aveva avvertito che questa non era minestra per gli stomachi deboli.
Frattanto l’alternanza fra le numerose specie di eletti non produceva alcuna trasformazione, le parole e le pietanze erano sempre le medesime. Molti auspicavano l’avvento di un bell’arrosto giustamente lardellato, pillottato e steccato con l’aglio, ma niente accadeva. Da remoti ipogei effluivano i miasmi di stantie pietanze.
Il cambiamento era diventato una malattia cronica, le idee erano talmente diluite rispetto alla ricetta originaria che i palati non sentivano più alcun sapore, non c’erano più né solenni promesse, né rinunzie. Tutto poteva accadere, l’arena era piena di tecnici che si prodigavano in un’alternanza di costruzioni e demolizioni, era come passeggiare per Ercolano. Un drappello di gazze appollaiato sulla colonna Citatoria testimoniava e garantiva che tale sistema non sarebbe mai crollato.

[continua]


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