Alea Iacta Esto

di

Emanuele Aliotta


Emanuele Aliotta - Alea Iacta Esto
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 252 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6587-9467

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In copertina: «Osteria della Via di Mercurio (VI 10,1.19)» su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Parco Archeologico di Pompei vietata la riproduzione o la duplicazione con qualsiasi mezzo


50 a. C., Gallia. Giulio Cesare è impegnato nella guerra contro le tribù germaniche del nord al comando della gloriosa X legione.
Conquistando un villaggio, i soldati catturano un ragazzo che è reso schiavo e che da Cesare stesso riceve il nome di Marcellus, lo stesso nome di un soldato che, da quel momento, decide di vendicarsi sia per l’affronto, sia perché quel biondo prigioniero gli riporta alla memoria un segreto doloroso.
La vita del giovane schiavo è dura nella Legione: abusi, torture, violenze sono all’ordine del giorno, per lui e per i suoi compagni di sventura.
Il nostro germanico imparerà a sue spese il prezzo della libertà, una libertà che va oltre le catene, il collare e le vesti lacere. Una libertà che è consapevolezza di se e del proprio ruolo, responsabilità e fedeltà, fino all’inaspettato epilogo.

Alea iacta esto vuole essere il primo di una serie di romanzi che hanno, per protagonisti, ragazzi e adolescenti nelle varie epoche storiche. L’obiettivo è quello di descrivere, prendendo spunto da alcuni episodi storicamente avvenuti, magari poco noti, come bambini, ragazzi e adolescenti erano, e, purtroppo, lo sono ancor oggi, trattati e, troppo spesso, maltrattati e abusati.
Si vuole narrare le loro vicende e, a volte, provare a rendere loro giustizia, richiamando, neppure tanto indirettamente, il mondo degli adulti a una maggiore responsabilità e rispetto verso di loro, la loro età e la loro memoria.


Alea Iacta Esto


Capitolo I


PUER!

Ultimi giorni di dicembre dell’803 AUC1, appena terminate le feste saturnali2, un luogo non meglio precisato della Gallia vicino al fiume Reno.
Il giovane schiavo Marcellus gioca a dadi con i suoi pari, nella zona riservata agli schiavi.
Era ormai sera, le faccende erano state sbrigate: i cavalli strigliati e nutriti, le stalle pulite, i viali del castrum spazzati e ripuliti dalla poca neve residua di quella caduta i giorni precedenti, i vettovagliamenti stoccati in ordine nelle tende, le latrine pulite. “Per fortuna – pensò il ragazzo – oggi non è toccato a me pulirle”. Aveva piovuto tutto il giorno e quel posto era diventato, anche a causa degli attacchi di dissenteria che avevano colpito molti soldati e cui lui aveva provato a porre rimedio con le sue bevande, una vera cloaca: il suo turno di pulirle sarebbe stato il giorno dopo… e adesso stava giocando e, tra l’altro, anche vincendo, pertanto non voleva pensarci.
Anche le armi dei legionari: la lorica hamata3, il gladio e lo scudo semi rettangolare, gli elmi che i soldati avevano lasciato perché fossero lucidati e il nuovissimo tipo di giavellotto in dotazione alle truppe, chiamato Pilus, oltre ad altri armamenti di cui ignorava ancora il nome, erano state pulite e riposte nella tenda, quelle che essi lasciavano riporre e non si portavano con sé nei contubernia (le grandi tende a otto posti dell’esercito).
Era stato, al momento della sua cattura, uno degli schiavi più giovani, se non il più giovane, della prima Centuria, del secondo Manipolo della terza Coorte della Legione e, forse, di tutto il campo.
Era stato fatto prigioniero proprio durante questa campagna di Cesare, destinata a passare alla storia come la campagna di Germania, iniziata nell’811 AUC e che sarebbe terminata solo 9 anni dopo.
Ricordava ancora perfettamente come tutto si era svolto: si era nell’anno 808 AUC, e, per ironia del Fato, sedici giorni prima delle Calende di gennaio4, primo giorno delle feste Saturnali. Per lui, germanico, era semplicemente la stagione invernale, che andava da settembre a marzo e la guerra, la campagna militare di questo invasore venuto dal sud, sembrava, anzi era una cosa lontana nel piccolo villaggio ben nascosto e protetto dalla vegetazione, lungo le rive di un piccolo e tranquillo fiume quasi nel cuore della Foresta Nera. A essere sinceri anche lì si percepiva che qualcosa era cambiato perché molti uomini e giovani erano partiti per combattere contro il nemico, al seguito del capo clan che, insieme alle tribù vicine, si era organizzato per tentare di fermare le potenti legioni romane.
Eppure, quel giorno, la guerra era arrivata anche nel suo villaggio. Accadde, secondo il computo romano delle ore, nel pieno della terza vigilia della notte5 di quel giorno, mentre tutto era ancora immerso nel sonno e le guardie, che facevano turni di due ore, stavano giusto dandosi il cambio. Era stato fin troppo facile liquidarle ed entrare nel villaggio, che già da parecchio tempo era stato individuato e spiato…
All’improvviso le porte delle tende dove dormivano gli abitanti si erano spalancate tutte allo stesso momento e, dinanzi agli occhi atterriti di donne e bambini, si erano presentati, illuminati da torce che ne rendevano ancor più spaventosi i volti, degli uomini in armatura con elmi, scudi e le spade sguainate. Urlando frasi sconnesse in una lingua oscura, come se fossero stati posseduti da qualche spirito malvagio, avevano ucciso indiscriminatamente chi avesse avuto la sfortuna di trovarsi nella traiettoria del loro gladio. Avevano distrutto tutto, cacciato fuori a calci i bambini e i ragazzi, tirato per i capelli le donne urlanti, separati figli dalle madri, uccisi, senza alcuna pietà, i vecchi…
I pochi giovani che facevano da guardie erano stati presto resi inoffensivi e, o uccisi nel loro vano tentativo di difesa, o legati e catturati, per poi essere venduti come schiavi.
E lui, Marcellus, ma questo non era il suo vero nome, aveva provato a difendersi e a difendere sua madre e i suoi fratelli di otto, sette e cinque anni, lanciandosi, a mo’ di ariete, urlando con quanto fiato aveva in corpo, fremente d’ira, gli occhi iniettati di sangue, come una piccola furia, con la sua asta, cercando di attaccare un soldato che aveva tra le mani possenti il suo fratellino più piccolo che piangeva disperato. Troppo pieno del suo furore, non si era neppure accorto delle grida angosciate di sua madre che lo mettevano in guardia dal soldato che, senza farsi scorgere, si era portato alle sue spalle. Questi, vistolo così agile e forte, invece di trafiggerlo, aveva calato tra le sue spalle l’elsa dorata del gladio, facendolo stramazzare al suolo, con la bocca spalancata, incapace di urlare dal troppo dolore.
E lì, a terra, vide un soldato afferrare per i capelli sua madre e ne sentì le urla disperate mentre questi la trascinava poco distante e, assieme ad alcuni soldati, fattala distendere per terra insieme ad altre donne e ragazze del villaggio, abusavano di esse. I soldati passavano dall’una all’altra, come api sui fiori, indifferenti alle grida e alle suppliche. Le loro mani toccavano, strappavano vesti e pellicce, palpavano in ogni dove… e poi entravano in quei corpi, come fossero giocattoli. E se le donne mature resistevano, le grida disperate delle bambine e delle ragazze durarono poco: la violenza che le aveva travolte le aveva uccise. Tutto questo accadeva davanti a padri, fratelli, figli, come lui, tutti impotenti a far qualcosa, costretti a guardare quello spettacolo orribile.
E così era stato fatto prigioniero, proprio quel giorno, appena undicenne, strappato alla sua famiglia, che era stata torturata e sterminata di fronte a lui, sotto lo sguardo compiaciuto di un soldato che, da quel momento, incrocerà troppo spesso la sua strada.
A quegli invasori non bastò averlo catturato. Finita la razzia, i soldati accatastarono un po’ di legni a fare una specie di palco, lo issarono su, insieme con altri ragazzi e qualche adulto superstite e iniziò la parte peggiore: furono denudati, fatti girare come trofei, palpati in tutte le loro parti e presentati agli acquirenti – i soldati stessi – come fossero bestie da mercato. Così anche lui fu venduto come schiavo lì, sul campo stesso, nel suo villaggio ove era sempre vissuto da persona libera, in mezzo alle case che ancora bruciavano, alle grida delle madri e ai pianti dei pochi bambini restati vivi (tutti uccisi nel giro di poco tempo perché inutili) e ai cadaveri non sepolti. Era stato ornato, beffardamente, ma questa era la consuetudine per gli schiavi prigionieri venduti, di una corona, lui, un ragazzo, un maschio… e lì, in quel trambusto di morte e dolore, aveva iniziato a sentire e a imparare la lingua degli invasori. Aveva una buona memoria, il ragazzo, e imparava facilmente: così sentì le prime parole di quell’idioma forte (ma non certo come il suo) che lo descrivevano – aveva capito che si parlava di lui perché, mentre pronunciava quelle parole, un soldato lo indicava –. Il soldato, a voce alta, declamò le qualità dello schiavo: “Ecco il bel ragazzo schiavo catturato sul campo, forte e robusto, indomito e feroce”. E, nel dire queste parole, il banditore le accompagnò accarezzandogli il corpo, provocando un principio di erezione che fece arrossire il ragazzo e suscitò, invece, risa e molta attenzione da parte di quegli spettatori. Gli toccò le braccia (forte), il petto (robusto), facendo notare due strane, piccole cicatrici al centro. Afferrandolo per i capelli e provocando in lui un moto di reazione, subito sedato con uno schiaffo (indomito), gli sollevò la testa e gli aprì a forza la bocca per mostrarne i perfetti denti bianchi (feroce). Non era più una persona, ma un animale.
Fu comprato da un soldato della stessa gloriosa Decima Legione che aveva attaccato il villaggio, Legione che era quella in cui si trovava ancora. La Decima era la Legione preferita da Cesare, che lo seguiva fin dai tempi della sua costituzione, press’a poco nell’813 AUC e che lo seguirà in tutte le sue campagne, fedele a lui solo, fino alla morte, tanto da fornirgli la sua guardia personale. Da semplici fanti ne aveva fatto, cosa mai successa con le altre undici Legioni di Roma, dei cavalieri (milites), insegnando loro a cavalcare.
Il ragazzo, per la paura, ma più ancora per la sorpresa, quando i ferri gli avevano serrato la gola, i polsi e le caviglie, alla richiesta del suo nome, non aveva emesso che un vagito.
Gli occhi increduli, splendidamente cerulei, i capelli lunghi e biondi, il corpo glabro dal fisico già forte per gli allenamenti fatti con i suoi compagni – chi ora in catene con lui, chi disteso morto sul campo di battaglia – tutto tremava sia di paura, ma anche, e forse ancor di più, di rabbia, una rabbia che lo faceva fremere e vergognare per non essere riuscito a difendere non solo quelli del suo clan, ma neppure i suoi familiari. E con la mente ricordò l’ultimo atto eroico che aveva compiuto suo padre, capo indiscusso e ormai leggendario, che, quando lui aveva nove anni, aveva messo a rischio e perduto la vita per salvare la vedova e il figlio di un altro uomo del villaggio da un orso, lottando con una semplice falce contro un animale che era, per statura, il doppio di lui. Come molti germani suo padre era sopra il metro e ottanta: era riuscito sì, a uccidere l’animale, ma aveva riportato ferite tali da morire pochi giorni dopo. E, prima di morire, aveva ordinato di scuoiare l’orso, che spettava di diritto a lui, avendolo ucciso, e alla sua famiglia e dare invece la pelliccia e le carni alla donna e al figlio salvati perché avessero di che sopravvivere. Da quel momento suo padre era diventato, per tutti, un eroe.
E lui, lui non era riuscito a difendere sua madre e i suoi fratelli… e questo faceva male, tanto. Il ragazzo non immaginava neppure che, tuttavia, questo sarebbe stato uno dei mali minori cui sarebbe andato incontro da quel momento…
A questo pensava e non aveva risposto al suo aguzzino che, guardandolo con occhi inespressivi, lo aveva strattonato tirando la catena che aveva al collo: “Come ti chiami?”. Il ragazzo lo aveva fissato come inebetito e quello, pensando che non avesse capito, aveva ripetuto la domanda, sempre in latino. Un commilitone, che assisteva alla scena, rise di gusto: “Questi esseri incivili, rozzi e barbari, se comprendono il latino, non vogliono parlarlo, pertanto ti devi rivolgere a loro nella loro lingua”. Il soldato alzò gli occhi al cielo. “Per Giove!” esclamò trattenendosi e poi riguardò il ragazzo. Dopo avergli alzato bruscamente il viso tirandolo per i capelli, facendogli non poco male, ripeté, urlandogliela in faccia, toccando con il suo naso quello del giovane, la domanda nella lingua del prigioniero, idioma che per lui – uomo d’armi e non certo di tanta cultura – era incomprensibile e quasi impronunciabile.
Un fetore di alito frutto di una mistura di bevute, cibo, unito all’acre tanfo di sudore e altro ancora di indefinibile, sintomi di un’igiene che certo non era il punto forte di quell’uomo, investì le narici del ragazzo, che dovette trattenere un conato di vomito. Eppure l’aver sentito, pur con una pronuncia barbara, una domanda nella sua lingua paterna, lo aveva reso attento: aveva tenuto fermo lo sguardo, con gli occhi ancora colmi di lacrime di odio e dolore, ma la sua bocca, deglutendo il rigurgito, questa volta, non si era mossa. Sfidava il suo nemico.
“Non saprai mai il mio nome – si diceva tra sé e sé – Non ti darò la soddisfazione, nemmeno se parli, e anche male, la mia nobile lingua, di potermi chiamare con il prezioso nome che mi han donato i miei avi, per scelta di Odino e di Thor, bastardo verme schifo…”
Un bruciante dolore alla guancia destra lo distolse dai suoi pensieri: il soldato lo aveva colpito con il dorso della mano sinistra (a significare il suo disprezzo) bardata di strisce di cuoio piene di piccole borchie di ferro. Il ragazzo aveva girato la testa per il colpo ricevuto ma, subito, l’aveva rivolta, la guancia sanguinante, ancora a chi, ora, gli stava dinanzi ormai stufo dell’insolenza di quello schiavo che, seppur giovane di età, tuttavia a lui pareva già vecchio per l’arroganza.
Stava per colpire di nuovo – e il ragazzo non si mosse assolutamente pur vedendo la mano che ricaricava il colpo – quando una mano afferrò il braccio del soldato: “Che ti accade, Mar…”. “Niente, taci! Insegno soltanto, a questo schiavo, a obbedire! Vattene!”. Non si era girato a vedere chi gli parlava, aveva risposto d’istinto, senza neppure aspettare che chi gli era alle spalle finisse di parlare. Era soltanto irritato da quel misero barbaro in catene ma, una volta presa coscienza di colui al quale appartenevano quella mano e, soprattutto, quella voce, era sbiancato.
Dietro di lui, chi gli aveva parlato e gli aveva fermato il braccio, era niente meno che Caio Giulio Cesare in persona, il suo Comandante Supremo, il suo Generale, il suo futuro signore, il suo già Dio.
Si gettò immediatamente in ginocchio, farfugliando scuse e implorando perdono per la sua audacia e insolenza. Cesare non gli badò: i suoi occhi fissarono quel giovane che, a sua volta, lo fissava, con sguardo che pareva quello di… di… di un lupo, ecco, sì, di un lupo feroce, aggressivo, fiero, indomito e indomabile, come lo aveva ben descritto chi lo aveva venduto. Nessun timore reverenziale e nessuna soggezione verso quell’uomo, quel nemico, quell’invasore… Né Cesare né il ragazzo degnavano di uno sguardo il soldato, un colosso di quasi due metri, che, ancora raggomitolato ai piedi di Cesare, continuava la sua patetica litania d’implorazioni… “Che vigliacco!” disse, a denti stretti, nella lingua paterna, il prigioniero, con aria sprezzante, senza avvedersi del fugace sorriso, quasi compiaciuto, che, per un breve istante, passò sulle labbra di Cesare che aveva ben compreso quella frase.
Con un calcio Cesare allontanò quella presenza ormai molesta dai suoi piedi, sempre fissando il giovane. Le catene lo facevano apparire più piccolo: stava lì, fermo, il corpo snello e ben formato, nudo, eccetto il perizoma con cui si era riavvolto i fianchi, fatto con una striscia di pelliccia d’orso tenuta salda da una semplice corda. A Cesare, chissà perché, quel ragazzo, così vestito, ricordava Ercole, vestito della pelle del mitico leone di Nemea, da lui ucciso durante una delle sue dodici fatiche.
C’era qualcosa di affascinante in lui… e non era solo la bellezza fisica, seppure – o era proprio per questo che lo attirava – ancora acerba, ma c’era, in quegli occhi, una luce, una passione, una forza di volontà che Cesare raramente aveva visto, anche nei suoi più valorosi soldati. Decise lì, immediatamente, che quello schiavo era suo, lo voleva per sé, come schiavo personale.
Cesare non gli aveva chiesto di nuovo il suo vero nome, aveva capito che nemmeno sotto tortura lo avrebbe rivelato, ma aveva continuato a fissarlo e, forse, anzi sicuramente per spregio, gli aveva detto, con voce abbastanza alta da essere chiaramente udito da qualcuno in particolare: “Ti chiamerai Marcellus”. Questo era, e il ragazzo lo comprese subito dalla reazione dell’omonimo, il nome del soldato che, ancora, piagnucolava dietro al suo comandante ma che, all’udire il suo nome (il suo glorioso nome di uomo libero), affibbiato a uno schiavetto insignificante, si era alzato in piedi con uno scatto d’orgoglio. Si era pulito il naso e gli occhi sulle maniche della sottoveste e aveva cercato di non cadere in una simile onta: “Cesare, ti prego, è solo uno schiavo, l’ho comprato a caro prezzo, non è degno di avere il nome di un uomo libero…”. Ed era vero. Quel ragazzo gli era costato, letteralmente, un prezzo molto salato: cinque pugni di sale, la quantità che serviva a conservare almeno quindici porzioni di carne per cinque giorni. Aveva dovuto fare così, poiché non era ancora giorno di paga: Cesare infatti, proprio durante questa campagna, a causa di una svalutazione della moneta e alle condizioni di miseria in cui vivevano i soldati, aveva loro raddoppiato la paga da 5 assi6 giornalieri a 10. Inoltre non erano ancora arrivati i rifornimenti, per cui quella spesa, per il milite, era stata davvero ingente.
E il fatto che, a portarglielo via, fosse il suo comandante supremo, non era per niente una consolazione, anzi, era ancora più umiliante, perché nulla avrebbe potuto mai fare per cambiare quella situazione e riprendersi lo schiavo.
Lì intanto, sul palco, incatenato ed esposto come un animale, il ragazzo non aveva capito quasi nulla di quello che era accaduto tra i due, ma sapeva, questo sì lo sapeva, che la sua vita, da quel momento, non sarebbe stata mai più la stessa.
Cesare si era voltato e stava già dirigendosi verso la testa del convoglio, dando disposizioni che, una volta arrivati al castrum, al ragazzo fosse tolta quella pelliccia miserevole, fosse ripulito, rasato dei lunghi capelli, rivestito con la veste degli schiavi romani e portato nella sua tenda. Il soldato tentò il tutto per tutto: aveva completamente perso la ragione. In un impeto di orgoglio urlò, con quanto fiato aveva in gola: “È cosa mia e ha anche il mio nome!” e, nel dire queste ultime parole, quasi piangeva.
Subito si avvide del suo secondo errore, nel rivolgersi, ancora, in tono così autoritario, al suo comandante, ma oramai era fatta. Avvampò per la vergogna (e la paura): lui, un soldato esperto, un veterano, uno che, sui campi di battaglia, ne aveva fatte e viste di tutti i colori e che ora stava perdendo la testa (e forse non solo in senso figurato) per un ragazzino, per uno schiavo. A parlare, a farlo agire così, era stato un ricordo, un ricordo che credeva di aver finalmente sepolto come fa chi gusta le acque del Letè, il mitologico fiume della dimenticanza, cui bevono le anime dei morti per non rammentare più la loro vita sulla terra. Purtroppo a lui non era accaduto: quel doloroso ricordo di un inganno, pagato non col sale, ma col sangue del suo sangue, si era prepotentemente riaffacciato alla sua mente e al suo cuore, specchiandosi, crudelmente, negli occhi azzurri di quel ragazzo. E, seppure a distanza di due anni, la ferita, si accorse, non era ancora guarita, anzi.
Cesare sapeva bene che era la seconda insubordinazione di quel soldato nel giro di poco tempo, ma sapeva anche quella storia – lui era lì quando era accaduto il fatto – e perciò, di nuovo, non disse una parola: si limitò a girare la testa e, da dietro la spalla destra, guardarlo, con quello sguardo che sta a significare, da un lato “Non sono miei problemi” e, dall’altro “Forse è meglio così”. Cavò poi dalla borsetta di cuoio che portava con sé allacciata alla cintura, tre aurei d’oro (l’equivalente di 1200 assi; uno schiavo ne costava poco più di 600) e, con noncuranza, li gettò davanti al soldato: “Bastano per acquistare il tuo schiavo?”
Il soldato, al vedere roteare in aria davanti ai suoi occhi quelle monete d’oro, aveva assunto l’aspetto di un bambino cui si regala il giocattolo che brama: era un’espressione quasi imbambolata, con un sorriso stupido e infantile stampato sul volto. Si gettò, carico com’era dell’armatura, su quei tre pezzi d’oro come un falco sulla preda, avidamente, ridendo, ghignando, piagnucolando di gioia… e aveva, di nuovo, iniziato a farfugliare, ma, questa volta, degli ancora più patetici e rivoltanti “Grazie, mio Signore, grazie”.
A riportarlo alla realtà ci furono le beffarde risa dei compagni, che avevano assistito a tutta la scena e che ora non la finivano di ridere e irridere il commilitone “Guardate il valoroso soldato: ecco, o Roma, il tuo eroe!”; “Se costui è il difensore dell’Urbe, è meglio che sia data alle fiamme!”… E altre frasi il cui contenuto scendeva molto nel triviale.
E il nostro giovane si vedeva, di nuovo, fatto oggetto di vendita: in meno di cinque ore era passato dall’avere una famiglia all’essere solo al mondo, dall’essere persona libera a prigioniero di guerra, da prigioniero di guerra a schiavo e, da schiavo, passare, in breve, da un padrone a un altro, come fosse stato un bue, un pezzo di legno, uno straccio… no, lui era molto meno, era, appunto, soltanto uno schiavo.
Il vecchio soldato sentì crescere in sé un odio indicibile verso quel ragazzino, mentre continuavano le risa e le battute di scherno dei suoi commilitoni. È vero, avrebbero sacrificato la vita l’uno per l’altro, ma erano e restavano sempre dei soldati, gente un po’ rozza, poco abituata e avvezza alle smancerie o alle cortesie, gente lontana da casa per mesi, anni, senza vedere una donna, senza un letto comodo, abituata alle fatiche più dure… ogni occasione era buona per scaricare la tensione, la rabbia, la frustrazione che si portavano dentro, anche deridendo un compagno… Era il prezzo da pagare per appartenere alla Legione, al potente esercito di Roma, caput mundi… e Marcellus lo sapeva bene.
Quel termine, commilitone, voluto fortemente da Cesare e inculcato con tenacia nelle menti e nei cuori della truppa, stava a indicare che tutti loro erano lì, insieme, a combattere, come soldati, senza distinzioni o differenze: erano tutti, indistintamente, al servizio della sola cosa che aveva valore, cioè la grandezza di Roma. E per questo, e il nostro giovane schiavo Marcellus lo ricorderà a lungo, Cesare mai aveva usato violenza contro i suoi soldati: mai aveva dovuto incatenarli o usare la frusta o far lapidare o uccidere un suo sottoposto per insubordinazione – accadrà, a sua memoria, una volta sola – tanta e tale erano la fedeltà, la lealtà e l’affetto incondizionato che quegli uomini avevano per il loro Generale e che lui ricambiava.
Marcellus ricordava che anche lui, in passato, aveva approfittato dello spirito da caserma… Era successo, forse aveva venticinque anni, e già da nove era nell’esercito, mentre ora era un veterano di quarantacinque, una volta in cui, durante una perlustrazione, con alcuni altri buontemponi, aveva architettato una beffa ai danni di alcune reclute. Avevano preceduto, lui e altri due militi, l’avanscoperta e, da dietro un cespuglio, facendo voci femminee (ancora ridevano tra loro al pensare come ci fossero riusciti), avevano attirato i tre giovani (tre sbarbatelli che ancora puzzavano del latte della mamma, seguiti da un soldato esperto che, però era d’accordo con chi aveva organizzato lo scherzo) e, dopo aver “neutralizzato” il veterano, avevano trascinato i tre novellini dietro un cespuglio. Lì li avevano aggrediti, spogliati nudi e rimandati al campo, poco distante. Giunsero al castrum tutti rossi di vergogna per esser stati spogliati da quelle che loro, ingenuamente, credevano fossero delle vecchie megere del luogo. Atteso un po’ di tempo gli autori della beffa, rientrati al campo, li avevano trovati dinanzi alla loro tenda, circondati dalla truppa che li scherniva (il comandante aveva fatto solo una battuta) e avevano riconsegnato loro le armature, beffandosi di loro. Oppure quella volta in cui, era distaccato in Italia, avevano organizzato, lui e tre suoi compagni (aveva 27 o 28 anni), un finto attacco alla tenda dei novellini. Era notte: con le armature indosso, il volto sporco di cenere, erano entrati nella tenda dei più giovani (otto ragazzini tra i 17 e i 19 anni) e, dopo aver silenziosamente legato loro i piedi con un’unica corda, avevano urlato a perdifiato, così, solo per il gusto di vederli sobbalzare dal letto e catapultarsi inutilmente verso le armi, già tolte dalla loro portata. La cosa più divertente fu godersi lo spettacolo del loro tentativo di stare in piedi, non potendosi mantenere in equilibrio e quindi franare rovinosamente a terra rovesciando i vasi da notte, opportunamente messi sulla loro traiettoria di caduta, spandendone in ogni dove contenuto e odori… Quella volta il comandante non era stato così tenero e i quattro burloni erano finiti per due giorni a pane e acqua… ma – si raccontavano tra loro – ne era valsa davvero la pena, vedere le facce smarrite e attonite di quei ragazzini, ora soldati che, di quell’avventura, ridevano anche loro, magari a denti un po’ stretti, con i commilitoni più anziani e con gli stessi autori.
Ma ora era vecchio e sorrideva degli scherzi che facevano i nuovi giovani: un po’ di farina tra i capelli, un po’ di pipì nel bicchiere di vino, un rospo nei giacigli… questo era il massimo che sapevano fare… e se ne vantavano pure, questi smidollati; forse era anche perché iniziava a sentirsi un po’ stanco di quella vita, che pure gli aveva dato fama, onore e ricchezze (ben poco godute tutte e tre). Ma quel che non gli andava giù era che adesso il suo nome fosse stato dato, per scherno, a uno schiavo. Era troppo.
Lo consolava, solo in parte, il fatto che era diventato schiavo di Cesare. Abbandonata per sempre l’idea di poterselo riprendere, giurò a se stesso che, da quel giorno, per quanto gli sarebbe stato possibile, la vita di quello schiavo sarebbe diventata un inferno.
Una volta finito tutto, Marcellus, così com’era, incatenato e con la sua pelliccia addosso, con la corona in testa, un cartello appeso al collo che ne rivelava il nome, la presunta età, evidenziandone pregi e difetti e il padrone che lo aveva acquistato, fu gettato, senza molti riguardi, in un grosso carro, col fondo ricoperto di paglia, trainato da quattro buoi. Con lui, a suon di spintoni e urla, furono caricati altri venti schiavi, tra ragazzi, uomini e donne, tutti incatenati e, qualcuno, già con la schiena segnata dalle frustate. Le urla e le imprecazioni di schiavi e carnefici riempivano l’aria di suoni egualmente diversi… Marcellus rivide, lì rinchiusi, amici e parenti: cercò di avvicinarsi a un paio di ragazzi, per trovare il piccolo Sigmund e Berengar, suoi cugini, ma intravide solo quest’ultimo. Volse lo sguardo tra le sbarre di legno del carro e urlò: i corpi del piccolo Sigmund, insieme con quelli di sua madre, dei suoi fratellini e di altri almeno dieci tra ragazzi e bambini, unitamente a varie donne, erano legati, ognuno, nudi, a un palo, le mani sopra la testa, i piedi penzoloni, con varie frecce confitte. Respiravano ancora, poiché le ferite erano state volutamente inferte in punti non mortali e stavano tutti scivolando lentamente verso la morte. Berengar, invece, era poco più in là, nel carro, svenuto, pieno di ematomi, perché aveva cercato di resistere mentre lo catturavano.
Tra il fumo, il fuoco e i cadaveri, il carro si mosse, abbandonando i condannati agonizzanti in pasto alle fiere che, sentito l’odore del sangue, si erano avvicinate dalla foresta.
Sballottando i prigionieri come fossero su una nave in tempesta, il carro lasciò quello che una volta era stato il suo villaggio, la sua casa, la sua vita… la sua libertà. Gli occhi colmi di lacrime gli offuscarono la vista, mentre passava vicino proprio ai condannati appesi: gli dei erano stati benevoli, per cui non riuscì a distinguere sua madre e i suoi fratelli che morivano.
Si accasciò sulla paglia umida, singhiozzando.
Aveva undici anni e, d’ora in poi, nulla più.

Non seppe quanta strada fecero, ma era pomeriggio inoltrato quando il convoglio si arrestò. I soldati che li scortavano fermarono il carro, costruirono velocemente alcune tende, poi si avvicinarono di nuovo al carro, lo circondarono e, aperta la porta, con precisi colpi di frusta, fecero scendere tutti gli schiavi, svegliando quelli che si erano addormentati. Una volta a terra, alcuni soldati li incatenarono l’uno all’altro, gli diedero un po’ da bere, mentre un paio di loro risistemò la paglia del carro. Ci fu chi restò in piedi, forte, a mostrare il suo valore, chi, troppo esausto, si accasciò a terra, chi si guardò intorno come si stesse svegliando da un lungo sonno e chiedeva: “Siamo arrivati?” e chi pensò alla fuga.
Il carro era nelle retrovie di quella spedizione, in fondo alla carovana: erano bastati circa cinquanta uomini per fare tutto il lavoro. Fuggire sembrava possibile: sarebbe bastato raggiungere la foresta poco distante, per immergersi nella macchia e scomparire tra quegli alberi e quei sentieri che loro, i prigionieri, ben conoscevano.
Un giovane, il figlio maggiore del maniscalco del villaggio, un colosso di oltre un metro e ottanta, tentò la fuga quando gli furono sganciate le catene alle caviglie per poi legarlo con gli altri schiavi. Si gettò come un fulmine verso la foresta, correndo come se avesse le ali ai piedi, nonostante il tanto tempo fermo nel carro. Gli altri schiavi iniziarono a gridare chi per fargli coraggio, incitandolo a correre per salvarsi, chi per implorare che non facesse pazzie, ma restasse lì… Il prigioniero guadagnò facilmente terreno anche perché la sua fuga colse alla sprovvista i soldati. La sua corsa fu però breve: quattro militi a cavallo gli sbarrarono la strada e, girandogli attorno, iniziarono a giocare con lui, accerchiandolo e chiudendogli ogni via di fuga. Gli cavalcavano intorno: a chi li vedeva parevano corvi sulla preda, e si urlavano l’un l’altro: “Prendi quella cosa!” e, come un carosello, iniziarono a prenderlo a calci e a colpirlo con le lance, ma senza ferirlo. Il ragazzo, si chiamava Alard, era come un animale in trappola: girava su se stesso come una furia, cercando un varco per passare e, con una mossa fulminea, riuscì ad afferrare la lancia di uno dei soldati e a disarcionarlo. In un attimo gli fu sopra, stringendogli il collo con le catene che ancora gli legavano le mani. Era fuori di sé, urlava frasi terribili in quella lingua sconosciuta ai soldati romani, intimandogli di liberare subito tutti gli schiavi, se non volevano che il loro compagno morisse.
I tre cavalieri ancora in sella cambiarono aspetto e la rabbia prese il sopravvento: quel bastardo andava punito, doveva pagare per quello che stava facendo a uno di loro. E non gli importava nulla che fosse uno schiavo da vendere, non di loro proprietà, ma, come ogni cosa e ogni persona lì in Gallia, di Cesare: andava castigato a dovere. Subito. Con fermezza.
Fecero come se volessero ritirarsi, lasciando un varco per il passaggio e, non appena Alard e il soldato fecero per spostarsi verso la via aperta, uno dei tre, quello più vicino a dove doveva passare il giovane con il suo ostaggio, quando il ragazzo sollevò lo sguardo verso di lui, fece impennare il cavallo, caricandoli con la lancia puntata verso il basso, non però dalla parte della punta, per non uccidere il ragazzo, per il quale aveva già in mente ben altro. Alard si spaventò ed ebbe un attimo di esitazione: il soldato suo prigioniero ne approfittò subito per assestargli un poderoso colpo con il gomito al fianco destro, liberandosi così dalla presa. Il soldato restò lì, a terra, per riprendersi, respirando a fatica, mentre il cavaliere che lo aveva spaventato colpì, a quel punto, il ragazzo al basso ventre con l’asta della lancia tanto forte che lo lasciò piegato in due, rantolante, sul terreno.
Il soldato a terra si rialzò, guardò i suoi commilitoni e quello che aveva colpito il ragazzo guardò gli altri, si toccò la fronte con la mano destra e poi mise le braccia, con i pugni chiusi, incrociandole sul petto, a formare una “X”, per poi, subito, scomporla, abbassandole.
I soldati annuirono, mentre gli schiavi, al momento, non capirono ma, di lì a poco, avrebbero tremato inorriditi al vedere ciò che avrebbero fatto i militari al ragazzo.
Subito misero sul fuoco un ferro che, all’estremità, recava la scritta FUG, abbreviazione di FUGITIVUS, a indicare uno schiavo che aveva, appunto, tentato la fuga. Mentre lo arroventavano, un paio di soldati legò gambe e braccia il ragazzo ancora ansimante tra due alberi (e gli schiavi pensarono, ingenui, che la “X” facesse riferimento a quella posizione) e il ferro rovente, di colore rosso vivo, fu posto sulla fronte dello schiavo, mentre un soldato gli teneva ben ferma la testa. Le sue urla si confusero con quelle degli schiavi che, terrorizzati, assistevano. L’odore della carne bruciata si sparse ovunque. Non era finita: c’era da punire la minaccia fatta a un soldato di Roma.
Fu pertanto slegato dagli alberi, spogliato della sua pelliccia e, nudo, legato a quattro cavalli, uno per arto. E, in quel momento, gli schiavi compresero appieno il significato di quel gesto del soldato, di quella “X” fatta col corpo umano… urlarono di nuovo chiedendo, questa volta, ancora nella loro lingua, pietà per il ragazzo, ma i soldati, facendosi beffe di loro, si portarono le mani alle orecchie come per ascoltare meglio, poi scossero il capo, ridendo e facendo smorfie e, toccandosi ancora le orecchie, con le mani fecero gesti come a dire: “Non vi capiamo”.


[continua]


NOTE

1 Ab Urbe Condita, dalla fondazione di Roma. Gli anni sono pertanto calcolati a partire dalla data della mitica fondazione della Città, avvenuta, secondo la tradizione, nel 753 a.C. In tutto il racconto si utilizzerà la datazione romana, anche per l’indicazione dei giorni. Siamo nel 50 a.C.

2 Si celebravano nei giorni dal 17 al 25 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno secondo il vecchio calendario giuliano istituito da Giulio Cesare (il 21 dicembre secondo l’attuale calendario gregoriano). Si trattava di una festa in onore del Dio Saturno, che aveva lo scopo di riportare l’umanità all’età dell’oro, ove non esistevano distinzioni di classe. Pertanto agli schiavi era concessa la libertà di essere come uomini liberi e, ai liberi, di contro, toccava essere servi. Era una festa di giochi, lascivie, scherzi, burle, banchetti ove i padroni servivano i servi. Tra i servi era eletto il “Princeps”, caricatura delle classi nobili, che, indossando una buffa maschera, dirigeva i festeggiamenti, vestito di colori sgargianti, tra cui predominava il rosso, colore degli dei. Si scambiavano doni ed era concesso anche il gioco dei dadi, proibito invece negli altri periodi dell’anno. Anche l’esercito la celebrava, con il nome di “Saturnalia castrense”: si addobbavano le sale ove si svolgevano banchetti e brindisi e i militari di basso grado sedevano accanto si superiori. Da https://www.romanoimpero.com/2017/12/1723-dicembre-saturnalia.html

3 Era la veste che proteggeva i soldati, in acciaio, talvolta con inserti in bronzo. Era composta da una fitta trama di anelli metallici di diametro variabile dai 6 agli 8 mm. Il peso totale poteva raggiungere i 15 chili.

4 Cioè, secondo il nostro calendario, il 17 dicembre del 55 a.C.

5 Comprendeva le ore tra la mezzanotte e le tre del mattino.

6 Un asse corrispondeva a circa 13 grammi di bronzo.


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